Il Signore viene

Foto di NASA Hubble Space Telescope su Unsplash
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12 gennaio 2025

Battesimo del Signore
Luca 3,15-16.21-22 (Is 40,1-5.9-11; Tt 2,11-14; 3,4-7)
di Luciano Manicardi

15Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, 16Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. 21Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì 22e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento».


Le letture di questa domenica sono concordi nel presentare l'evento salvifico della venuta del Signore. L'anonimo profeta che proclama la fine dell'esilio babilonese annuncia al popolo la venuta del Signore, la rivelazione della sua gloria (Is 40,1-5.9-11); Giovanni Battista annuncia la venuta del più forte di lui che battezzerà in Spirito santo (Lc 3,15-16.21-22); la lettera a Tito (Tt 2,11-14; 3,4-7) proclama che la venuta nel mondo della grazia di Dio, cioè Gesù Cristo, la manifestazione storica della bontà di Dio nella persona di Gesù, è volta a insegnare ai credenti a vivere in questo mondo nell'attesa del Regno (Tt 2,11-13). Il battesimo poi (a cui allude l'espressione "il lavacro di rigenerazione nello Spirito santo" in Tt 3,5), immergendo in Cristo, immette il cristiano nella vita in Cristo e lo incammina a vivere la propria esistenza come Gesù stesso ha vissuto, mettendosi alla scuola della pratica di umanità di Gesù di Nazaret.

La prima lettura è attraversata dal vocabolario del parlare, dell'annunciare, del gridare, della voce. La parola del profeta deve destare le coscienze, E quest’opera di “risveglio” avviene aprendo gli occhi alle persone. La parola vuole aprire gli occhi e a far vedere ciò che altrimenti la gente non vedrebbe. La parola del profeta deve preparare ad accogliere la venuta del Signore nella storia. E dunque, anzitutto, a discernerla. Ecco allora che il profeta-sentinella sale su un'altura, alza la voce e grida: "Ecco il vostro Dio" (Is 40,9), affinché le città della Giudea possano prepararsi guardando la loro storia con uno sguardo altro. La parola illumina, dà luce, cambia l'orizzonte di chi la ascolta e vi crede. Certo, è credibile questo annuncio? Quando l’anonimo profeta annuncia la venuta del Signore e la fine della deportazione, in realtà il popolo è ancora nell’esilio. Vi è dunque una difficoltà a credere a un annuncio di salvezza quando la salvezza non è tangibile. Vi è una fatica a credere anche perché la parola impegna a un lavoro su se stessi. Impegna ad abbassare le altezze che ostruiscono la vista e a spianare gli avvallamenti che ostacolano la visione, chiede di rompere con l’alterigia e l’orgoglio che impediscono di vedere la realtà in modo non deformato e chiede di uscire dagli abissi di depressione e disperazione che richiudono su se stessi e accecano. Ma esiste anche una difficoltà da parte di chi deve annunciare e parlare. Il profeta, nei versetti 6-8 saltati dal lezionario, proclama la propria stanchezza e il senso di inutilità del proprio parlare e gridare. Perché mai parlare, perché mai annunciare? Il profeta è perfettamente cosciente del fatto che molti nel popolo non ascoltano, che molti non credono, che molti perfino snobbano e irridono il profeta. Egli sa benissimo che la maggioranza non vuole affatto vedere la realtà diversamente da come è abituata a vederla. Sa bene che molti sono di cuore indurito e di dura cervice, chiusi nel loro cinismo e nel senso di impotenza, e non vogliono cambiare visione essendo attaccati ai loro stereotipi e ai loro pregiudizi. Questa è l'esperienza del servo della parola, già manifestata nei profeti più antichi come Ezechiele, che riceve da Dio il comando di parlare al popolo sia che i destinatari ascoltino sia che non ascoltino (Ez 2,5.7). L’anonimo profeta del nostro testo è scoraggiato e dice in sostanza: è inutile annunciare, non serve a niente, non cambia niente. E la risposta che lo vince e lo porta a proseguire il suo ministero è che se anche è vero che il popolo è incostante, inaffidabile, instabile, senza consistenza, tuttavia la parola del Signore rimane per sempre (cf. Is 40,8). Essa è affidabile, stabile, salda, certa. E dona saldezza, stabilità, e consistenza a chi vi si appoggia. Al profeta deve bastare questa dimensione della parola di Dio. Il profeta deve vivere in prima persona ciò che annuncia agli altri. Deve mostrare lui stesso di credere nella parola di cui si fa banditore. Certo, in questo farsi servo della parola egli arriverà a trovarsi nella situazione del servo del Signore di cui narra Isaia 53. Quando cioè l’essere stato servo obbediente della parola di Dio arriverà a ridurlo al mutismo. Ma anche allora, nell'impotenza radicale, quando il profeta sarà come agnello afono, e “non apre la sua bocca” (cf. Is 53,7), proprio allora egli diventerà parola con tutta la sua vita, egli diventerà torah, egli illuminerà (Paul Beauchamp traduce Is 52,13 con “il mio servo illuminerà”; ritenendo questa “una traduzione più che ammissibile del verbo yaśkil”). L’obbediente servo della parola, che ha annunciato e gridato e ha incontrato soprattutto disinteresse e alzate di spalle, ora parla con il suo silenzio, parla con la sua intera vita. Parla con una vita e una morte che apre gli occhi a chi non voleva ascoltare. Parla e la sua parola, fatta testimonianza esistenziale, diviene rivelazione sconvolgente. Egli apparirà come il giusto ingiustamente condannato che giustificherà molti (Is 53,11). E la rivelazione raggiungerà il suo scopo di illuminare proprio facendo emergere le tenebre del cuore e della mente di chi aveva giudicato e condannato il giusto che ormai parla con la sua vita e con la sua morte. Davvero, "come molti si stupirono di lui tanto era sfigurato per esser d'uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell'uomo, così si meraviglieranno di lui molte genti: i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito" (Is 52,13-14).

