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Sorella Maria, respiro di fraternità

Sorella Maria: un respiro largo nella fraternità

"Ignazio, io sono pancristiana. Voi lo sapete, o più esattamente sono panica, né potrei non esserlo. Considero che le diverse Chiese Cristiane o i membri coscienti di queste chiese, sono chiamati a dare un loro contributo allo spirito ecumenico, gettando sale nelle acque malsane o insipide della nostra Cattolicità romana.".[1]

E' sorella Maria l'autrice di queste righe: le scrive il 12 aprile 1951 a Ignazio, nome con cui si rivolgeva – con riferimento al martire, vescovo di Antiochia nel II secolo, 'frumento di Cristo' - a don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo, predicatore infaticabile nell'Italia degli anni della guerra e del dopoguerra. Con lui Maria venne a contatto nel 1939, ed incontrò di persona poi una sola volta, ma mantenne uno scambio epistolare durato vent'anni fino al 1959, data della morte di don Primo.

Mariangela Maraviglia, storica pistoiese, ha curato l'edizione di questo carteggio pubblicata di recente dalle edizioni Qiqajon di Bose.[2] Dopo l'edizione dell'epistolario di sorella Maria e padre Giovanni Vannucci,[3] il presente lavoro costituisce un passaggio di approfondimento e di presentazione più accurata e contestualizzata del profilo di sorella Maria nel rapporto - questa volta - con don Mazzolari, appassionato predicatore della pace e di un rinnovamento della chiesa nell'orizzonte del farsi vicina soprattutto ai più lontani e ai più umili,[4] figura più studiata e conosciuta nella storia della chiesa italiana del Novecento.[5]

Si può dire che questa edizione, condotta in modo rigoroso su testi sinora conservati con attenzione e cura presso l'eremo, costituisca anche il frutto di un passaggio di maturazione della conoscenza di Maria di Campello che dai suoi testi emerge nel suo spessore di vita spirituale e quale punto di riferimento e di incontro per tante coscienze segnate da autentica passione evangelica.[6]

Sorella Maria, al secolo Valeria Pignetti nata a Torino nel 1875, entrò nel 1901 presso le francescane missionarie, ma presto maturò una vocazione alla vita nella preghiera, nel silenzio e nella fraternità. Nell'eremo di Campello diede inizio ad una famiglia in cui lavoro, preghiera, ospitalità furono le caratteristiche; ed, accanto a queste, l'amicizia con tanti e tante con cui si mantenevano relazioni epistolari, amicizia che ella ebbe a definire come sacramento di ogni momento.[7]

E' una figura che si potrebbe pensare 'minore' nella prima metà del Novecento che vide il sorgere di fermenti interessantissimi e vari di vitalità e creatività femminile nel mondo del cattolicesimo italiano. Questo per molti aspetti era impreparato ed insensibile ad accogliere istanze provenienti da donne che aprivano percorsi innovativi e profetici. Il contesto ecclesiale dei primi decenni del secolo era segnato pesantemente soprattutto in Italia, dall'atmosfera di sospetto da parte della gerarchia nei confronti di figure e movimenti che in qualche modo potessero dare spazio alle istanze presentate da quella molteplicità di percorsi e riflessioni che in modo semplificatorio venne indicato come il 'movimento modernista', condannato dall'enciclica Pascendi nel 1907.[8]

Sorella Maria, man mano che vengono pubblicati testi sinora inediti, rivela la sua grandezza spirituale ma attraverso di lei risalta anche la levatura di fede e di dedizione alla chiesa di figure come Ernesto Buonaiuti ad esempio a cui ella fu profondamente legata e che fu fratello dell'eremo di Campello: a lui Maria si rivolgeva con il nome di Ginepro.[9] Ma accanto a lui di tanti altri con cui sorella Maria fu in rapporto: un rapporto né di figliolanza spirituale, né di condizionamento, piuttosto rapporti adulti di fraternità.

Da quell'angolo nascosto dell'Umbria dove viveva, l'eremo di Campello, presso le fonti del Clitumno, sorella Maria tesse relazioni con gli spiriti segnati da inquietudine di fede e di testimonianza profetica: oltre ad Ernesto Buonaiuti – colpito da scomunica - con cui nutre un rapporto particolare, don Primo Mazzolari, don Brizio Casciola, padre David Turoldo, padre Vannucci, don Zeno fondatore di Nomadelfia, e, accanto ad essi, persone di diverse confessioni cristiane e religioni. Durante l'occupazione tedesca l'eremo accoglie alcuni ebrei tra cui bambini, Maria ha contatti con padre Monier, gesuita amico del grande orientalista Massignon, così come con Lanza del Vasto per il suo pensiero non violento. Tra altri anche con Adelaide Coari e Dorothy Day. All'eremo sono poi ospitati Friedrich Heiler, storico delle religioni, ortodossi russi, e Maria ebbe rapporti epistolari con Albert Schweitzer a cui inviò dei ceri come lumen Christi,[10] e con Gandhi. A quest'ultimo scrive, parlando di sé, nella sua prima lettera nel 1928: "Io appartengo a Cristo e sono italiana (…) Io sono creatura selvatica e libera in Cristo, e voglio Lui, con te, con voi, con ogni fratello cercatore di Dio, camminare per i sentieri della verità…".[11]

Maria, dalla periferia nascosta ove risiedeva, viveva come cuore pulsante di tanti rapporti di vicinanza e condivisione della passione per il vangelo.[12] La profondità di affetto e nel contempo la tensione spirituale che anima queste esperienze emerge dai toni del carteggio con il parroco di Bozzolo: si scorgono i tratti di una comunicazione viva tra l'infaticabile predicatore e la sorella impegnata a costruire nel ritiro dell'eremo una comunità di sorelle. La stessa Sorella Maria riconosce Primo Mazzolari la singolare capacità di simpatia umana e varie sono le espressioni di affetto intenso e delicato nelle lettere.[13]

La curatrice dell'epistolario ha compiuto una duplice operazione in questo puntuale lavoro di edizione: ha innanzitutto operato una presentazione ordinata e documentata dei testi. Lo scambio delle lettere è collocato nel contesto storico contemporaneo ed in quello della vita movimentata di don Mazzolari in anni intensi in cui egli andava pubblicando i suoi libri e curava la rivista quindicinale 'Adesso', ma anche viveva la sua militanza antifascista fino a dover entrare nella clandestinità tra il 1944 e il 1945. Nell'introduzione al carteggio sono inoltre posti in luce, a partire dagli scritti pubblicati, i tratti di una spiritualità che attraversa il tempo, una spiritualità dell'essenziale e della ricerca della semplicità cristiana.

