Misericordia: il nome di Dio

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La Bibbia ci dice: “Dio è amore” (1Gv 4,8), cioè comunicazione di se stesso. Prima di tutto, Dio è comunicazione di se stesso nella Trinità. Dio non è un Dio solitario, il Dio trinitario è comunione. L’aspetto esteriore di quest’amore e di questa comunicazione in se stessa è la misericordia. Essa è la fedeltà di Dio a se stesso, che è amore. Poiché Dio è fedele a se stesso, egli vuole comunicare il suo essere prima nella creazione, poi nella storia della salvezza; egli non può fare altrimenti che perdonare e dare una nuova chance a ogni peccatore che si pente e si converte … Nella sua misericordia Dio apre il suo cuore e ci lascia guardare nel suo cuore. Così papa Francesco, quando gli ho dato il libro sulla misericordia solo qualche giorno dopo che era stato pubblicato in traduzione spagnola, mi ha detto: “Misericordia, questo è il nome del nostro Dio!”.

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Fede ad arte

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Tutte le immagini hanno uguale importanza? Assolutamente no. Alcune meritano di essere difese a qualunque costo dai cristiani, in quanto esprimono o ricapitolano ai loro occhi, in modo efficace e sintetico, quello che va professato e vissuto. Altre potrebbero essere tralasciate, e non sarebbe una grande perdita. Mi pare illuminante, comunque, lasciarsi guidare nel caso specifico da una delle più audaci innovazioni del concilio Vaticano II, nel quale si è parlato di “gerarchia delle verità”, “essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana”.

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L’anima della vita

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Con questa somiglianza il Nome benedetto ha creato l’uomo, e l’ha fatto dominare su miriadi di forze e su mondi senza numero. Li ha consegnati in suo potere perché li reggesse e dirigesse secondo i più piccoli movimenti delle sue azioni, parole e pensieri, e secondo i vari aspetti delle sue direzioni, sia verso il bene sia verso il suo contrario (non sia mai!). Poiché con le sue azioni, parole e pensieri buoni l’uomo sostiene e rafforza molte potenze e i santi mondi superiori, aggiungendo loro santità e luce, come sta scritto: “Porrò le mie parole nella tua bocca … per spiegare i cieli e fondare la terra” (Is 51,16). O, come hanno detto i nostri maestri: “Non leggere tuoi figli (banajikh) ma tuoi costruttori (bonajikh)”, perché essi mettono in ordine i mondi superiori, come un costruttore mette in ordine la sua casa, infondendo loro una grande forza.

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La chiesa ortodossa: tradizione e riforme

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La chiesa ortodossa ritiene di essere fedele alla tradizione apostolica e patristica. Essa situa se stessa nella continuità ininterrotta della chiesa primitiva, essa perciò non manca di ricordare continuamente di aver preservato inalterata e senza cambiamenti, sia nella lettera che nello spirito, la tradizione ereditata dai sette concili ecumenici del primo millennio e dai padri della chiesa indivisa …

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Chiedere perdono per costruire pace e giustizia

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Chi chiede perdono, e perché? A chi spetta concederlo? Per un cristiano, la richiesta di perdono per colpe commesse dai suoi “padri” non è frutto di una “strategia”, non è un’arma da usare per ottenere altrettanto dall’avversario, non è una sorta di “patteggiamento di pena”, ma è l’espressione di una consapevolezza, di una convinzione profonda che, illuminata dalla parola di Dio, porta a esclamare: “Anch’io e la casa di mio padre abbiamo peccato” (Ne 1,6), nasce da una convinta solidarietà con le generazioni che lo hanno preceduto nella fede e nella testimonianza cristiana. Nessun calcolo, quindi, nessun soppesare l’efficacia di una dichiarazione, nessuna pretesa di contraccambio, ma il dar voce a un cuore contrito, il sentirsi parte di una comunione di santi e di peccatori.

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Il poema della luce

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Se nella Bibbia la luce è legata al genere letterario del racconto, lo è altresì a quello della poesia. Vi è infatti qualcosa del mistero della luce, e soprattutto del mistero biblico della luce, che può dirsi solo poeticamente. La potenza della poesia è tale che, nello spazio e nel reticolo di qualche parola, un mondo si dischiude sotto i nostri occhi. Così il versetto 10 del salmo 36: “È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce”. Così Dio è la vita sotto la vita, l’acqua viva sotto la vita. O meglio, come si aggiunge nella seconda parte del versetto, è la luce della luce. Vedere la luce creata significa partecipare al dono di un Creatore che è lui stesso luce. Solo la poesia può osare una tale scorciatoia espressiva. Noi ci troviamo fra luce e luce, noi che “vediamo.

