“Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo?”

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Gv 3,12

Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo?”.


Carissime amiche, carissimi amici,

oggi ci soffermiamo su questa domanda di Gesù, domanda da un lato quasi sconsolata e dall’altro molto provocatoria: Gesù fatica a scalfire i nostri cuori ottusi e lenti, e le sue domande sono un tentativo di scuoterci, riorientando nella giusta direzione la nostra ricerca di senso e di vita.

Ci troviamo all’inizio del Vangelo secondo Giovanni, nel bel racconto dell’incontro tra Nicodemo e Gesù. Nicodemo è un fariseo che viene di notte da Gesù per dialogare con lui, un dialogo intessuto di reciproche domande, quelle di Nicodemo che rivelano il suo desiderio di capire, di approfondire, e quelle di Gesù che lo invitano ad andare oltre l’evidenza per scoprire la narrazione delle cose del cielo scolpita nella materia delle cose della terra.

Questa è la pedagogia di Gesù che tutti gli evangelisti mettono in luce (pensate al discorso in parabole in Matteo, Marco e Luca, dove Gesù narra il Regno attraverso delle metafore tratte dal quotidiano del mondo agricolo: un agricoltore che getta il seme, un seme piccolissimo che cresce fino a diventare un albero; della zizzania che invade il campo dove è stato seminato il buon grano, e così via…), ma colpisce in modo particolare in Giovanni perché questo evangelista viene considerato quello della “teologia alta”, rappresentato fin dall’antichità dall’aquila, il rapace che vola alto con grandi e ampi volteggi… eppure anche lui lungo la narrazione del suo vangelo inserisce piccoli particolari tratti dalle cose della terra, dettagli molto concreti e materiali da cui prende avvio per poi dare spazio ai grandi discorsi di Gesù.

Eccovi, oltre il nostro testo, solo qualche esempio: il dialogo tra Gesù e la samaritana in Gv 4 trova spunto dal semplice e umanissimo fatto che Gesù è stanco e ha sete. Il lungo discorso di Gv 6 sul pane di vita scaturisce dall’episodio della moltiplicazione dei pani (su cui ci siamo soffermati la scorsa volta) dove i “protagonisti” sono cinque pani d’orzo e due pesci. Per parlare di sé Gesù usa immagini molto eloquenti per i suoi interlocutori (forse un po’ meno per noi): il pastore (Gv 10) e la vigna (Gv 15). Giovanni ama disseminare lungo il suo vangelo molti dettagli concretissimi: sottolinea, ad esempio, che le giare delle nozze di Cana contengono ciascuna da 80 a 120 litri; dice che “c’era molta erba” nel luogo della moltiplicazione dei pani; narra che Gesù guarisce il cieco nato facendo del fango con la sua saliva e la terra; alla resurrezione di Lazzaro, Marta fa notare a Gesù, dopo che questi ha comandato di togliere la pietra dal sepolcro: “Signore manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni!”; per l’unzione di Betania e per la sepoltura di Gesù si dice la quantità abbondante di olio profumato utilizzato per ungere Gesù; e i pesci che riempiono la rete dei discepoli che nella notte invece non avevano pescato nulla sono “153 grossi pesci”.

Questi sono solo alcuni esempi per dire come il vangelo, la buona notizia del Regno, sia narrato a partire dalle cose della terra. Perché questo?

Perché Gesù sa bene che per dire l’indicibile bisogna utilizzare un linguaggio accessibile a chi ascolta; perché Gesù è capace di abbassarsi al nostro livello come fanno un buon padre e una buona madre con i loro bambini quando insegnano loro a parlare partendo dalle parole più semplici ed essenziali, per poi arricchire sempre di più il vocabolario con termini più specifici e variegati.

Gesù è un buon osservatore e un buon pedagogo per questo può narrarci il volto del Padre, per questo può parlarci del Regno: egli parte da noi, dalle nostre situazioni spazio-temporali per condurci oltre lo spazio e il tempo, per condurci verso il Regno.

