Gioia e conversione comandate
15 dicembre 2024
III domenica di Avvento
Luca 3,10-18 (Sof 3,14-18a; Fil 4,4-7)
di Luciano Manicardi
In quel tempo 10le folle interrogavano Gesù: «Che cosa dobbiamo fare?». 11Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto». 12Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». 13Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». 14Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». 15Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, 16Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. 17Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
18Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.
La terza domenica di Avvento è sotto il segno della gioia: è la domenica Gaudete, “Rallegratevi”, con parole tratte dalla seconda lettura odierna (Fil 4,4-7) e utilizzate come antifona d’ingresso. Ma la gioia nei testi biblici di questa domenica non è constatata, non è dichiarata presente, ma è comandata, è una gioia a cui si è invitati, anzi comandati, dal profeta e dall'apostolo. "Gioisci, figlia di Sion" (Sof 3,14) dice Sofonia a Gerusalemme nella prima lettura (Sof 3,14-18a), ed è un comando non una constatazione; "Gioite nel Signore, ve lo ripeto, gioite" (Fil 4,4) dice Paolo nella sua lettera ai cristiani di Filippi e si tratta ancora di un comando, non della descrizione di una realtà. E la gioia viene comandata quando non c’è. Non c'è invece nessun invito alla gioia nel testo evangelico (Lc 3,10-18). Lì la reazione all'annuncio escatologico di Giovanni è la conversione, è l'assunzione di una pratica di umanità più umana, più attenta agli altri, più rispettosa degli altri. E anche la conversione, come la gioia, è comandata. "Date abiti e cibo a chi non ne ha; non esigete, non pretendete; non maltrattate, accontentatevi dei vostri salari": questi sono i comandi di Giovanni. Comandi negativi (non fare) e comandi positivi (fare) per orientare la conversione. È comandata la gioia così come è comandata la conversione: questa analogia di comando che unisce la gioia e la conversione suggerisce che anche l'entrare nella gioia è parte della conversione, della trasformazione della propria umanità richiesta dalla conversione. Del resto, ciò che Giovanni chiede come conversione sono cambiamenti dell'agire umano, dell'umanità delle persone. Dunque, questi comandi a gioire dicono che si tratta di diventare gioiosi. Ed esiste anche la gioia del cambiamento, del rinnovamento esigito dalla conversione. La conversione è motivo di gioia: non siamo destinati a restare nell’immobilismo per tutta la vita, bloccati come ostaggi di un passato che non passa mai. La conversione libera dalla prigionia del passato e immette nella gioia della vita ritrovata.
Il testo della prima lettura contiene l’invito rivolto dal profeta a Gerusalemme a rallegrarsi per la presenza del Signore. Il Signore viene a lei e dimora in lei: forse il riferimento è alla fine dell’esilio (“il Signore ha revocato la tua condanna”: Sof 3,15) e al ritorno del Signore in mezzo al suo popolo, nella sua città. Quattro espressioni di gioia aprono il testo e riguardano Gerusalemme chiamata a gioire per il suo Dio (v. 14: la traduzione della CEI le riduce a tre) e trovano eco e rispondenza in quattro espressioni che manifestano la gioia di Dio stesso per la sua città nel v. 17: “Il Signore gioirà per te con esultanza, esulterà per te con grida di gioia”. In mezzo troviamo la bella espressione del Signore che, con il suo amore, rinnova Gerusalemme, personificata nella donna amata: “Ti rinnoverà con il suo amore” (Sof 3,17). Così almeno legge il testo greco dei LXX. Dio viene descritto come un giovane innamorato che corteggia la sua amata, e soprattutto viene detta la potenza di mutamento insita nell’amare: ti rinnoverà con il suo amore. La gratuità dell’amore è, per la persona amata, apertura di una possibilità di cambiamento, di rinnovamento, di conversione. È l’amore di chi ama all’origine del cambiamento. E come l’amore di chi ama si accompagna alla gioia, così la risposta di chi si lascia amare e mutare da tale amore si accompagna alla gioia. In Is 62,5 si dice di Gerusalemme: “Come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te”. E la gioia dell’amante si trasfonde, grazie all’amore, nella persona amata: “Gioisci, figlia di Sion, esulta, rallegrati con tutto il cuore”. La gioia è il sigillo della conversione, cioè del mutamento prodotto dall’amore.
