La comunità tra apertura e chiusura
Quando pensiamo al significato concreto della parola “comunità”, affiora nella nostra mente una forma particolare, che sia connotata come comunità familiare, religiosa, civile, scientifica, terapeutica e così via, essa risulta sin troppo definita e circoscritta, a dispetto dell’indole comprensiva e universalizzante del termine stesso. Il paradosso che l’accompagna scaturisce dall’antinomia per cui nella semantica di ciò che è comune coesistono apertura e pluralità, da un alto, e appartenenza esclusiva, dall’altro. Se la vita comune dà nella comunità e se però questa è un luogo, è chiaro che ci saranno alcuni che le sono interni e altri che restano puramente esterni. Lo schema dentro-fuori sembra costitutivo della possibilità stessa che si dia una comunità. Ma proprio in questo schema ricorre ostinato il pericolo più grande per la fisiologia della vita comunitaria. Infatti, non appena una data comunità cerca di far valere un suo progetto di identità e di unità per i molti, o addirittura per tutti, come se la sua particolarità potesse già incarnare e garantire l’universalità, allora essa diviene immediatamente oppressiva, totalitaria, integrista, invasiva, imperialista. Il presupposto cognitivo di questa degenerazione risiede, per un verso, nell’affidare l’identificazione della comunità ai parametri definibili tramite lo schema dentro-fuori e, per altro verso, nel credere a una derivazione o a una elezione esclusiva della comunità stessa da parte di un’origine: Dio, la patria, la razza e così via.
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