Mariangela Maraviglia ci conduce anche a cogliere come i due siano uniti da una ricerca spirituale animata da un bisogno di più ampio respiro, nel riferimento ad una regola da considerarsi come attuazione del vangelo e nello spirito di ospitalità che si esprime come sensibilità ecumenica. Il fondamentale ed esigente riferimento a Cristo non si fa attitudine escludente ed identitaria, ma appassionata ricerca proprio nei rapporti con i lontani, comunione universale e accoglienza di ogni inquietudine religiosa. In Maria in particolare c'è un senso della sacramentalità di ogni gesto autenticamente umano e di ogni aspetto della vita nelle sue espressioni genuine, un senso del sacro che si mantiene nella sobrietà del cogliere le dimensioni più intime e nascoste del vivere delle creature.

Appare come proprio l''accoglienza del lontano sia la cifra che accomuna l'attitudine di Mazzolari e di sorella Maria nella diversità dei loro percorsi e delle loro esistenze.[14] Nell'espressione "io sono pancristiana. Voi lo sapete, o più esattamente sono panica, né potrei non esserlo" sta forse racchiuso il nucleo segreto della forza spirituale di sorella Maria, e della sua esperienza di fraternità - 'koinonia' ella la chiamava - di povertà e di incontro con Dio in una apertura radicale alla relazione.

"Ma anche ora le creature ci aiutano a vivere. Per esempio sono fioriti 144 gigli. E solo questa comunità di gigli insieme alle roselline selvatiche, così fragili, ha resistito al tremendo urto dell'uragano".[15] "Del resto quando contemplo il cielo e la stella della sera, quando posso servire ai più poveri e disperati fra i nostri fratelli e ricevere la loro benedizione, rientro nella pace del tutto".[16] Citando Bernardo fa proprio l'invito a cercare nei boschi e nella preghiera quello che non si è trovato sui libri.

Natura e rapporti umani, sguardo contemplativo e servizio nella concretezza dell'esistenza quotidiana, senso della vicinanza e della comunione con i poveri sono un primo tratto che risalta da questo scambio. Vi è una consapevolezza radicale di stare sotto il segno di una benedizione di Dio che la raggiunge attraverso le cose e i poveri.

La sua spiritualità affonda su di una limpida percezione evangelica, che apre le porte a percepire i rapporti come un 'imparare da tutti' e con lo stile del presentarsi di fronte agli altri mendichi di perdono e di tolleranza.[17] 'La minore' è infatti l'appellativo che si attribuisce firmandosi così nelle sue lettere. Ed è proprio la condizione di minorità quella che lei sente come propria: "Novizia sono sempre nella via del Signore, e sempre egualmente indigente nello spirito e nel corpo".[18]

Donna aperta ad un sentimento di presenza di Dio percepito nelle piccole cose e nei cuori soprattutto di chi sperimenta la ricerca dell'essenziale secondo il vangelo, la sua esperienza vive di 'ineffabile fraternità': scrive infatti che si trova a non dover "… ritardare la comunione con Voi, Ignazio, che date olio alla mia lampada, e della cui ineffabile fraternità tutti abbiamo bisogno".[19]

Il volto di sorella Maria che si delinea dalla testimonianza di queste lettere è quello di una donna aperta al senso profondo della benedizione di Dio, con tratti di trasparenza d'animo e purezza francescana. Si muove quale mendicante di piccole luci di gioia che chiede a chi è legata in fraternità, tra di essi a don Primo: "Accattateci anche la grazia di tener accesa a qualunque costo la piccola lampada della gioia. Dio quanta è sacra la gioia e quanto vorremmo non essere indegne di questa virtù augusta e suprema".[20] "E voi benedite il pane, benedite l'acqua, benedite il vecchio eremo ove si custodisce il fuoco sacro, e sosteneteci sempre con la vostra pietà e il vostro perdono".[21]

La sua semplicità è unita ad un interesse non erudito per letture di ogni tipo e aperte ai contributi di culture e religioni diverse: sono testi che gli vengono consigliati dai suoi corrispondenti, ed in particolare da Mazzolari è tenuta aggiornata con la lettura della rivista 'Adesso'.[22]

La semplicità e la libertà sono i due caratteri che maggiormente risaltano della sorella di Campello e la accomunano, pur nei modi diversi di attuazione, al prete cremonese: egli nelle lettere appare tutto preso dal dovere di una missione per una trasformazione della società in un riferimento radicale al vangelo come apertura al dialogo con tutti.

