Un’umanità capace di solidarietà

7d8980463bb1fa0ca40ad62f8cbf9190.jpg

L’identificazione all’umanità sofferente avviene per Gesù attraverso la croce, a cui arriva in quanto condannato e suppliziato. L’umanità intera è così divisa in due: l’umanità sofferente e il suo carnefice.

Quando diciamo che l’umanità sofferente ci giudica, chi è il “noi” a cui si riferisce? Un “noi” che la fronteggia. Un “noi” che le è contrapposto non è un “noi” irresponsabile, un “noi” puramente spettatore. Nella misura stessa in cui noi non aiutiamo, in cui non testimoniamo, siamo corresponsabili di ciò che accade. La parte della personalità del “noi” che è in contrapposizione e sfugge alla solidarietà, inevitabilmente sarà un “noi” carnefice. Si passa in modo diretto dalla solidarietà allo stato di carnefice semplicemente perché non si interviene. In questo si è causa della solitudine, del dramma vissuto dall’altro. Tutto ciò che non è iniziativa di solidarietà, diventa responsabilità della solitudine.

Ogni atto della nostra libertà che non è un atto di solidarietà con l’umanità sofferente è un atto di rifiuto. Questo rifiuto si chiama peccato. Se fosse solo l’umanità sofferente a vivere questo, noi non saremmo che giudicati. Ora, il Cristo si fa solidale assumendo il destino dell’umanità sofferente nella sua pienezza, e prolunga questo destino con la scelta libera di farsi solidale anche con il peccatore. Non si fa solidale solo con la sofferenza di colui che subisce, per questo siamo a un tempo giudicati e riscattati. Nel mistero, il Cristo stesso si è reso solidale con l’umanità sofferente, portando la sua morte e subendo il nostro peccato. Egli capovolge la reazione, l’invocazione alla vendetta che nasce normalmente a fronte del nostro rifiuto verso questa umanità che soffre.

Dal momento in cui noi stessi accogliamo il suo perdono, nello stesso gesto, dobbiamo accogliere l’iniziativa dello Spirito in noi, che suggerisce di renderci solidali con questa umanità, nella linea precisa della solidarietà del Cristo.

Il primo modo che ci è proprio di dire “io”, di affermarci nella vita, di situarci in mezzo agli altri, implica e suscita un giudizio e una condanna da parte dell’umanità sofferente, anche quando essa non lo esprime. Ma il Cristo stesso è presente oggettivamente all’interno di questa umanità, con cui si è reso solidale, ed è capace di ribaltare questo giudizio, che è una condanna. Egli lo capovolge facendosi misteriosamente solidale con questa libertà che dice “no”.

In quel momento, noi stessi siamo presi pienamente attraverso la nostra miseria e la nostra povertà, e ugualmente siamo presi attraverso il nostro rifiuto. Siamo accolti nel nostro rifiuto stesso. Essendo presi interamente, è allora il momento preciso in cui noi possiamo accettare il Cristo come Signore. È il momento stesso in cui il suo Spirito propone alla nostra libertà di trasformare il nostro modo di dire “io”. Questo “io” che nella realtà rifiuta la presenza del povero è trasformato in un “io” capace di solidarizzarsi. L’“io” spontaneo dell’uomo non è capace di farsi solidale. È appena capace di venire a fianco, ma un “a fianco” che è ancora ad una distanza infinita. Non può essere un vero atto di solidarietà se non nella misura in cui accogliamo quella che lo Spirito vive in noi.

Dominique Barthélemy, Il povero scelto come Signore. La buona notizia à annunciata ai poveri