L’incontro con l’altra
22 dicembre 2024
IV domenica di Avvento
Luca 1,39-48a (Mi 5,1-4a; Eb 10,5-10)
di Luciano Manicardi
39In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. 40Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. 41Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo 42ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? 44Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. 45E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
«L'anima mia magnifica il Signore
47e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
48perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
La storia della rivelazione è anche storia del luogo di dimora che Dio cerca tra gli uomini. In questa ricerca Dio sceglie ciò che èpiccolo, ciò che èpovero, ciò che non si impone: la piccola borgata di Betlemme è il luogo designato per la manifestazione del Messia (Mi 5,1-4a); il grembo della vergine di Nazaret, Maria, diviene luogo di dimora del Signore (Lc 1,39-48a); il corpo umano è il luogo definitivo di abitazione di Dio tra gli uomini (Eb 10,5-10). I riferimenti al corpo della partoriente, ai corpi delle due donne incinte che si incontrano, al corpo che Dio prepara per il Cristo, suggeriscono una visione del corpo come luogo spirituale, come sacramento della presenza di Dio tra gli uomini. Inoltre, l’episodio della “visitazione” ci indica che il mistero dell’incarnazione non è riducibile all’evento puntuale della nascita. Come ogni uomo, Gesù è portato nel seno di una donna, abita per nove mesi nel grembo di Maria e tale grembo è sua casa, suo cibo, sua vita. Il venire al mondo è anzitutto l’esserci nel corpo di un altro: per Gesù (come per ogni umano) il corpo di una donna è il suo primo mondo. Noi avveniamo nel corpo di una donna. Le letture bibliche odierne mostrano all’opera un processo di concentrazione, di rimpicciolimento, di restringimento che conduce verso l’essenziale. Il mistero del Natale a cui questa domenica ci prepara, è anche il mistero del tutto nel frammento, del divino nell’umano, di Dio in un neonato.
La profezia di Michea esprime lo stupore di fronte all’evidenza della piccolezza di Betlemme che pure è il luogo da cui uscirà il Messia, il liberatore d’Israele: “E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda” (Mi 5,1). La stessa collettività giudaica viene da Michea concentrata e ridotta alla figura di una persona, una donna incinta. Il testo di Michea è probabilmente un brano postesilico che suppone la caduta di Gerusalemme, la distruzione del tempio: il popolo è ormai privo dei tradizionali luoghi di mediazione della presenza di Dio. La storia ha smentito le promesse di Dio? Nella crisi, nella situazione di perdita dei punti di riferimento, quando non ci sono più le certezze che nel tempo precedente hanno aiutato a vivere, occorre un lavoro di semplificazione, di riforma, di ritorno all’essenziale. Processo che nel concreto è non tanto un ritorno all’indietro, una restaurazione, ma una diminuzione. Un processo di riduzione, di spogliamento, di concentrazione nel piccolo. Il nostro testo va alle origini della promessa messianica, dunque al ceppo di Iesse, alla borgata di Betlemme, luogo da cui doveva venire il Messia. Si distanzia da Gerusalemme, la città importante, “ricca di popolo” (Lam 1,1), la capitale divenuta sede di re che si rivelarono cattivi pastori. Per ricominciare, dal centro si passa alla periferia, dal luogo popoloso alla borgata piccola e semisconosciuta. C’è una dimensione di piccolezza, di non-notorietà, di non-visibilità, di nascondimento, cioè una diminuzione, che aiuta il processo di semplificazione necessario quando si devono mettere nuove basi per il ricominciamento della comunità che ha subito la prova. E perché l’attraversamento della prova si riveli fecondo. Se in Mi 4,10 l’immagine di Sion partoriente descrive la deportazione e la prova, ora, invece, la stessa immagine evoca la fecondità, la fuoriuscita positiva dalla prova, il rientro dalla deportazione: “il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele” (Mi 5,2). C’è un mistero di fecondità (questo il significato di Efrata) insito nel mistero della piccolezza, in ciò che non si impone, nella piccola Betlemme: il ritorno alle radici ha il potere di chiarificare, di riportare all’essenziale ciò che aveva perso smalto con il tempo. Ha il potere di riportare i figli d’Israele all’essenziale della promessa di Dio in cui porre di nuovo la fede. Ma appunto, tale processo di riforma, di ritorno all’essenziale, si concretizza in un processo di diminuzione, di ablatio, di chiarificazione mediante spogliamento.