La minore parla della vita nell'eremo accennando alle fatiche a cui le sorelle sono sottoposte per il sostentamento quotidiano ma anche ai raggi di consolazione: "Per esempio la pietà scambievole, la breve pura salmodia".[23] La descrive come canto d'un ruscello, piccola fonte nell'aridità anche nei mesi brucianti. E' lei stessa, in tempi in cui la liturgia era in latino, a preparare la salmodia – trascrivendo e semplificando traduzioni che circolavano nell'eremo - perché fosse breve e pura: "la preparo via via per noi, come una volta, quando ancora potevo, preparavo il pane".[24]

Questi sprazzi uniscono la quotidianità colta nel suo spessore sacramentale e l'apertura contemplativa al senso della presenza di Dio da accogliere come infinità. E' un far propria l'esperienza di Francesco.[25]

Donna 'vicina', nell'esperienza del silenzio dell'Eremo scelta certamente come allontanamento forse da un mondo ma anche da una Chiesa troppo distratti per il compromesso con il potere e per le complicazioni che nascondono aridità spirituale.[26] Troviamo talvolta, accanto la sua firma, l'espressione 'così vicina' che esprime il senso profondo di fede della comunione quotidiana che lega i viventi con i defunti, coloro che ella definisce 'andati avanti'.[27]

L'ineffabile fraternità si declina in questi scritti anche come 'fraternità riverente', lontana da ogni spirito di zelo partigiano, sia esso politico, sia anche 'ecclesiastico'.[28] Non è affatto un'attitudine di facile sincretismo, è piuttosto definibile come una discesa alle profondità di ciò che è essenziale: "Io sono riconoscente e in venerazione per la Chiesa della mia nascita e della mia famiglia, ma la Chiesa del mio cuore è l'invisibile Chiesa che sale alle stelle, che non è divisa da diversità di culti, ma è formata da tutti i cercatori di verità".[29] Così, con 'parresia' evangelica e sincerità, scrive al Papa in un tempo in cui il cammino ecumenico era percepito con sospetto e come deviazione: "Per me la fraternità riverente verso le Chiese cristiane, verso i fratelli separati, verso ogni esperienza religiosa sincera, se pur diversa dalla nostra, è mandato inflessibile ed è anche luce sul cammino".[30]

Sorella Maria in questi scritti si staglia come donna forte, capace di resistere in un momento di malattia alla scandalosa richiesta presentatale dal confessore, per poter avere l'assoluzione, di abiurare l'amicizia con Buonaiuti: "Ho sempre cercato di non tradire la mia coscienza. Non potrei farlo in quest'ora estrema".[31] E riferisce proprio quest'episodio nella lettera al papa Pio XII di cui invia copia a Mazzolari.[32]

Silenzio, lavoro cammino: questi i tre semplici caposaldi di una vita vissuta nella fraternità, con un senso profondo di quella che si potrebbe definire una larghezza d'animo e di respiro: "andare al largo sì sì occorre, e respirare, e contemplare, se non sarete più o meno degli affrettati, dei racchiusi, con respiro affievolito e mentalità annebbiata".[33] Interessante è la sottolineatura del cammino come una tra le 'consuetudini disciplinate', lo stile di vita dell'eremo: un camminare quotidiano, con attenzione alle creature, che porti a scorgere i profili delle colline, apertura di respiro e di contatto con il creato e la comunione con i poveri, tutti i vicini e i lontani con necessità spirituali e materiali. Fra le 'consuetudini disciplinate' tutte finalizzate all'unica regola come rinnovamento continuo del proprio cuore in rapporto al vangelo, c'è, oltre al lavoro nella sua durezza, proprio la cura della corrispondenza e azioni semplici come impastare il pane, la pulizia, l'ascoltare musica con raccoglimento.

Pregio del lavoro di Mariangela Maraviglia è anche quello di guidare il lettore a cogliere la fecondità di questi testi e dell'esperienza di sorella Maria. Nella sua vita ella affrontò la prova e la fatica, e non solo a causa della malattia che segnò la sua esistenza. Erano tempi difficili, per il contesto internazionale, la guerra e il dopoguerra, ma anche difficili per la vita della Chiesa. L'epistolario attraversa gli anni della polarizzazione in Italia degli schieramenti politici in cui anche la chiesa italiana si confuse per molti aspetti in queste lotte ideologiche e fu preoccupata di perseguire forme di affermazione nella vita sociale e politica.

In questa temperie, nel nascondimento, ma in una radicale coerenza al vangelo e nella fedeltà a tante amicizie e percorsi spirituali ed umani, sorella Maria ha lasciato il suo seme. Si può forse ritrovare qui, nel suo sguardo fiducioso al vangelo sperando contro ogni speranza, il segno più bello della sua fede: fede in Dio che avvolge della sua misericordia ogni creatura, ma anche fedeltà a quei cercatori di Dio che anche nelle prove non cessano di continuare a domandarsi come 'essere figliuoli', e rifuggono gli apparati del potere e il frastuono. E' questo un seme che per vie misteriose ha fruttificato incontrandosi con sensibilità diverse nel tempo e che prosegue non nelle forme del potere o della visibilità dei mass-media, ma ai margini, sul confine, là dove si scorge la terra dell'altro: dall'esperienza di padre Giovanni Vannucci e dell'eremo delle Stinche nel Chianti, alla comunità di Bose, alla fraternità di Romena nel Casentino, tutte esperienze che riconoscono in sorella Maria un faro di riferimento evangelico.

Sta forse qui l'attualità del messaggio che da queste lettere proviene a noi, ed è posto in risalto dal commento della curatrice. Nei tempi diversi la ricerca dell'essenzialità, di un 'respiro più largo' per la fede e per la vita, l'accoglienza del lontano, la scelta della povertà come 'minorità', sono 'le cose che rimangono', e vale la pena orientare la vita e il percorso della fede su tale inquietudine che impone ogni giorno di ricominciare a costruirsi con un cuore di non violenza e a ricercare forme di comunità in coerenza con il paradosso evangelico.[34] Una semplicità cristiana da ritrovare in tempi di frastuono, in cui le aperture del Vaticano II trovano progressiva riduzione e sembra prevalere una proposta di cristianesimo come programma di religione civile.

