Non amiamo da lontano ma da vicinissimo, nella condivisione di una presenza comune. Si tocca, si sente. Amiamo la bellezza della presenza, e questa si manifesta nel corpo reale di chi amiamo. Esiste sì una vaga nozione di bellezza interiore, ma conduce solo a misere aporie: se è davvero interiore questa bellezza, non la si vede, e non serve a nulla; e se la si vede, allora è in parte esteriore e ci chiediamo perché qualificarla come interiore. La mia bellezza sei tu che me la fai vedere, e io ti faccio vedere la tua, i nostri volti l’uno verso l’altro ci rivelano a noi stessi. Senza incontrarti, come potrei incontrare me stesso? Come potrei perfino vedermi? Come potrei mai sapere che sono qui?
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Povera, povera gente!
Non diresti cattiva, ma sempre di fretta:
mangiano pane – e più di prima hanno fame,
bevono vino – e ne diventano sobri.
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Dio, nel suo amore, ha sempre avuto un unico progetto per l’uomo, un progetto di vita beata. Creandolo a sua immagine, lo destinava all’immortalità, cioè alla partecipazione della sua vita eterna: così l’avevano compreso i padri della chiesa.
Tuttavia, nato dalla terra, l’uomo era sottomesso alla morte che assoggetta tutto ciò che comincia a essere; egli non poteva entrare in Dio se non a condizione di rinascere dall’alto (cf. Gv 3,3), se l’accettava liberamente. Come ci ha creati tutti in Cristo, per mezzo di lui e in vista di lui (cf. Col 1,16), così Dio ha deciso da sempre di strapparci alla morte e di aprirci un accesso fino a lui attraverso la resurrezione di Cristo, di cui aveva previsto che la perfetta obbedienza al suo disegno di amore avrebbe effuso la sua grazia sulla moltitudine degli uomini (cf. Rm 5,15.19).
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Incontro tenuto da Enzo Bianchi il 15 aprile 2015 sul tema “Gesù annuncia la misericordia”. La peccatrice in casa di Simone il fariseo (Lc 7,37-50)
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