Partenza

Essere pellegrini à mettersi in strada e partire, abbandonare il proprio universo familiare per trovare la felicità, o quanto meno questo è quel che si spera con tutto il proprio essere. In effetti, ciascuno ha momenti in cui sente una voce interiore, appello misterioso e insieme discreto a mettersi in cammino verso un altrove, del quale le strade tracciate sulle carte del mondo non sono che il segno visibile, la traccia o il vettore. Essere pellegrini equivale a segnare una pausa nel ritmo folle dei giorni, in quello della noia o della solitudine, e anche in quello delle preoccupazioni e dei deserti interiori, in attesa di una risposta dal cielo e nella convinzione che essa può giungere, o per lo meno conservandone tenacemente la speranza. Essere pellegrini è quindi lasciare il proprio luogo e rompere con il quotidiano. Lasciare la cerchia familiare della casa, del quartiere, del villaggio o della città, della gente che si conosce, dei riferimenti divenuti troppo familiari o senza speranza. È rompere il ritmo del lavoro dove l’uomo lentamente regredisce di fronte agli imperativi economici o tecnici. È esporsi alla novità, alla sorpresa, alla differenza, all’incontro. Non c’à nulla che dica in anticipo chi si incontrerà lungo la strada, ma, con appena un velo di apprensione, il pellegrino spera l’incontro. Partire significa perdere dei punti di riferimento nella speranza immensa, o folle, di guadagnare tutto. Essere pellegrini, in effetti, significa sempre staccarsi a poco a poco dalle proprie certezze, quelle che gli altri spesso identificano meglio di noi, e che a volte rendono le persone così resistenti alla comunicazione. Essere pellegrini è riprendere il libro della propria vita voltando pagina e senza fretta di scrivere su quella intonsa, forse addirittura supplicando il cielo che nulla vi si inscriva prima che il vento e le intemperie abbiano a lungo coniugato i loro sforzi per dettare un’esperienza nuova, inedita. Essere pellegrini à rompere con le preoccupazioni, quelle buone e le altre, e a poco a poco anche con le angosce, che a volte pesano. È fare una sosta, concedersi una tregua nei ritmi implacabili. Accordarsi segretamente la libertà di ricominciare tutto da capo, senza costrizioni, dal momento che il viaggio del pellegrino à una specie di allenamento che permetterà in seguito di riprendere in modo diverso la tessitura dei lavori e dei giorni intrapresi da... sempre, in realtà! Perché il pellegrinaggio à sempre uno sconvolgimento, un’occasione per uscire dall’assetto costituito. E rappresenta l’opportunità di un incontro dal quale ci si attende quella che bisogna proprio chiamare, quali che siano le forme che può assumere, con il nome di “guarigione”, altro termine per dire “conversione”, cioè quel misterioso turbamento interiore che coinvolge l’intera esistenza. E questo ciascuno lo sa per esperienza, perché in realtà parlando di pellegrini non parliamo degli altri, ma di noi stessi (J. Niueviarts,  {link_prodotto:id=869}. Manuale per chi cammina, Qiqajon, Bose 2009, pp. 15-17).