"Sì, in una stagione culturale ed ecclesiale come quella odierna, è motivo di rendimento di grazie poter riscoprire che quando ci si nutre del vangelo è possibile parlarsi da cuore a cuore anche da lontano, perché nei giorni non facili di frastuono e di inutile chiacchericcio si preferisce tacere e ascoltare le voci buone e care che ci parlano in segreto".[35] Sorella Maria è certamente una di queste voci, e la sua testimonianza rinvia ad un atteggiameno profondo di ascolto di tante voci e di sguardo a tante luci. Come lei stessa ebbe a scrivere: "Abbiamo tanto bisogno di accendere la nostra piccola lucerna alla face dei grandi di ogni tempo e d'ogni popolo, e d'ogni forma di spiritualità sincera".[36]

Alessandro Cortesi op

20 settembre 2007

 


[1] let. 128, del 12.04.51, p.264.

[2] Sorella Maria di Campello, Primo Mazzolari, L'ineffabile fraternità. Carteggio (1925-1959), a cura di M. Maraviglia, Bose Qiqajon 2007.

[3] Sorella Maria, Giovanni Vannucci, Il canto dell'allodola. Lettere scelte (1947-1961), a cura di P. Marangon, Bose Qiqajon 2006.

[4] P.Mazzolari, I lontani. Motivi di apostolato avventuroso, Bologna Dehoniane 1981, 4 ed..

[5] M.Maraviglia, Primo Mazzolari. Nella storia del Novecento, Roma Studium 2000

[6] R. Morozzo della Rocca, Maria dell'Eremo di Campello. Un'avventura spirituale nell'Italia del Novecento, Milano, Guerini e Associati 1998)

[7] Quando parla del vincolo che unisce i fratelli indica quello dell'affetto, vincolo religioso per eccellenza, accanto ad esso il partecipare alla vita altrui con la preghiera "e con lo sforzo di ogni giorno per offrire la pace, pur nel travaglio e nella sofferenza" (allegato alla let.29, del 10.12.41, p.124)

[8] Cfr. P.Gaiotti de Biase, Le origini del movimento cattolico femminile, Brescia Morcelliana 2002 (2ed).

[9] Così sorella Maria lo descrive in una lettera in cui presenta chi sono i fratelli legati alla piccola famiglia di Campello: "Studioso, duro lavoratore, seminatore, viandante, giullare di Dio, fratello di tutti. Amatore degli uccelli (specialmente dei merli e delle allodole) e amatore di Beethoven. Terziario francescano. Tra Ginepro e la minore 'un vincolo infrangibile'".

[10] let. 195, del 24.12.54, p. 330.

[11] cit. in Morozzo dell Rocca, Maria di Campello, cit., p. 70.

[12] let. 1, del 5 marzo 1925, pp. 83.84: nella prima lettera inviata a don Primo, descrivendo le caratteristiche della sua esperienza a Campello parla della piccola comunità di sorelle come "piccola famiglia nell'ombra" (p.84) e come "gruppo di terziarie francescane secolari che viviamo insieme come sorelle" (p.83).

[13] let. 67, del 15.02.46, p.189. Don Primo viene riconosciuto come fratello dell'eremo a partire dal 1941.

[14] M.Maraviglia, Introduzione, p. 32. Ne La più bella avventura del 1934 Mazzolari sviluppa una lettura della parabola del figliol prodigo applicando alla vita della chiesa l'urgenza di conversione ad una accoglienza del lontano e nel contempo il coltivare una attenzione critica al 'vicino'.

[15] let. 37, del 9.06.42, p.134.

[16] Sorella Maria, let. 155 del 4.2.53, p. 290.

[17] let. 98, del 13.12.49, p. 222.

[18] let. 67, del 15.2.46, p. 189.

[19] ibid. p. 189.

[20] let. 65, del 23.10.45, p.183.

[21] let. 54, del 18.8.43, p. 170.

[22] M.Maraviglia, Chiesa e storia in 'Adesso', (1949-1959), Bologna Dehoniane 1991. Cfr. let. 93, p. 217.

[23] let. 65 del 23.10.45, p.184

[24] ibid. p.184.

[25] ibid. p.184: "Quanto si vorrebbe giungere alla semplicità del Poverello".

[26] Così don Mazzolari accennando ad una sua partecipazione alla settimana estiva dei laureati cattolici a Camaldoli: "Quello che ò sofferto a camaldoli, tra quell'aridità insopporabile di schemi e di cuori, non ve lo scrivo. O' reagito sino all'importunità. questa è un po' la mia vocazione e mi sforzo di compirla a qualsiasi costo. Non si può dormire quando il Cristo agonizza" (let. 23, del 3.09.41, p.112).

[27] let. 54 del 18.08.43, p.170 "Seguendo una pia credenza, tutta meridionale, del paese di alcune tra noi, immancabilmente ogni sera prepariamo con cura un po' di pane e una brocca d'acqua per i nostri Trapassati. Dice la commovente credenza che essi vengono nella notte e trovano ristoro in questa nostra sollecitudine d'amore, in questo nostro desiderio bruciante ch'essi partecipino pur sempre al nostro vivere"

[28] cfr. let. 67, del 15.02.46, p.189.

[29] lettera del 1932 cit. in R.Morozzo della Rocca, Maria dell'eremo di Campello, cit. p.77.

[30] let. al papa Pio XII, del 21.06.42, allegato alla let. 38, del 5.10.42, p.146;

[31] let. al papa Pio XII, del 21.06.42, allegato alla let. 38, del 5.10.42

[32] Maria comunica a Mazzolari che di questa lettera non ha avuto risposta. Mazzolari risponderà: "Che Vi rispondano o no, questo à poca importanza. Noi non ci facciamo molte illusioni sul progredire della larghezza spirituale in certi ambienti: ci basta conoscere il nostro dovere di figliuoli e pregare Iddio che ci aiuti a rimanervi fedeli a qualsiasi costo" (let. 39 del 29.10.42, p. 152). Nella let. 148 si attesa di una letterad aparte di G.B.Montini, sostituto della Segreteria di Stato di Pio XII che le comunica la benedizione del papa e una somma di denaro quale soccorso per la situazione precaria dell'eremo (let. 148, p.285-286).