Nella pagina evangelica, Giovanni Battista, che ha ripreso le parole della predicazione profetica (Is 40,3-5 citato in Lc 3,4-6) e che viene presentato come voce che grida nel deserto (Is 3,4), chiede conversione a quanti vengono a sottomettersi all’immersione in acqua che egli amministra. Luca sottolinea l’attesa messianica del popolo e dice che “tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Messia” (Lc 3,15). Ecco allora che la parola di Giovanni porta chiarezza, fa luce e dissipa le ombre: non lui è il Messia, ma il Messia è colui che battezzerà in Spirito santo e fuoco. La parola di Giovanni ri-orienta l'attesa e la domanda di tutto il popolo. Gesù dirà di Giovanni: “egli era la lampada che arde e splende” (Gv 5,35). E il profeta Giovanni illumina con la sua parola, ma in certo modo, spegnendo se stesso. O meglio, restando fedele a se stesso e al suo ministero per cui “non lui era la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce” (Gv 1,8), e negando a sé l’attribuzione “alta”, messianica, che il popolo gli voleva conferire. Giovanni ha il coraggio della verità. Non si lascia lusingare da chi (e si tratta della vox populi!) lo vede come Messia, ma resta umilmente aderente alla sua postura di precursore. L’esito del restare fedeli a sé e alla propria verità è normalmente l’impagabile senso di integrità personale. La parola di Giovanni raggiunge la pienezza della sua potenza nel divenire testimonianza quando Giovanni nega ciò che gli viene attribuito: non io sono il Messia (cf. Gv 1,19-21). Il suo battesimo è con acqua, non in Spirito santo e fuoco (cf. Lc 3,16). Giovanni non usurpa il posto di altri. E così non fa schermo alla luce del Messia che ora si può rivelare. E tuttavia, anche la parola di Giovanni non è completamente luce. Infatti, la domanda del popolo diverrà in qualche modo la sua quando, essendo lui in prigione e avendo udito parlare delle opere del Messia, manderà i suoi discepoli a chiedere a Gesù: "Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?" (Lc 7,20). La domanda a cui ora Giovanni risponde con fermezza, più avanti diverrà la domanda di Giovanni stesso. Anche Giovanni si troverà incerto della risposta che pure ha già dato e in cui credeva. Giovanni, come la Scrittura, fa segno, illumina, indica, apre la via al Messia. Eppure la sua risposta parla del Messia nei termini della forza e del giudizio, usa le immagini del vaglio e del fuoco ("Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio, ma brucerà la paglia con fuoco inestinguibile": Lc 3,17). Così che la risposta dovrà ridivenire domanda quando Gesù si mostrerà dalle sue opere come Messia mite che narra un Dio che non strappa la zizzania dal campo dov'è seminato il buon grano, che attende i tempi di maturazione del seme e della crescita della pianta, che si oppone ai discepoli che vorrebbero che facesse scendere un fuoco dal cielo per consumare i samaritani che non lo hanno accolto. Gesù dirà di essere venuto a gettare un fuoco sulla terra, (Lc 12,49), ma questo fuoco non deve bruciare né scorie, né peccatori, ma è il fuoco in cui Gesù stesso sarà immerso, battezzato: "Sono venuto a gettare un fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già divampato. Ma ho da essere battezzato con un battesimo e come sono angustiato finché non sia compiuto" (Lc 12,49-50). Il battesimo in Spirito santo e fuoco ci sarà ma alla Pentecoste, quando Gesù sarà già passato attraverso la prova della passione e morte, quando Gesù avrà già compiuto il destino di colui che "compie guarigioni oggi e domani e il terzo giorno è consumato" (Lc 13,32). Giovanni apre la strada, ma non comprende in pienezza Colui che viene dopo di lui. Anche Giovanni deve stupirsi di Gesù, deve restare sconcertato, deve ricevere luce per cambiare la propria visione, il proprio sguardo.


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