Accogliere il perdono

Perdonare a se stessi è impossibile. Nessuno ha il diritto di dire: "Ho commesso un peccato, il mio comportamento verso quella tal persona è stato indegno, mi sono macchiato, ma questo appartiene al passato, ora posso non pensarci più". Sarebbe come legittimare la propria con­dizione di peccato, affermare il diritto di essere indegni di se stessi, di Dio, del prossimo, della vita. Per questa ragione l'uomo non può mai perdonarsi da solo, né possiede il diritto di per­donare se stesso. D'altra parte - e questo è al­trettanto importante -, l'uomo deve essere in grado di accogliere il perdono che gli viene ac­cordato. Noi non abbiamo il diritto di respinge­re, di rigettare, di sconfessare il perdono accor­datoci, e accordatoci sempre a un certo prezzo, da Dio o da una persona. Quando la persona che abbiamo offeso, dopo aver superato lo stra­zio della sua sofferenza, ci dice: "Che la pace sia ora tra noi, la ferita che mi hai inflitto si è cica­trizzata, il dolore è passato, avresti potuto ucci­dermi ma per grazia di Dio sono rimasto vivo, ti amo abbastanza per accordarti quella pace che il Signore ha deposto nella mia anima", noi dob­biamo allora essere in grado di fare la pace e di accogliere il perdono.

Spesso è il nostro orgoglio a impedirci di ac­cogliere il perdono: come posso accoglierlo, e nello stesso tempo riconoscermi realmente col­pevole? Sono cosciente che non posso fare nulla per me e che solo colui che ho avvilito, offeso, spogliato, può ristabilirmi nella mia dignità di uomo. Come posso dipendere dagli altri fino a tal punto? Può essere molto difficile accogliere il perdono proprio a causa di questo orgoglio, per­ché noi non vogliamo essere ristabiliti nella no­stra dignità per effetto della compiacenza altrui, vogliamo possedere in noi stessi questa dignità, oppure acquisirne il diritto grazie ai nostri sfor­zi. Ma il diritto al perdono è qualcosa che nes­suno ha mai acquisito con le proprie forze, pro­prio come nessuno ha mai acquisito il diritto di essere amato. Ricevere il perdono significa sem­pre che qualcuno ci ha amato abbastanza da pren­dere su di sé il nostro peccato ed eliminarlo in se stesso. Ecco perché dobbiamo essere pronti a sot­tometterci, a ricevere questa umiliazione salvifi­ca. E solo nella misura in cui potremo riceverla con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra co­scienza, noi saremo sulla via della guarigione.
E così che Cristo ha "guarito" Pietro, cioè ha ristabilito nella sua integrità colui che era cadu­to in pezzi a causa del suo rinnegamento. In cer­to qual modo egli ha raccolto insieme tutti quei pezzi, e ne ha fatto un uomo integro. Questo spiega perché Pietro possa poi parlare con Cri­sto con tanta confidenza, come da pari a pari. Quando il Salvatore gli dice: "Seguimi!" (cf. Giovanni 21,15-23), Pietro lo segue ma, volgendosi, scor­ge a una certa distanza Giovanni e chiede al Sal­vatore: "E a lui che cosa succederà? Tu mi hai restituito alla vita; non ha forse bisogno anche lui di essere restituito alla vita?". Qui il Salva­tore lo riprende con severità: "Quello che farò con lui riguarda me; tu seguimi". Queste parole Gesù le rivolge anche a ciascuno di noi, a condi­zione che siamo passati attraverso questa prova del fuoco, che siamo stati consumati dalla ver­gogna, che abbiamo accettato di accogliere quel dolore acuto e indicibile che può colpirci quan­do prendiamo coscienza della nostra condizione di peccato.