[33] Allegato alla let.29, del 10.12.41, p.125; cfr. anche let.67, del 15.02.46, p.193: "Venite ad attigere alla fontanella del nostro silenzio e della nostra preghiera. E beneditela questa fontanella perché non s'inaridisca mai…" è l'invito che rivolge a don Primo.

[34] M.Maraviglia, Introduzione, pp. 70-74.

[35] E.Bianchi, Prefazione, p.7.

[36] lettera a mons.Celso Costantini cit. in R.Morozzo della Rocca, Maria dell'eremo di Campello, cit. p.75.

Le passioni dell'anima

Giovanni il Solitario, Le passioni dell’anima

Roma, 18 Novembre 2013 (Zenit.org) Robert Cheaib

L’opera della creazione in Genesi 1 si presenta come un ordinamento fatto di distinzioni e di polarità, quasi per invitare l’uomo a imparare a ricreare il proprio universo e la propria vita imitando Dio, mettendo ordine. Quest’arte di riordinare la propria vita e le proprie passioni è stata appresa e insegnata con maestria dai solitari delle varie tradizioni cristiane. Giovanni il Solitario costituisce uno dei grandi maestri della tradizione siriaca in questo campo.

Pur non essendo facile l’identificazione precisa di questo grande maestro, sappiamo della «influenza non trascurabile» che la sua originale dottrina ha esercitato su autori famosi come Filosseno di Mabbug, Giacomo di Sarug, Isacco di Ninive, Giovanni di Dalyata, Giuseppe Hazzaya, ecc.

Il libro Le passioni dell’anima – un classico della cultura monastica siriaca, tradotto per la prima volta in italiano – raccoglie quattro dialoghi di Giovanni il Solitario che testimoniano la facilità e la genialità con le quali ha navigato nell’ambito monastico, spirituale, ascetico e teologico-dogmatico.

Gli argomenti su cui vertono questi dialoghi con Eusebio ed Eutropio sono principalmente – come nota la preziosa introduzione di Marco Pavan – «la scansione della vita spirituale in tre gradi, corrispondenti alle tre dimensioni fondamentali della persona umana: corpo, anima, spirito». È un cammino verso la scoperta, o la riscoperta, di un ordine.

Vi è una capacità percettiva che l’uomo non può esercitare finché è prigioniero dei sensi. «Il corpo non può vedere con gli occhi ciò che non si può vedere se non con la mente». I sensi esteriori, infatti, non possono percepire la profondità dei misteri della creazione e non possono quindi da sé risalire verso «la sapienza nascosta delle creature dell’Onnipotente».

Una metafora efficiente nel pensiero di Giovanni il Solitario mostra la progressione che l’anima vive nell’intelligenza interiore delle realtà spirituali: è la metafora del concepimento del feto nel grembo e della nascita al mondo. Finché rimane al livello fisico o a quello psichico, l’uomo risulta come un feto nel grembo rispetto alla vita futura. Di quel mondo non può sperimentare niente con i propri sensi. Dopo la nascita, però, lo schermo è rimosso e l’uomo può guardare la realtà divina così come è e beneficiare della comunione piena con Dio.

Il più bel canto d'amore

Il più bel canto d'amore - Il Cantico dei cantici tra amor sacro e amor profano

Roma, 19 Dicembre 2013 (Zenit.org) Robert Cheaib

«Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei cantici è stato donato a Israele, perché tutte le Scritture sono sante, ma il Cantico dei cantici è il Santo dei santi», così il rabbi Aqiva, uno dei grandi maestri del Talmud, difendeva la sacralità del Cantico di Salomone. È in un certo senso a lui – umanamente parlando – che va il credito per l’inclusione del Cantico dei cantici nel canone giudaico e di riflesso nel canone cristiano delle Scritture.

A Iamnia (Javneh), dinanzi ai rabbini sospettosi della sacralità del Cantico –  dato il suo carattere particolare come «frammenti di un discorso amoroso», per prendere in prestito un titolo di Roland Barthes – rabbi Aqiva sosteneva che «nessuno in Israele ha mai contestato il Cantico».

Rimaniamo comunque davanti a un testo molto particolare in cui non viene pronunciato il nome di Dio se non una volta sola e in forma idiomatica (Ct 8,6). È un testo che ha avuto una ricchissima storia degli effetti e una strabiliante varietà di interpretazioni. Gli ebrei vi videro la celebrazione dell’amore tra Adonai e il popolo d’Israele. I cristiani, a partire da origene, vi leggevano l’amore tra Cristo e la Chiesa. Nella tradizione monastica, il Cantico sarà parte del linguaggio di meditazione e preghiera personale.

Il monopolio quasi totale della lettura allegorica verrà scosso dall’ascesa dell’esegesi storico-critica che porrà di nuovo il dilemma: cantico spirituale? O canto d’amore profano? Non sorprende in questo clima l’affermazione del teologo e martire luterano Dietrich Bonhoeffer: «Vorrei leggere il Cantico dei cantici come un cantico d’amore terreno. Probabilmente questa è la migliore interpretazione “cristologica”».

Nel libro Il più bel canto d’amore. Letture e riscritture del Cantico dei cantici, Enzo Bianchi raccoglie e presenta un’antologia di letture di «padri della chiesa, teologi, filosofi, scrittori, credenti ebrei e cristiani, non credenti contemporanei, per offrire un saggio delle diverse interpretazioni di questo canto sempre attuale, che diventa linguaggio spirituale o erotico in quanto lo assumono nelle loro storie personali».

