Umile determinazione
24 marzo 2024
Domenica delle Palme
Marco 11,1-11
di Sabino Chialà
In quel tempo 1 quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, mandò due dei suoi discepoli 2e disse loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. 3E se qualcuno vi dirà: «Perché fate questo?», rispondete: «Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito»». 4Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. 5Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché slegate questo puledro?». 6Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare. 7Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. 8Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. 9Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano:
«Osanna!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
10Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Osanna nel più alto dei cieli!».
11Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l'ora tarda, uscì con i Dodici verso Betània.
La domenica delle Palme ci introduce nella Settimana santa e nella celebrazione della Pasqua. All’inizio della Quaresima abbiamo visto Gesù affrontare il deserto, ora dinanzi a lui si para la città per eccellenza, Gerusalemme. Egli, come annota l’evangelista Marco, vi giunge dal Monte degli Ulivi, da dove la città appare in tutta la sua bellezza e complessità, con il tempio in primo piano.
In quella città, in cui sta per entrare, Gesù intuisce il compimento del suo cammino, che richiederà l’immersione e l’attraversamento della città. Secondo la geografia restituita dall’archeologia, infatti, Gesù vi entra da oriente a dorso di un puledro, per uscirne da occidente con la croce sulle spalle. E al cuore della città, dovrà fare i conti con il tempio. Simbolicamente, al termine del nostro brano, Marco parla di un doppio ingresso: “Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio” (v. 11).
Un doppio ingresso, doloroso. Innanzitutto nella città, simbolo dell’umanità, in cui Gesù avrà modo di misurare tutta la forza del male, insieme a poche luci. Vivrà sulla sua pelle l’intrico di ingiustizia e disperazione, di disumanità e di amore, di grido di guerra e di invocazione di aiuto che la città è, ancora per noi oggi. E poi nel tempio, che ha smarrito la sua funzione, ormai ingombro e snaturato, incapace di essere messaggio di speranza. Ecco cosa vede Gesù dall’altro del Monte degli Ulivi, luogo dal quale, secondo le profezie, sarebbe giunto il Messia.
Come entrarvi? È la domanda che Gesù si sarà posto, guardando dinanzi a sé. Sono tanti i modi per affrontare l’ostilità, l’indifferenza, la perversione o l’inumanità. Sono tanti i modi in cui è possibile reagire al male minacciato: aggredendo, offendendo, distruggendo, disprezzando, umiliando. Oppure percorrendo la via dell’umiltà, che non è certo la più facile. Anzi richiede maggiore fatica e determinazione, perché ha bisogno di una maturata e profonda motivazione. Gesù intuisce che quest’ultima è la sola via a lui possibile per tentare di penetrare nella realtà che gli sta davanti, e mette in scena la sua “entrata”, che parla di umile determinazione.
Marco, a differenza degli altri due vangeli sinottici, attribuisce una particolare importanza alla località di Betania, che menziona esplicitamente all’inizio (v. 1) e alla fine (v. 11) del brano. Una località che parla di umiltà: il piccolo villaggio da cui Gesù proviene e al quale ritorna a sera; dove si sente a proprio agio, poiché essa porta nel suo stesso nome ciò che Gesù vuol essere. Betania significa infatti: “Casa dell’umile”. L’identità e la strategia di Gesù sono definite fin dal luogo da cui muove.
Adempie così anche la profezia di Zaccaria: “In quel giorno i suoi piedi si poseranno sopra il Monte degli Ulivi che sta di fronte a Gerusalemme verso oriente, e il Monte degli Ulivi si fenderà in due, da oriente a occidente, formando una valle molto profonda” (Zc 14,4). Ma Gesù interpreta a modo suo la profezia. Coglie che non con la distruzione potrà salvare Gerusalemme, la città, l’umanità, ma tentando un’altra via. Intuizione che mette subito in atto con un comando che rivolge ai suoi in modo risoluto: “Andate nel villaggio di fronte a voi e subito troverete...” (v. 2).
Ci è qui presentata una struttura letteraria che ricorda quella della cena (14,12-25), in cui si susseguono: preparazione e attuazione. Ciò concorre a sottolineare che nell’adempimento della sua missione Gesù ha bisogno degli altri, di chiedere in prestito l’asino e la stanza dove mangiare la Pasqua. Ma ciò vale anche a indicare la determinazione di Gesù, la sua libera scelta, come a dire che Gesù prepara il suo umile ingresso in Gerusalemme, e prepara la cena, in cui si donerà nel corpo e nel sangue.
Egli sa e sceglie, al punto da prevedere anche le obiezioni di chi, cogliendo i discepoli nell’atto di sciogliere il puledro, chiederà loro conto di quanto stanno facendo. E loro dovranno rispondere: “Il Signore ne ha bisogno” (v. 3). Sa anche che si tratta di un puledro “su cui nessuno è ancora salito” (v. 2), particolare che solitamente si interpreta come un tratto messianico, perché così doveva essere la cavalcatura riservata al re; oppure rimanderebbe al fatto che si tratta di un animale messo a parte, cioè “santificato”, come le offerte per il Signore. Ma in quella precisazione è possibile anche scorgere la consapevolezza che Gesù sta inaugurando un modo nuovo e inedito di essere Messia.
I discepoli probabilmente comprendono poco di quella scenografia, messa in atto da un Maestro che sanno essere piuttosto imprevedibile. Tuttavia collaborano e, avendogli condotto il puledro, prima di consegnarglielo, compiono un gesto non richiesto, che non è di semplice cortesia: vi gettano sopra i loro mantelli, spingendo quasi Gesù ad andare avanti. In quel puledro che Gesù sta per cavalcare riconoscono il segno messianico di Salomone che sale sulla mula di Davide il giorno della sua consacrazione regale (cf. 1Re 1,38).
Anche la folla partecipa al corteo, stendendo i mantelli sulla strada. Altro gesto che rimanda a un’intronizzazione messianica, quella di Ieu raccontata in 2Re 9,13. Quindi acclama Gesù quale segno del “Regno che viene, del nostro padre Davide” (v. 10), che è un’aggiunta al Sal 118,25-26 esplicitamente menzionato.
Gesù è il Messia che entra nella città santa, dal Monte degli Ulivi, su un puledro, mentre i discepoli e le folle lo acclamano, rievocando probabilmente Salomone e Ieu. Ma per Gesù quel medesimo puledro è l’animale che annuncia il Messia umile e mite di cui parla il profeta Zaccaria, Messia di pace e non di guerra. Con ciò ribadisce che egli intende salvare e non distruggere quella città che gli si para dinanzi: ecco il suo dramma, che l’evangelista Luca, nel passo parallelo, esprime in quel pianto che coglie Gesù alla vista della città (cf. Lc 19,41).
All’acclamazione segue un ultimo versetto, che racconta il doppio ingresso, nella città e nel tempio, e poi il ritorno a Betania (v. 11). Un ingresso semplice e che, diversamente da quanto narrato dagli altri due vangeli sinottici, non è seguito dalla purificazione del tempio. Tutto nel racconto di Marco si concentra in uno sguardo: “Guardando ogni cosa”; e in una considerazione suscettibile di varie interpretazioni: “Essendo ormai l’ora tarda” (v. 11). Gesù compie il suo ingresso fino al centro nevralgico della città, guarda e poi si ritira.
Il racconto ci accompagna così alla soglia della grande settimana, affidandoci nell’immagine del Messia umile la chiave per leggere tutto quello che sta per accadere.
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