Ha inizio allora la gioia, gioia del pentimen­to. Nel libro del padre Sofronio su Sil­vano del monte Athos l'autore racconta che un ragazzo del villag­gio di Silvano commise in giovinezza un delitto e fu rinchiuso in prigione dove scontò la pena; in seguito Silvano vide questo ragazzo suonare la fisarmonica e danzare a una festa del paese. Rimase scandalizzato e gli si avvicinò per dirgli: "Come puoi danzare e rallegrarti dal mo­mento che hai ucciso un uomo!". E quell'ex cri­minale gli rispose: "E vero; ma mentre ero in prigione mi sono pentito completamente, e d'un tratto ho sentito che Cristo mi perdonava; ora sono una nuova creatura".

Ecco cosa può compiere il pentimento: una vi­ta nuova, una restaurazione, una nascita dall'al­to. Questa può essere anche solo parziale, o sem­plice preludio alla vita eterna, ma alla vita eter­na che viene con potenza e che pervade l'uomo intero.

A Bloom, {link_prodotto:id=338}, Qiqajon, Bose 2002

Non so che co­sa confessare

Succede di frequente che qualcuno vada a confessarsi dicendo: "Non so che co­sa confessare, è sempre la stessa cosa". Queste parole denotano una colpevole carenza di atten­zione nei confronti della vita. Alla sera di una qualunque giornata, c'è qualcuno di noi che può davvero dire di aver compiuto tutto quello che era possibile, di aver attivato tutte le sue capaci­tà, di aver avuto pensieri e sentimenti di purez­za irreprensibile, di non aver trascurato nessu­na attività che poteva e doveva compiere, e che neanche una delle sue azioni sia stata toccata dall'imperfezione? Chi può dire che i suoi pen­sieri non sono stati confusi, che il suo cuore non si è offuscato, che la sua volontà non ha vacilla­to, che il suo comportamento e i suoi desideri non sono stati toccati dall'indegnità?

Se qualcuno viene a confessarsi dicendo: "Non so cosa dire", questo significa che egli non ha mai riflettuto a quello che potrebbe - e di con­seguenza dovrebbe - essere, e che si accontenta di confrontarsi con ciò che era il giorno prima, o con altre persone malvagie quanto lui.
E quando diciamo che anno dopo anno ve­niamo a ripetere sempre le stesse cose, questo prova che non abbiamo mai provato né vergogna né dolore, e accettiamo con una perfetta indif­ferenza la nostra condizione di peccatori. "Ef­fettivamente io mento, ma tutti mentono! Sono causa di scandalo, ma tutti sono causa di scan­dalo! Dimentico Dio, ma come faccio a ricor­darmi di lui? Davanti a quelli che hanno biso­gno di me passo oltre: ma andiamo, non ci si può fermare davanti a ognuno!". E via di segui­to... Se potessimo anche solo una volta vedere - come Dio le vede - le conseguenze dei nostri atti o della nostra inazione! Se solo potessimo vedere quali conseguenze possono generare nel­la vita altrui una parola detta o non detta, l'ese­cuzione o la non esecuzione di un atto, vedere fino a che punto una parola può rivelarsi decisi­va nel destino di un uomo, o un servizio reso prontamente in quello di un altro!

Ma se diamo prova di una tale indifferenza verso noi stessi, è evidente che daremo prova di un'indifferenza ancor maggiore verso gli altri; ciò che avviene loro ci lascia completamente estra­nei. Ecco perché veniamo a confessare sempre le stesse identiche cose, perché non ci siamo ac­corti neanche una volta che esse ci rendono mo­struosi, che noi cessiamo di essere a immagine di Dio, quell'immagine che è inscritta nelle pro­fondità del nostro essere. L'immagine ci è stata in qualche modo affidata, e di volta in volta la distruggiamo, la oscuriamo, la profaniamo, sia con la nostra negligenza, sia per qualche acces­so di cattiveria, e non si tratta assolutamente di una cattiveria passionale, ma di una cattiveria mediocre, insignificante.