Per assaggiare i contributi racchiusi nel volume, lasciamo la parola a Franz Rosenzweig che chiarisce che il senso profano e il senso sacro del Cantico non si escludono a vicenda, ma, anzi, si implicano e si necessitano:

«La metafora dell’amore attraversa, come metafora, l’intera rivelazione. Presso i profeti è la metafora sempre ricorrente. Ma deve essere ben più che una metafora. E tale è solo quando compare senza un “ciò significa”, quindi senza un rinvio a ciò di cui deve essere metafora. Non è sufficiente, dunque, che il rapporto di Dio con l’uomo venga raffigurato con la metafora del rapporto tra l’amante e l’amata; nella parola di Dio deve esserci immediatamente il rapporto dell’amante con l’amata, cioè il significante senz’alcun rimando al significato. E così lo troviamo nel Cantico dei cantici. In questa metafora non è più possibile vedere “soltanto una metafora”. Qui il lettore è posto, a quanto pare, di fronte all’alternativa tra l’accogliere il senso “puramente umano”, puramente sensuale (e certo allora finirà con il chiedersi per quale bizzarro errore queste pagine siano finite in mezzo alla parola di Dio) e il riconoscere che qui, proprio in questo senso puramente sensibile, direttamente e non “solo” metaforicamente si cela il significato più profondo.

[…]

«Non benché, ma proprio perché il Cantico dei cantici era un canto d’amore “autentico”, vale a dire “profano”, proprio per questo era un autentico canto “spirituale” dell’amore di Dio per l’uomo. L’uomo ama poiché Dio ama e così come Dio ama. La sua anima umana è l’anima destata e amata da Dio». 

La misteriosa compassione di Dio

La misteriosa compassione di Dio

Commento sulla Lettera ai Romani di Daniel Attinger

Roma, 08 Marzo 2014 (Zenit.org) Robert Cheaib

Pochi scritti neotestamentari si sono prestati a così tante bandiere come la lettera di san Paolo ai romani. Questa «enciclica» paolina, però, non è una cava da cui estrarre le pietre per comporne mosaici personalizzati a piacimento. La lettera è uno scritto unitario che ha una sua intenzionalità. Come ogni scritto, però, specie se antico, vi è una distanza incolmabile tra autore e lettore. Di questa distanza, Daniel Attinger – autore del volume Lettera ai Romani. La misteriosa compassione di Dio, Edizioni Qiqajon – è ben cosciente.

Il commento che ci presenta questo pastore riformato e monaco di Bose prende atto del fatto che «ogni scritto, dopo che è stato concluso, vive di una sua vita propria determinata anche dall’incontro con il lettore che lo legge con i propri occhi e con il proprio cuore». A partire da questa costatazione, il commento di Attinger si presenta scevro delle intenzioni polemiche e volto a evidenziare il cuore del messaggio paolino ben lontano dalle derive polemiche che pascoleranno nella lettera ai romani nei secoli successivi.

Attinger stesso contestualizza il commento così: «Andando avanti nella redazione di questo commento, mi sono accorto che Romani assomiglia alla Gerusalemme in cui vivo: più la si conosce, più appare impenetrabile, più si percepisce quanti sono i punti dei quali si dovrebbe dire: “Non li capisco”; attira e respinge nel contempo; ti affascina ma, allo stesso tempo, ti fa vedere quanto sei ancora uno straniero, la cui mentalità mai corrisponderà alla sua mentalità».

Ciò non di meno, Attinger individua – come già traspare dal sottotitolo del volume – il cuore pulsante della Lettera: quello della compassione giustificante di Dio che ingloba la lettera dall’apertura (la vocazione di Paolo messo a parte in vista dell’evangelo di Dio, nonché quelli che sono a Roma «amati da Dio e chiamati santi») fino all’epilogo in cui Paolo ribadisce il senso del suo ministero «per le genti, esercitando il sacerdozio dell’evangelo di Dio, affinché le genti siano un’offerta gradita giacché santificata nello Spirito Santo».

Tra libertà e amore

Christian Albini
in Sperare per tutti

            Questo 2015 è un anno giubilare per il monastero di Bose e per il suo fondatore e priore, Enzo Bianchi, di cui oggi cade il compleanno. É stato infatti nel dicembre 1965, alla chiusura del Concilio Vaticano II, che il giovanissimo Enzo iniziò la propria vita monastica sulla Serra d'Ivrea. Alla luce di questo anniversario, risulta ancora più significativa la lettura del suo ultimo libro, Nella libertà e per amore (Qiqajon).

            Il testo appartiene a un ambito forse meno conosciuto dai lettori, rispetto ad altri titoli di Enzo Bianchi, quello delle opere dedicate alla vita monastica come Non siamo migliori e Il mantello di Elia. Eppure, sono tra i suoi scritti più importanti, perché in essi rilegge la vocazione a cui ha dedicato la propria vita. Si comprende, allora, come questo libro assuma un valore di ricapitolazione e di consegna di quanto il suo autore ritiene maggiormente importante dopo essere passato al setaccio di mezzo secolo di esperienza.

Sarebbe sbagliato, però, pensare che quanto scrive abbia valore solo per i monaci. Certo, il monachesimo risponde a un'esigenza di radicalità cristiana che però il Vangelo richiede a tutti i cristiani.

Si tratta di un'esigenza assolutamente universale, di una condizione posta a tutti senza alcuna restrizione, dunque di una “conditio sine qua non” dell'essere cristiani. La radicalità evangelica non è delegabile ad alcune forme di vita religiosa, la sciando ai fedeli il semplice dovere di un'osservanza priva di radicalità. Diverse sono le forme concrete in cui viverla, ma la radicalità della proposta resta unica.

Enzo Bianchi, Non siamo migliori, p. 61

            Il monaco non è "più cristiano" degli altri battezzati e  il Vangelo non "chiede" al monaco più di quanto non chieda agli altri battezzati. L'Evangelo è uno e resta uno e la sequela del Signore o è radicale, almeno nella scelta, o non è. É significativo e non casuale che Bose abbia voluto recuperare, rispetto alla malattia del clericalismo, il carattere di laicità del monachesimo (“Noi siamo semplici laici senza importanza”, come diceva Orsiesi, discepolo di Pacomio).

