Realizzare la pace, edificare la comunità
Per capire in che modo possiamo lavorare per la pace perché Dio possa chiamarci suoi figli, può essere utile ricordare cosa vuol dire per Cristo essere chiamato Figlio di Dio. Nel Vangelo di Matteo, Cristo è chiamato “Figlio” due volte, e la voce viene dal cielo: la prima volta lungo il Giordano; la seconda sul monte Tabor. In entrambe le occasioni, sentiamo: “Questo è il mio Figlio amato, in lui mi sono compiaciuto” (Mt 3,17; 17,5). Cristo è il Figlio di Dio perché è in piena comunione con la natura di Dio, pienamente coinvolto nel volere di Dio. Piena comunione significa condividere tutte le risorse di Dio. E pieno coinvolgimento nelle beatitudini significa riflettere la pace e la giustizia di Dio. Anche se la comunione e il coinvolgimento di Cristo portavano alla morte in croce; e anche se ciò significava per lui porsi in diretto contrasto, anzi in contraddizione, rispetto al modo in cui la società intendeva la pace e la giustizia, egli continuò ad abbandonarsi al progetto e alla volontà di Dio.
Forse, allora, è importante smettere di misurare il progresso e il successo nel modo in cui li valuta la società. Il criterio del successo non può essere definito in termini quantitativi: per Cristo la fine è stata la croce, per Giovanni il Battista la fine è stata la decapitazione. Tuttavia, “diventare figli” implica anche qualcos’altro. Realizzare la pace significa edificare la comunità, e la comunità comincia riconoscendo la dignità di ogni persona, che è preziosa agli occhi di Dio. È per questo che, interrogato a proposito della grandezza, Cristo ha indicato un bambino e ha detto: “Se non cambiate [lett.: vi pentite] e non diventate come questo bambino, non entrerete nel regno” (Mt 18,2-3). Questo era un gesto radicale in un tempo in cui ai bambini erano negati i diritti umani e in cui i bambini non avevano accesso alle risorse fondamentali. Per la loro età e per la legge essi erano segregati dal resto della società. Quando oggi sento parlare di tratta dei bambini, mi chiedo quanto ci siamo davvero allontanati.
Certo, “operare la pace” è un lavoro duro. Eppure è la nostra unica speranza di restaurare un mondo in frantumi. Lavorando per la pace, lavorando per guarire l’ambiente, rimuovendo gli ostacoli alla pace, evitando ciò che arma il mondo, possiamo – almeno questo è ciò che ci è assicurato – udire una voce nel nostro cuore che dice: “Questo è il mio amato. Nel mio amato – e in lui, in lei, in te – mi sono compiaciuto”.