A. Bloom, {link_prodotto:id=338}, Qiqajon, Bose 2002

Sì, io ti amo!

Quando si prende coscienza del proprio peccato, sono due i pericoli da evitare: da un lato quello di cadere nella disperazione, dall'altro, al contrario, quello di assuefarsi alla propria con­dizione. Si ripensi al racconto evangelico in cui Pietro si vanta dicendo che avrebbe seguito il suo Salvatore fino alla morte e che nessuno avrebbe potuto allontanarlo da Cristo. Una volta che il Salvatore fu gettato in prigione, citato a compa­rire dinanzi a un tribunale iniquo, si avvicinò a Pietro una giovane serva che non poteva arre­cargli danno se non a parole, e che gli chiese se per caso non fosse discepolo di Gesù il Nazare­no. Ed egli lo negò per tre volte! Poi si allon­tanò, uscì nel cortile, ma voltandosi, attraverso una finestra aperta, il suo sguardo incontrò quel­lo del Salvatore, e allora pianse amaramente.

Solo quando Pietro viene improvvisamente travolto dalla vergogna per il suo rinnegamento, il suo tradimento, la sua viltà, la sua infedeltà, le sue affermazioni spavalde, solo allora il suo cuore cade in preda all'orrore ed egli si allontana colmo di amarezza. Ma quando incontra di nuo­vo il Salvatore, questi non gli dice: "Non hai vergogna? Come osi presentarti dinanzi a me dopo avermi rinnegato tre volte?". No, Cristo gli fa invece un'altra domanda: "Pietro, mi ami tu più di costoro?" (cf. Giovanni 21,15-19), cioè degli altri apostoli presenti in quel momento. Ma una tale domanda, se cioè Pietro ami Cristo, dal momento che tutto mostrerebbe che non lo ama perché l'ha rinnegato, può davvero essere posta? Si può addirittura dire che Pietro sarebbe capa­ce di amarlo più degli altri discepoli? Questi ul­timi non l'hanno certo rinnegato: sì, sono fuggi­ti, ma non sono arrivati al punto da rinnegarlo. Se almeno Pietro si fosse ricordato delle parole pronunciate dal Salvatore in un'altra occasione: "Colui al quale si perdona molto, ama molto" (cf. Luca 7,47)! Se a uno si perdona molto, in lui nasce un amore più grande che in colui al quale si perdona poco. La questione si pone in questi termini: "Tu hai peccato più gravemente degli altri, e questo può esserti perdonato; il tuo amo­re sarà all'altezza di questo perdono? Saprai amare a tua volta più di colui che ha peccato me­no di te?". Ciò che qui è in gioco è l'amore, per­ché il Signore sonda le profondità dell'uomo, e non si ferma alle apparenze esteriori come fac­ciamo noi. Quando un uomo compie una cer­ta azione, pronuncia una certa parola, noi in­terpretiamo quell'azione o quella parola a modo nostro. Cristo invece vede nel profondo, e sa quale uomo si nasconde dietro quella tale azione o parola. Non si lascia sviare da ciò che appare in superficie, o sembra addirittura evidente. Ec­co perché si rivolge all'essere profondo di Pie­tro, che per paura si era per un momento chiuso in se stesso, ma poi si era riaperto per la ver­gogna bruciante, quando era stato bruscamen­te messo di fronte alla propria coscienza e al­lo sguardo del Salvatore. A questo punto, tutto preso dalla gioia di trovarsi nuovamente dinanzi al volto di Cristo, di vedere che la riconciliazio­ne è possibile, che tutto è possibile, persino la resurrezione, la risalita dagli abissi della morte, Pietro dice a Cristo: "Sì, io ti amo!". E a tre ri­prese Cristo lo interroga su questo amore, pro­prio come in tre momenti successivi Pietro l'a­veva rinnegato. E la terza volta Pietro approda finalmente alla consapevolezza di un'altra real­tà: il suo amore è nascosto mentre il suo rinne­gamento manifesto, e allora si volge verso Cri­sto dicendogli: "Signore, tu sai tutto! Sai che ti ho rinnegato, ma nell'atto stesso in cui poni il problema dell'amore, questo significa che tu sai che, malgrado tutto, io ti amo... Sì, io ti amo!".
A questo punto si compie il processo del pen­timento. Il peccato è stato commesso, c'è stata la caduta, l'uomo ha finito per coprirsi di vergo­gna; la sua coscienza e lo sguardo del Signore su di lui glielo hanno fatto conoscere. Ed egli ha ri­sposto a quello sguardo e a quel giudizio della coscienza con l'orrore del disgusto verso la pro­pria persona e versando lacrime. Ora l'amore di Dio può rialzarlo.