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Vedere più lontano

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I sensi resterebbero impotenti a metterci in movimento se un desiderio non li legasse al loro oggetto. La Bibbia presenta l’uomo come un essere di desiderio, assetato di felicità, assetato di Dio. Il desiderio è il motore che permette all’uomo, nel corpo e con il suo corpo, di innalzarsi a Dio, che è l’“oggetto” ultimo della nostra concupiscenza: “Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore non ha riposo finché non riposa in te”, canta Agostino. Massimo il Confessore non esita a dire che il desiderio dell’uomo troverà pace solo nel godimento di Dio, nell’esperienza sensibile di lui. Tale affermazione − che si radica nell’insegnamento della Bibbia − evidenzia l’unità fondamentale della persona chiamata, nella sua anima e nel suo corpo risorto, a godere di Dio. Dunque anche i sensi dell’essere umano non sono fatti per le mezze misure: così come il suo desiderio e la sua capacità di godimento, essi sono proporzionati a Dio. È appunto a livello di vocazione, questa nobilissima vocazione dei sensi corporei nel disegno di Dio, che si definisce il dramma del loro uso improprio. Se gli esseri umani si chiudono nel proprio godimento, scambiano i mezzi per il fine e si può allora dire con Paolo che “il ventre è il loro Dio” (Fil 3,19). È in questa capacità illimitata di bene o di male che risiede il bel rischio dell’uso dei sensi. Per questo è sempre necessario operare un discernimento. Bisogna distinguere due livelli: quello del corpo e della sensibilità da una parte, che aprono l’uomo all’incontro con l’altro e lo portano a compiere la sua vocazione, e quello della “carne” e della sensualità dall’altra, che possono rinchiuderlo nel godimento immediato e incentrato su di sé. Per non aver saputo discernere a sufficienza questi due livelli, talora si è confuso in modo grottesco − sia nella chiesa che fuori − ciò che aveva a che fare con il corpo con ciò che aveva a che fare con il peccato. È pur vero che il vocabolario del Nuovo Testamento stesso può apparire confuso. Quando si parla di “carne”, si parla della carne di Cristo (“Il Verbo si fece carne”: Gv 1,14), cioè di questa umanità nella sua condizione fragile di creatura, umanità che in Cristo diventa strumento di salvezza; o della “carne di peccato”, realtà astratta distinta dal corpo, nella quale si manifesta il peccato dell’uomo? È necessario conoscere questo retroterra biblico per interpretare correttamente i testi dei padri della chiesa e comprendere a quale “carne” si riferiscono. Per aver ignorato tale distinzione si è arrivati a sostenere che il cristianesimo propugna un “odio del corpo”, cosa che è un controsenso assoluto. L’accoglienza del sensibile nella vita spirituale è sempre stata oggetto di un animato dibattito all’interno della chiesa. È pertinente contrapporre fortemente i sensi spirituali ai sensi corporali? Non si potrebbe far emergere una continuità nel loro esercizio? Certo, qualcosa nei nostri sensi corporali qui sulla terra è legato alla figura di “questo mondo che passa” (cf. 1Cor 7,31), ma questo non ci impedisce di concepire un esercizio spirituale dei nostri sensi corporali, nella misura in cui Dio, che si è incarnato, da quel momento e per sempre si consegna in modo tale da essere percepito in maniera sensibile. Personalmente rimango nella convinzione che ogni mistica − anche le mistiche non cristiane, che tutte tendono verso l’unico mistero − è anticipazione della resurrezione finale dei corpi, la cui bellezza si offre già per un’esperienza di tutto l’uomo nel contatto con il corpo del Cristo risorto. Ed è proprio attraverso questo contatto, questo “corpo a corpo”, che l’uomo viene divinizzato. Questo presuppone una “trasfigurazione” dei nostri sensi corporali mediante la fede e il dono dello Spirito santo. Essi possono allora aprirsi alle realtà divine e vedere nel Cristo qualcosa di più di un semplice uomo; ma anche nella Scrittura santa qualcosa di più di semplici parole umane e nella creazione qualcosa di più di un dato materiale “in-significante”. Vedere più lontano, dunque, ma non vedere altro: è proprio vedendo Gesù di Nazaret che vediamo Dio, ascoltando le parole umane della Bibbia che ascoltiamo Dio.

Philippe Markiewicz, Ferrante Ferranti, Pietre vive