            Piuttosto, il monaco è segno e memoria per gli altri battezzati del radicalismo cristiano nel suo vivere i consigli evangelici di obbedienza, castità e povertà. Questi ultimi hanno un valore universale, segnano la differenza cristiana in mezzo agli uomini, nel rapportarsi con le cose e con gli altri senza possederli, ma con gratuità, ricevendoli come dono e occasione di comunione. Il monachesimo li vive in una forma specifica, propria che è quella di un proprio modo di vivere le relazioni (il quale si esprime in una vita comunitaria distinta dall'ordinarietà della vita sociale e, in alcuni casi, in quella eremitica) e in un proprio modo di vivere il tempo.

            Rispetto alla relazione, aderire alla vita comunitaria, spiega Enzo Bianchi, è amare l'altro prima di conoscerlo, diversamente da quanto avviene invece nel matrimonio. Rispetto al tempo, il monachesimo è più orientato verso l'attesa della venuta del Signore che verso la storia, verso l'oggi di Dio piuttosto che verso l'oggi degli uomini. Non è una contrapposizione, ma una dialettica. Il monachesimo ci ricorda una qualità diversa dell'esperienza del tempo, ci aiuta a guardare oltre il presente. É un tema su cui rifletto spesso, avendo diversi amici monaci. E mi viene da dire che il mio "servizio" nei confronti del monaco è ricordargli che la sua vocazione non è solo per se stesso, ma per gli altri, per immettere segni di memoria e profezia nella storia. Altrimenti, il monachesimo rischierebbe di divenire una sorta di narcisismo spirituale.

Spero, ora, che si comprendano tre aspetti del testo di Enzo Bianchi su cui vorrei soffermarmi brevemente.

            1. Il monachesimo è un vivere altrimenti (p. 11), nel senso che ho cercato di spiegare. In un mondo ormai massificato e conformista, il monachesimo è forse l'ultima alternativa. O meglio, credo che lo sia il cristianesimo che ha bisogno del monachesimo per farne memoria. Non perché il monachesimo abbia una funzione specifica che non sia quella di vivere il Vangelo, ma perché nell'adesione a una comunità che comporta la rinuncia a un possesso esclusivo di persone, cose, luoghi, il monaco "ricorda" al cristiano che tutte queste realtà non sono da rifiutare. Sono buone, sono dono di Dio, ma vanno relativizzate, non assolutizzate, sono da vivere non per la gratificazione personale, ma per la comunione.

            2. Il monachesimo è un cammino di maturazione spirituale nella vita cristiana. In altre parole, "è una crescita sul piano umano e sul piano spirituale" (p. 25), perché crescere è la vocazione dell'uomo. L'umanità è la prima vocazione. Il cristiano non rifiuta l'umanità, cerca di portarla a compimento. La vita cristiana è umanizzazione, è realizzazione in noi dell'umanità di Gesù, è arte del vivere e del morire. Perciò, il monachesimo, nel momento in cui è libero da ogni altra funzione ecclesiale e sociale, è dedizione a quest'arte. Non nascondo che dai monaci ho imparato a sviluppare l'attenzione a realtà umane fondamentali come il silenzio, l'accoglienza, lo stare a tavola...

            3. Il monachesimo è un vivere nella libertà e per amore. 

Sottolineo questi due termini, perché sono le condizioni assolutamente necessarie per la vita cristiana: in libertate et in caritate. Credo che la tradizione spirituale dell'occidente non abbia sottolineato abbastanza questa duplice indispensabile condizione.

(...) non è la necessità che domina nella vita cristiana, ma è la libertà; non è il caso che vi ha il primo posto, ma è l'amore. Queste due parole, la libertà e l'amore, sono centrali nella memoria che facciamo di Cristo, al punto da caratterizzare l'etica cristiana. Se si vuole camminare alla sequela di Cristo, queste due condizioni sono imprescindibili (p. 26).

            La teologia e la spiritualità cristiana sottovalutano ancora oggi il valore della libertà, colto maggiormente dalla cultura moderna, che però degenera in individualismo, se non trova la sua realizzazione nell'amore. La vita monastica cerca di tenere assieme questi due poli e dispiega così la provocazione antropologica del cristianesimo alla nostra cultura. 

            Questo non significa che sia una vita idilliaca. Il libro ha il suo accento più intimo e personale nei cenni alla separazione e alla sofferenza che sono feriscono anche le relazioni in una comunità monastica. É una manifestazione del nostro limite, della nostra fragilità che non possiamo nascondere e ignorare, perché non siamo onnipotenti. Anche questo vale per tutti noi, ognuno con i propri fallimenti. La vita umana non è determinata dalla sua riuscita, che non è garantita, ma dall'assumersi il rischio di vivere.

            Il libro di Enzo Bianchi, per concludere, non è un trattato a tavolino; è l'espressione di un cammino e di una ricerca. Il valore dell'esperienza di Bose non sta nell'essere idilliaca o perfetta, ma nell'offrire una possibilità di vita buona per chi ne fa parte o anche solo vi transita, attorno alla Parola di Dio letta, ascoltata, ruminata, spezzata. Una vita, lo sottolineo ancora, profondamente umana per come si prende cura di ciò che cresce dalla terra, di ciò che si mangia, della bellezza, degli incontri, degli oggetti, dell'ospitalità. É la possibilità di una vita che dà valore all'umanità, direi meglio. Una vita così, concordo con Enzo Bianchi, non può essere solo una vita buona, correndo il rischio del moralismo, ma richiede un'arte di vivere per tentare di essere anche bella e felice. Insieme agli altri, mai da soli.