Il vangelo odierno fa seguito, nella narrazione lucana, all’episodio dell’annunciazione. Ed è proprio il sì di Maria, il suo atto di obbedienza alle parole dell’angelo (Lc 1,38), che dà forma anche al suo futuro. Se ora si mette in viaggio per andare a trovare Elisabetta, l’anziana parente incinta, è a partire dalle parole che le sono state rivolte, a cui lei ha aderito e che le parlavano anche della sua parente sterile ma divenuta feconda (Lc 1,36). Andando da Elisabetta è come se Maria si volesse incontrare con se stessa incontrando l’altra donna, si volesse guardare allo specchio guardando Elisabetta, tanta è l’analogia – pur nelle differenze – tra le due donne e le due vicende. Là una sterile divenuta feconda, qui una vergine che non ha relazioni con uomo e a cui viene annunciato un figlio. Non a caso Maria parte da sola. Nessuna menzione di Giuseppe. Ciò che la muove e ciò a cui va incontro riguarda lei nel più intimo della sua persona. Il silenzio e la solitudine sono i sigilli di questa avventura interiore. Il silenzio, la solitudine e l’ascolto obbediente alle parole ricevute dall’alto, sono l’alveo dove matura la decisione interiore di Maria di alzarsi, partire e andare in fretta. L’obbediente Maria non può che restare nel silenzio e nella solitudine dopo ciò che è avvenuto in lei. Non può che custodire nel segreto il mistero che l’ha investita, ma ha anche bisogno di conferme, di sapere che la sua condizione è condivisa. Che la sua solitudine è condivisa. È interessante che di Elisabetta si dica che, una volta che ebbe concepito, “si tenne nascosta per cinque mesi” (Lc 1,24). Si può cercare il nascondimento non solo per la vergogna, ma anche a seguito della benedizione di Dio sulla propria situazione di precarietà e povertà. Un troppo pieno dopo un troppo vuoto può provocare anch’esso timore e nascondimento. Quasi incredulità. Anche Elisabetta era nella solitudine, nel nascondimento. E si dice che Maria parte in fretta: ciò che la muove è un’urgenza, un bisogno impellente, certamente più suo che di Elisabetta. E non a caso, giunta da Elisabetta, è accolta dalle molte, solenni e ispirate parole della parente (Lc 1,42-45), mentre Maria si limita al saluto e rimane nel silenzio, salvo pronunciare poi il canto del ringraziamento e della lode, il Magnificat, ma solo dopo che l’incontro con Elisabetta l’ha confermata nell’evento di grazia di cui è stata beneficiata. Elisabetta infatti non saluta la parente Maria, ma la madre del Signore, non solo proclama benedetta Maria tra le donne, ma la proclama beata a motivo delle parole che il Signore le ha rivolto e della fede che lei ha prestato a tali parole. Non accoglie la parente, ma la credente. Elisabetta vede la donna trasformata dalla grazia di Dio. Lo sguardo di Elisabetta e le sue parole colgono Maria nel mistero della sua vocazione. L’obbedienza di Maria ha rimodellato la sua identità. Come ha riplasmato il suo corpo rendendolo accogliente una vita, la vita del Messia, così la sua identità ormai è trasformata dal suo atto di obbedienza alla parola di Dio. Maria ormai è la credente, colei che ha creduto e che permane nel suo credere, che persevera nella fede, come apparirà dal Magnificat.
Andata per incontrarsi con se stessa mediante l’incontro con Elisabetta, Maria vive un momento di sororità, di incontro fecondo con l’altra donna. La maternità annunciata si esprime come capacità di prossimità, di sororità. L’incontro vero con sé, la scoperta di sé nasce sempre dall’apertura all’altro, all’altra. Nasce sempre dall’incontro-scontro con la realtà. La solitudine e il silenzio di Maria non sono fini a se stessi, ma volti a quell’incontro con l’altra persona, che solo consente di conoscere se stessi e di vivere nella realtà e non nella ricostruzione fantasmatica della realtà. La maternità annunciata dall’angelo a Maria significa anche sororità, capacità cioè di accogliere e lasciarsi accogliere perché ci si sa accolti e visitati dal Signore. L’iconografia che mostra l’abbraccio delle due donne nella visitazione a volte presenta un accostarsi dei volti l’uno all’altro in modo tale che l’incontro occhio contro occhio diviene fusione in un unico occhio: unico è lo sguardo con cui le due donne si vedono. Lo sguardo di chi è stato visto dal Signore nella propria piccolezza o sterilità o impotenza. Noi invece riserviamo volentieri uno sguardo diverso a noi stessi e agli altri. E spesso fatichiamo a credere allo sguardo benevolo che gli altri hanno verso di noi perché il nostro su di noi è in verità sguardo nemico e ostile. Perché troppo ferito. Spesso non sono gli altri che ci fanno del male, ma siamo noi che ci facciamo del male con le nostre paure, le nostre ferite mai guarite, le nostre diffidenze e mancanze di fiducia. Ora, in quell’incontro lo sguardo, il saluto e l’abbraccio diventano benedizione reciproca: ecco cosa potrebbe essere se solo lo volessimo ogni incontro. Al saluto di Maria risponde la benedizione di Elisabetta: “Benedetta tu” (Lc 1,42). Ecco la fecondità spirituale e la bellezza dell’incontro: riconoscersi per ciò che si è, senza gelosie e invidie, senza diminuire l’altro, ma riconoscendolo nella sua unicità e mostrando gratitudine per il dono che Dio gli ha fatto. Allora ogni incontro è comunicazione ineffabile e gioia profonda.