La speranza tiene l’uomo in cammino

 Ilario di Poitiers, nel suo Commento ai Salmi (118,15,7), riporta la domanda di molti che gridano ai cristiani: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Questa domanda deve essere assunta dai cristiani e dalle chiese di oggi come indirizzata direttamente a loro. Poco importa che in essa possano esservi toni di sufficienza o di scetticismo: il cristiano sa che per lui la speranza è una responsabilità! Di essa egli è chiamato a rispondere a chiunque gliene chieda conto (1 Pietro 3,15: «siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi chieda della speranza che è in voi»). Questa responsabilità oggi è drammatica ed è una delle sfide decisive della chiesa: è in grado di aprire orizzonti di senso? Sa vivere della speranza del Regno dischiusale dal Cristo? E sa donare speranza a vite concrete, aprire il futuro a esistenze personali, mostrare che valla pena di vivere e di morire per Cristo? Sa chiamare alla vita bella e felice, buona e piena perché abitata dalla speranza, sull’esempio della vita di Gesù di Nazaret??Queste domande non possono essere eluse, soprattutto oggi che gli orizzonti culturali mostrano una profonda asfitticità ed è difficile formulare speranze a lunga durata, capaci di reggere una vita. Nella «società dell’incertezza» (ben descritta da Zygmunt Bauman), nell’epoca posta sotto il segno della «fine» (di secolo, di millennio, della modernità, delle ideologie, della cristianità), nel tempo della frantumazione del tempo, in cui anche le poche speranze che si aprono faticosamente un varco nella storia sono irrimediabilmente di breve durata, non hanno tempo a consolidarsi, ma sono esposte a imminente smentita, suona ormai in modo drammatico la domanda: «Che cosa possiamo sperare?». E colpisce che l’insistenza sull’avvento del nuovo millennio si accompagni nella chiesa a questa paurosa incapacità di aprire varchi verso il futuro, di mostrare concrete e vivibili strade di speranza e di progettualità, di dare speranza e di essere presenza significativa soprattutto per coloro che nel futuro hanno il loro orizzonte prossimo: i giovani.?L’impressione è che oggi il nemico della speranza sia l’indifferenza, il non-senso o quanto meno l’irrilevanza del senso. La stessa insistenza della pastorale cattolica sulla carità e sul volontariato ha, oltre ai tanti aspetti positivi, anche l’aspetto del ripiegamento sul presente, sull’oggi, sull’azione da compiere nei confronti del bisognoso; il tutto all’interno di una scelta che è a tempo e può sempre essere ritirata, che non impegna il futuro. Di fronte a tutto questo si situa la domanda: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Perché la virtù teologale della speranza deve essere visibile, vissuta, trovare un dove, un luogo: altrimenti è illusione e retorica! Un bel testo di Agostino dice che «è solo la speranza che ci fa propriamente cristiani» (La città di Dio 6,9,5). Cioè, il cristiano non vive cose e realtà altre e nuove, ma sostanzia di un senso nuovo e altro le cose e le realtà, e anche tutti i rapporti. Né il problema è definire la speranza, ma viverla. Certo, possiamo dire che la speranza è «un’attiva lotta contro la disperazione» (G. Marcel), è «la capacità di un’attività intensa ma non ancora spesa» (E. Fromm), ma soprattutto è ciò che consente all’uomo di camminare sulla strada della vita, di essere uomo: non si può vivere senza sperare! Homo viator, spe erectus: è la speranza che tiene l’uomo in cammino, in posizione eretta, lo rende capace di futuro.?Il cristiano trova in Cristo la propria speranza («Cristo Gesù, nostra speranza», 1 Timoteo 1,1), cioè il senso ultimo che illumina tutte le realtà e le relazioni. In questo senso, la speranza cristiana è un potente serbatoio di energie spirituali, è elemento dinamizzante che si fonda sulla fede nel Cristo morto e risorto. La vittoria di Cristo sulla morte diviene la speranza del credente che il male e la morte, in tutte le forme in cui si possono presentare all’uomo, non hanno l’ultima parola. Il cristiano narra perciò la propria speranza con il perdono, attestando che il male commesso non ha il potere di chiudere il futuro di una vita; narra la speranza plasmando la sua presenza tra gli uomini sulla fede che l’evento pasquale esprime la volontà divina di salvezza di tutti gli uomini (1 Timoteo 2,4; 4,10; Tito 2,11); soprattutto narra la speranza vivendo la logica pasquale. Quella «logica» che consente al credente di vivere nella fraternità con persone che non lui ha scelto; che lo rende capace di amare anche il nemico, l’antipatico, colui che gli è ostile; che lo porta a vivere nella gioia e nella serenità anche le tribolazioni, le prove e le sofferenze; che lo guida al dono della vita, al martirio. Se dobbiamo vedere oggi nella chiesa delle autorevoli narrazioni della speranza cristiana è proprio alle situazioni di martirio e di persecuzione che dobbiamo guardare. Lì la speranza della vita eterna, della vita in Cristo oltre la morte, trova una sua misteriosa, inquietante, ma concretissima e convincente narrazione. Lì appare credibile ciò che ancora Agostino ha scritto: «La nostra vita, adesso, è speranza, poi sarà eternità» (Commento ai Salmi 103,4,17)

E. Bianchi, Le parole della spiritualità , Rizzoli, Milano 2004

 