È ancora attuale vivere i consigli evangelici di obbedienza, celibato e povertà?

Leggi tutto: È ancora attuale vivere i consigli evangelici di obbedienza, celibato e povertà?Roma, 02 Febbraio 2015

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Sono dure quelle parole ciniche di Voltaire che afferma: «La vita monastica non deve essere invidiata per nessuna ragione. C’è un detto molto noto: “I monaci sono gente che si mette insieme senza conoscersi, vive senza amarsi e muore senza rimpiangersi”». Sono parole dure, ma soprattutto non vere... almeno non sempre… grazie a Dio! A testimoniarlo sono quelle schiere di veri fratelli e sorelle che, malgrado l’umana difficoltà e imperfezione del convivio, hanno sperimentato e sperimentano la vera comunione di co-pellegrini verso il Regno. A queste testimonianze si aggiunge quella di Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose, che, nel libro Nella libertà e per amore edito da Qiqajon, ci offre una testimonianza che raccoglie i frutti maturati in «quarant’anni di vita monastica intensa».

Il piccolo volume consta di cinque capitoli ove i primi due ripercorrono la dimensione profetica del «Vivere altrimenti» monastico attraversando le varie tappe della scelta monastica. Un primo tratto “scandaloso” di questo vivere altrimenti è la natura disinteressata e “inutile” della scelta monastica. Una persona sceglie la vita monastica non per una particolare utilità. Nelle parole di Bianchi: «Noi monaci “siamo là” e non abbiamo uno scopo, se non quello di tentare di vivere l’evangelo […] Non si fa carriera nella vita monastica, non ci sono promozioni: si resta sempre fratelli e sorelle, poveri laici. “Noi siamo semplici laici senza importanza”, come diceva Orsiesi, discepolo di Pacomio, all’arcibescovo Teofilo di Alessandria». Il monaco è una persona che abbraccia la dimensione di xeniteía, di “stranierità” caratterizzata dalla fuga mundi, la fuga dalla mondanità, da distinguersi nettamente dal fuggire il mondo inteso come cosmo, come umanità e creazione di Dio.

Gli altri tre capitoli offrono una ricca riflessione sui tre consigli evangelici professati dai monaci: obbedienza, celibato e povertà.

Obbedienza

L’obbedienza inizia «con il dire “sì” alla vita, con il dire un “Amen” capace di ringraziamento per il fatto di essere venuto al mondo. Questo comporta assumere se stessi, la propria origine, il proprio corpo, le proprie fattezze, le forze e le debolezze fisiche o psichiche inerenti all’essere viventi». È interessante quest’annotazione primordiale che non va tanto a un’obbedienza fatta di atti prima di passare per l’obbedienza fatta di essere, fatta con la pasta del nostro semplice esserci. «Chi non è capace di obbedire alla propria qualità di creatura, non sarà mai capace di obbedire né al Creatore né alla sua parola, da chiunque sia testimoniata».

L’obbedienza passa attraverso l’ascolto e l’obsequium alla parola di Dio nelle Scritture. Questo è il primo compito del monaco. Un’obbedienza fatta seguendo il modello di Gesù Cristo che è allo stesso tempo exéghesis del Padre (cf. Gv 1,18), ma anche esegesi dell’uomo.

Celibato

Così il celibato è una sana tensione che si vive nella comunione e nella missione. Bianchi cita Bruno Maggioni che spiega come per i primi discepoli «il celibato si configurava come un servizio al Regno condotto insieme: in comunione con Gesù e tra loro. Le due dimensioni sono inseparabili. Nella comunione si anticipa il Regno, nella missione ci si pone totalmente al suo servizio».

Il celibato è inseparabile dalla preghiera perché solo così si comprende la conformazione del monaco a Cristo, dove la dimensione orante esprime la dedizione totale dell’amore.

Povertà

La riflessione di Bianchi sulla povertà parte dalla considerazione germinale della «povertà della condizione umana». L’uomo, in fondo, è una «creatura limitata, fragile, precaria, contrassegnata dal bisogno e dall’ineluttabile morte». L’accettazione di questa nostra umanità è condizione preliminare per accettare anche la povera umanità degli altri, per poter vivere con loro.

La povertà è una dimensione fondamentale della spiritualità biblica espressa nell’Antico Testamento attraverso la categoria preferita dei ‘anawim, i poveri di Adonai (cf. Sof 2,3), ma anche nel Nuovo Testamento, nella figura di Gesù, il povero per eccellenza. Il quale «da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi della sua povertà» (2Cor 8,9). Il Figlio ha svuotato se stesso, rinunciando alle sue prerogative divine e ha assunto la condizione di servo. «Gesù ha voluto vivere la povertà radicale, ontologica della condizione umana, e ha fatto questa scelta per amore, per solidarietà con noi uomini e nella libertà dell’ékstasis trinitaria dell’amore».

Gesù è stato il povero per eccellenza, non nel senso sociologico del termine, ma nel senso di una povertà di ‘anaw, di “mite e umile di cuore”, di uomo di condivisione e di comunione. Per questo Bianchi sottolinea il senso della povertà nel vivere l’agape, la condivisione, nel lavorare con le proprie mani, nell’aiutare i poveri e nella sobrietà della vita.

La testimonianza di Bianchi è un ricco invito a riflettere in modo rinnovato sul senso della testimonianza profetica della consacrazione monastica e sul senso antropologico, biblico e teologico dei sempre attuali consigli evangelici.

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Al centro delle cose

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Paul Klee (1879-1940), Attorno al centro, 1935.
Copertina del fascicolo di Anne-Marie Pelletier,L’interiorità che ci accomuna.

Se vogliamo arrivare al centro delle cose dobbiamo guardare con attenzione. Klee cominciava a disegnare senza avere in mente un soggetto preciso, poi era il segno inciso che gli rispondeva attraverso delle somiglianze

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