A. Bloom, {link_prodotto:id=338},
Qiqajon, Bose 2002

Il sacramento del perdono

La parola divina di perdono in Gesù Cristo, parola incondizionata e senza pentimento, rimane presente nella comunità di coloro che credono in questo perdono, nella chiesa. La chiesa è il sacramento fondamentale di questa parola divina di perdono. Questa parola unica, che la chiesa è, e che rimane in essa come viva presenza di potenza e di efficacia, si articola in modi diversi, in conformità alla natura dell'uomo.
È presente come messaggio rivolto a tutti nella predicazione della chiesa: «Credo... il perdono dei peccati» proclama la confessione apostolica di fede. Questa parola di perdono della chiesa viene pronunciata in modo fondamentale e normativo per tutta l'esistenza dell'individuo nel sacramento del battesimo. Essa rimane viva ed efficace nella preghiera della chiesa, in cui questa chiede con sempre rinnovata fiducia la misericordia di Dio per sé, chiesa di peccatori, e per ogni uomo, accompagnando così la continua e sempre più profonda conversione dell'uomo, che soltanto nella morte giunge al compimento e alla vittoria definitiva. La stessa parola di perdono (sempre sulla base di quella pronunciata nel battesimo) viene ancora rivolta dalla chiesa al singolo in modo particolare quando e dove il cristiano - che anche dopo il battesimo rimane peccatore e può cadere in nuovi peccati gravi - confessa pentito davanti al rappresentante della chiesa la sua grande colpa o la miseria della sua vita, o la porta davanti a Dio e al suo Cristo nella confessione collettiva di una comunità. Questa divina parola di perdono, rivolta a un battezzato che confessa la propria colpa da un rappresentante della chiesa che ne ha ricevuto l'incarico, la chiamiamo sacramento della penitenza. Tale parola di perdono ha un carattere peculiare: il cristiano battezzato, come membro della chiesa, con il suo peccato - grave o leggero - si è messo anche in contraddizione con la natura della comunità santa a cui appartiene, la chiesa appunto; infatti esistenza e vita della chiesa devono essere il segno che la grazia di Dio come amore a Dio e all'uomo è vittoriosa nel mondo. Attraverso la parola di perdono la chiesa perdona anche il torto che la colpa dell'uomo le fa. Anzi, si può dire che la chiesa perdona la colpa attraverso la parala consegnatale, proprio in quanto perdona all'uomo il torto che egli le ha fatto; così come essa nel battesimo comunica all'uomo lo Spirito Santo in quanto lo incorpora a sé come corpo di Cristo. E poiché questa parola della chiesa pronunciata entro la concreta situazione di colpa del singolo come parola di Cristo e in conformità alla natura della chiesa stessa, non è semplicemente un discorso sul perdono di Dio ma l'evento stesso del perdono, questa parola è realmente un sacramento. Qui accade quanto viene detto in Matteo16 e 18 e in Giovanni 20: la chiesa assolve «sulla terra» (cioè nel suo ambito proprio) rimettendo i peccati, in modo tale che l'uomo è assolto anche «in cielo» (nella remissione della colpa davanti a Dio).