Piccoli maestri di cammino

Nella sala del monastero di Pedralbes, a Barcellona– uno dei grandi monumenti del gotico catalano – che ospita una sezione della collezione Thyssen-Bornesmisza, si nota, fra i poco numerosi visitatori, una coppia di padre e figlio. Il primo è un lindo signore di circa settantacinque anni, piccolo di statura e dall’aria tranquilla, e conduce per mano l’altro, evidentemente affetto dalla sindrome di Down. I due, davanti a me, si fermano di fronte a ogni quadro e il padre spiega al figlio, sempre tenendolo per mano, la Vergine dell’umiltà del Beato Angelico, tema prediletto degli ordini mendicanti, l’ombra da cui esce il Ritratto di Antonio Anselmi di Tiziano, il canarino che scappa dalla sua gabbia nel Ritratto di un Dama di Pietro Longhi. Il figlio sta a sentire, accenna con la testa, mormora ogni tanto qualcosa; può avere quaranta o cinquant’anni, ma ha soprattutto l’età indefinibile di un bambino avvizzito. Il padre gli parla, lo ascolta, gli risponde; probabilmente è da una vita che fa questo e non sembra né stanco né angosciato, ma compiaciuto di insegnare al figlio ad amare i maestri. Giunto davanti al Ritratto di Marianna d’Austria, regina di Spagna, si china per leggere il nome dell’autore, poi si rizza di scatto e, rivolgendosi al figlio, gli dice, in un tono di voce un po’ alto: “Velázquez!” e si toglie il cappello, alzandolo il più possibile. La croce, che, con la minorazione del figlio, gli è stata gettata addosso da un’ingiustizia imperdonabile non ha curvato le sue spalle, non lo ha piegato e incattivito, non gli ha tolto la gioia di riconoscere la grandezza, renderle omaggio e farne partecipe la persona per la quale verosimilmente vive, suo figlio. Spesso il dolore stronca, inacidisce, spinge comprensibilmente a negare ciò che altri, ai quali la sorte è stata prodiga di doni, sono riusciti a creare ottenendo la gloria nel mondo; soprattutto una pena che costringe all’ombra, come quella della minorazione, rende difficile rallegrarsi e godere dello splendore raggiunto da un altro. Quel gesto rispettoso e festoso di togliersi il cappello è un gesto regale e lo è ancor più l’evidente piacere col quale il vecchio comunica il suo entusiasmo al figlio. Quell’amore paterno e filiale fa sì che quelle due persone si bastino, come si basta l’amore. È davanti a quell’uomo, che senza saperlo è divenuto per me un piccolo maestro, che c’è da togliersi il capello (C. Magris, L’infinito viaggiare, Mondadori, Milano 2005, pp. 18-19).

Siamo tutti forestieri

Riconoscete il dovere dell’ospitalità: essa è stata la strada per giungere a Dio. Tu accogli uno come ospite, ma anche tu sei suo compagno di viaggio, poiché tutti siamo forestieri. È un autentico cristiano chi riconosce di essere forestiero perfino nella propria casa e nella propria patria. La nostra patria è nel cielo; lì non saremo ospiti. Ora invece quaggiù anche nella propria casa ciascuno di noi è ospite (Agostino d’Ippona, Discorso 111,4).

Leggere è camminare

Leggere è camminare, procedere lungo lo stretto sentiero delle parole, con gli occhi fissi sul punto dove appoggiarsi, con gli occhi anche alzati a ogni curva di strada, a ogni cresta, quando si apre l’orizzonte e si intuisce meglio la strada percorsa e quella che attende. Grazie a Dio, la lettura non c’entra niente con gli sport motorizzati; si fa a piedi, passo dopo passo, poiché “le parole sono cammini” (Yehuda Amichai). Tutt’al più si può accelerare il passo, e leggere a grandi passi (ma leggere in diagonale è già leggere un altro testo). Chi segue un sentiero segnato non ha più nulla da imparare: le carte sono preziose, ma il sapere panoramico che dispensano non è quello della strada. Come dimenticare l’avvertimento di Antonio Machado: “Viandante, le tue orme sono / il cammino, e niente più; / viandante, non c’è cammino, / se non andando avanti”. Chi ha letto un racconto, una poesia, un discorso lo sa bene: il sapere dall’alto, di strutture e di piani, non è quello dell’attraversamento del libro. Non vi è nulla come l’esperienza del procedere, lungo il sentiero e la pagina, nello spazio e nel tempo. Di Noè si dice: “camminava con Dio” (Genesi 6,9). L’ebreo dice con una forma riflessiva, hithallekh: “Noè camminava con se stesso in compagnia di Dio”. Questa forma del verbo è quella del cammino proprio della lettura, dove si procede “custodendo con sé le cose”. Dove si fa memoria del cammino percorso, si fan previsioni di quanto si annuncia, e ci si arrende alle sorprese che il cammino riserva. Dove si avanza sotto il peso di domande: per Giacobbe tornare nel paese non significa affrontare Esaù, il fratello che ne vuole la morte? Dove si procede chiarendole: ha paura, infatti, Giacobbe, che si ripara dietro la carovana delle donne e dei bambini e dei doni che invia al fratello. Dove si è colti di sorpresa: quale cammino ha compiuto Esaù per precipitarsi a baciare così Giacobbe (cf. Genesi 32-33)? Nessuna mappa, nessun grafico, nessun commento si sostituisce al cammino della lettura, a questo tragitto che sollecita, tra il prima e il dopo, tutte le potenze dello spirito (J.-P. Sonnet, Le chant des montées. Marcher à Bible ouverte, Desclée de Brouwer, Paris 2007).