Ma noi siamo capaci di seguirlo o preferiamo “aderire a favole e genealogie interminabili, le quali sono più adatte a vane discussioni che non al disegno di Dio” come dice lapidariamente Paolo nella Prima lettera a Timoteo 1,4, proseguendo poi: “Alcuni si sono perduti in discorsi senza senso, pretendendo di essere dottori della Legge (ovvero maestri di altri), mentre non capiscono né quello che dicono né ciò di cui sono tanto sicuri” (1Tim 1,6-7).

È il rischio della chiacchiera su cui insiste tanto papa Francesco, è la tentazione di fare della fede un discorso astratto e astruso mentre la fede è una relazione concretissima, è adesione a una persona che ci ha narrato con la sua vita e con la sua morte l’amore del Padre, una narrazione fatta di parole e gesti quotidiani, semplici, accessibili a tutti. Scrive uno scrittore francese, Christian Bobin, in un librettino che è un gioiello, parlando di Gesù senza mai nominarlo:

Ciò che dice è illuminato da verbi poveri: ascoltate, venite, partite, ricevete, andate. Ignote quelle parole mezze velate, mezze consegnate, la cui oscurità permette ai potenti di consolidare la loro potenza (Ch. Bobin, L’uomo che cammina, Qiqajon)

Gesù ci chiede di cercarlo e trovarlo nel qui e nell’adesso, di farci attenti alla nostra terra e al nostro oggi per comprendere come essi ci narrano altro, ci insegnano il volto del Padre rivelato nel Figlio.

Gesù ci invita a collegare le nostre storie personali non solo alla grande storia dell’umanità, fatta di gioie e tragedie “globali” di cui noi spesso ci sentiamo impotenti spettatori, ma di percepire anche come entrambe queste storie sono inscritte in una terza storia, che va oltre, che attraversa lo spazio e il tempo, storia che viene detta “vita eterna” o “cielo” come nel nostro testo.

Gesù ci invita a non fare astrazione ma a seguire lui che ci prende per mano proprio nel qui e ora, nelle cose della terra, per condurci verso le cose del cielo: ma noi ci lasciamo prendere per mano? Noi ci facciamo attenti, cercando, interrogando, lasciando le domande anche aperte perché queste suscitino ulteriori approfondimenti, oppure pensiamo di sapere già tutto o di poter trovare ogni risposta consultando Google?

Sappiamo sostare per osservare un seme che germoglia e cresce, percependo che la natura, il creato, ma anche le dinamiche che viviamo, le persone che incontriamo, hanno qualcosa da insegnarci, qualcosa che è importante non solo, e non tanto, per aumentare il nostro livello culturale, le nostre conoscenze intellettuali, il nostro bagaglio cognitivo, ma soprattutto per imparare a vivere, ad amare, a superare con un cuore sempre più libero e dilatato gli scogli, le difficoltà, le paure?

“Se vi ho parlato di cose della terra e non credete” (Gv 3,12): se il Signore sta al nostro passo, al nostro livello, ma noi non abbiamo fiducia (questo significa credere), non cogliamo il nesso tra noi e lui, tra terra e cielo, allora come potrà il Signore dirci il senso di ogni cosa? Come potrà condurci attraverso le profondità della vita alle altezze di ogni origine?

Per passare, come Nicodemo, dalla notte delle nostre incomprensioni alla luce della verità occorre seguire Gesù attraverso i “campi della vita”, ascoltarlo narrarci il Regno mentre ci parla di fiori e grano, di albe e di tramonti, di pecore che si smarriscono e di tesori nascosti nel campo.

Allora, e solo allora, scopriremo che questo viaggio in compagnia di Gesù non ci porta lontano dalla nostra terra ma piuttosto ci fa penetrare più in profondità in essa, perché di essa noi siamo fatti, perché è essa che sarà trasformata dal Signore… sì, sarà lui che, con la tenace e tenera forza del suo amore e del suo spirito, trasformerà la nostra terra in “terra del cielo”.


DILLO CON UNA CANZONE

FABRIZIO MORO - IL SENSO DI TUTTE LE COSE