K. Rahner, Lasciarsi perdonare, Queriniana, Brescia 1975, 33-35.

Ripercorrere la nostra vita

Quando ci prepariamo a una confessione regolare, sia essa collettiva o individuale, dobbiamo sforzarci di ripercorrere la nostra vita; non basta dare indietro una rapida occhiata compilando la lista delle azioni indegne o cattive da noi compiute, ma bisogna esaminare più in profondità come tutto questo abbia potuto verificarsi.
Non basta pentirsi dei peccati che continuamente commettiamo; non basta porre una questione di ordine meramente morale: mi comporto bene o mi comporto male? Il problema è sapere che tipo di uomo io sono. Mi definisco un essere umano, sono così fiero di essere russo, cristiano ortodosso, di essere figlio o figlia, marito o moglie, fidanzato o fidanzata, padre o madre, di essere amico, compagno o collega di lavoro: ma in fin dei conti, chi sono? In quale parte di me stesso c'è la mia autenticità, e qual è la parte di facciata? Fino a che punto io mi sforzo di sembrare invece di essere, molto semplicemente?
Quando, dopo un esame di coscienza approfondito, e dopo aver meditato a lungo sull'evangelo e sulle vie del Signore, ci troviamo di fronte al nostro peccato, all'infedeltà alla nostra vocazione più grande, un dolore acuto, un senso di vergogna giungono immancabilmente a trafiggerci il cuore.


Ci vergogniamo profondamente di sentirci così lontani da quello che potremmo essere, così diversi dal progetto che Dio aveva su di noi nel momento in cui ci ha creato. Questo sentimento non dovrebbe essere che uno stimolo a cambiare il nostro modo di vivere. Noi dobbiamo soffermarci sul passato, esplorare implacabilmente le zone oscure della nostra vita, i pensieri e i moti del nostro cuore, così come i nostri desideri, i modi di agire e le relazioni che abbiamo con gli altri. Lo sguardo con cui ci esaminiamo deve essere severo e lucido, come quello del medico che esamina un malato, o quello con cui guardiamo davanti a noi quando camminiamo di notte su una strada, per non perderci e non cadere. Tutto quello che è accessibile allo sguardo deve essere rivelato, e deve essere detto
in tutta lealtà; bere il calice della vergogna fino alla feccia, accogliere il dolore fino al punto estremo, non cercare delle scuse per renderlo meno cocente, senza lasciarsi però abbattere dalla vergogna. Solo sopportando la nostra indegnità con tutta la forza di cui siamo capaci, potremo sottrarci a ciò che la vergogna risveglia in noi.


Se cerchiamo di attenuare parzialmente, per quanto poco, l'immagine della nostra condizione di peccatori, di rendere più amabile la nostra indegnità - se non altro ripetendo quello che diciamo di noi stessi: "Sono peccatore, come tutti", oppure: "Che altro potevo fare?" -, se cerchiamo di soffocare in noi stessi tale dolore, allora non è più possibile per noi il pentimento. Infatti è solo prendendo coscienza dell'orrore, della forza mortifera del peccato, della vergogna di non essere degni di noi stessi - per non parlare degli altri o di Dio -, che possiamo trovare la forza di sottrarci a quella schiavitù. Senza tutto questo sopportiamo molto bene la nostra condizione e non si può fare nulla che ci liberi dalle nostre catene.
Ecco la differenza che passa tra noi e i santi, dagli apostoli fino ai grandi protagonisti della fede del nostro tempo. Sappiamo come hanno vissuto. Si sono imposti di bere fino alla feccia il calice della vergogna di sé e hanno permesso che il loro cuore, la loro coscienza, la loro persona, fossero interamente trafitti dal dolore provocato dall'immagine che davano di se stessi.

A. Bloom, Ritornare a Dio, Qiqajon, Bose 2002

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