Il vangelo odierno (Lc 3,10-18) specifica le conseguenze dell’annuncio del Signore che viene contenuto nella predicazione escatologica di Giovanni riportata nei vv. 7-9. Il testo presenta la domanda che diverse categorie di persone pongono a Giovanni: “Che cosa dobbiamo fare?” (vv. 10.12.14). La conversione (“Fate frutti degni della conversione”: Lc 3,8), motivata dall’annuncio della venuta del Signore, viene colta nel nostro testo in una dimensione particolare. Non è un atto religioso che viene chiesto da Giovanni, ma prettamente esistenziale; non è un atto sacrale, nè un rito, ma è l’intervento della persona su di sé, è un cambiamento della propria situazione esistenziale e lavorativa, come nel caso dei soldati e dei pubblicani, di persone cioè che svolgevano professioni così esposte che quasi definivano l’identità personale e che portavano gli altri a guardarle attraverso la lente totalizzante di quel mestiere. Anche alle folle Giovanni chiede di intervenire su di sé, di esercitare un potere sulla propria vita e sulla propria persona, uscendo da abitudini assodate e innescando dei mutamenti che in realtà non riguardano semplicemente qualcosa da fare, ma l’essere stesso della persona e le sue relazioni con gli altri. Di fronte al Signore che viene, alla sua parusía, che è presenza e avvento, non vi è da stupirsi se ciò che Giovanni chiede ai suoi interlocutori ha a che fare con la relazione con gli altri, con la parusía, la presenza-avvento degli altri nella loro vita. Non c’è da stupirsi se egli chiede cambiamenti nella relazione di sé con gli altri. Come ci si potrà convertire al Signore se non si riesce nemmeno a mutare qualche cattiva o semplicemente inveterata abitudine nella propria vita? Così l’annuncio della venuta del Signore viene colto nelle ricadute che produce nell’attualità dell’esistenza e della storia: la venuta del Signore è confessata in verità quando viene colta nella sua capacità di cambiare qualcosa nella vita di una persona, nelle sue relazioni, nel modo di esercitare una professione. Se non è possibile amare il Dio che non si vede se non si amano i fratelli che si vedono (1Gv 4,20), analogamente non è possibile attendere la venuta del Signore se non si coglie la presenza dei fratelli come parusía, se non si evangelizza la relazione con gli altri, se non si vede il Signore venire a noi nei fratelli stessi.
A Giovanni dunque si avvicinano diverse persone con la medesima domanda. Giovanni assomiglia alla sentinella che nella notte intravede il sorgere dell’alba messianica e che si rivolge a chi lo interpella dicendo: “Se volete domandare, domandate, convertitevi, venite” (Is 21,12). Qui le folle vengono, domandano e sono invitate a conversione. E se a ciascuna categoria viene indicato un comportamento diverso, noi possiamo leggere le diverse richieste del Battista come elementi costitutivi di un unico percorso di conversione. Il cambiamento inizia con il coraggio di una domanda. Riconoscendo cioè di avere un bisogno, una mancanza, e riconoscendolo davanti a un altro a cui ci si rimette e da cui si attende una parola. Cosa dice Giovanni alle folle? Di condividere ciò che hanno. Le cose essenziali del vivere: il cibo e il vestito. Il verbo usato, metadídomi, indica che mediante un dono si crea comunione con colui a cui si dona. La modalità di questo dare è “senza fare calcoli” (Rm 12,8), ma la portata del verbo si estende a realtà più radicali: Paolo vorrebbe raggiungere i cristiani di Roma per “condividere con loro qualche dono spirituale” (Rm 1,11); il grande dono che egli ha condiviso con i cristiani di Tessalonica è il vangelo, ma Paolo avrebbe voluto dare loro la sua stessa vita (1Ts 2,8). In profondità non si tratta solo di dare qualcosa a chi è nel bisogno, ma di esistere con l’altro proibendosi di agire e vivere senza gli altri. La condivisione trova il suo punto più alto nel condividere il tragitto di un’intera esistenza fino alla morte.
Ai pubblicani dice di non pretendere, di non esigere più del dovuto. “Nulla più dello stabilito” (Lc 3,13). È una messa in guardia dal pretendere ciò che gli altri non hanno il dovere e forse nemmeno la possibilità di darci, ma significa anche non porsi davanti agli altri con atteggiamento di chi prevarica ed esige. L’altro non è uno che mi deve qualcosa. Se lo vedo come un mio debitore, entrerò in un rapporto perverso di pretesa e mai di gratuità.
Ai soldati dice di non maltrattare o molestare e di non estorcere o far torto. Si tratta di non usare violenza, ovviamente, ma poi di non abusare della propria posizione di forza, quindi di avere intelligenza empatica dell’altro e della sua vulnerabilità.
Giovanni propone dei no da dire a se stessi (non pretendere, non abusare) e un sì da dire a se stessi (condividere). Si tratta dunque di vedere il bisogno dell’altro e andarci incontro condividendo; di astenersi dall’avanzare pretese nei confronti degli altri come se fossero personale al nostro servizio; e infine di discernere l’altro nella sua situazione reale per non fargli del male. Insomma si tratta di elementi di una grammatica dell’umano e della relazione con l’altro che sono indispensabili per un cammino di preparazione delle vie del Signore, per andare incontro al Veniente. Mentre chiede di prepararsi ad accogliere il Signore che viene, il Battista dispone le persone ad accogliersi reciprocamente. Mentre chiede di essere pronti ad accogliere il Signore, chiede di ospitarsi gli uni gli altri. Questa accoglienza reciproca fa parte della preparazione all’accoglienza del Veniente.