La lebbra e il tocco che risana
28 giugno 2024
Mt 8,1-4
In quel tempo1 Gesù scese dal monte e molta folla lo seguì. 2Ed ecco, si avvicinò un lebbroso, si prostrò davanti a lui e disse: «Signore, se vuoi, puoi purificarmi». 3Tese la mano e lo toccò dicendo: «Lo voglio: sii purificato!». E subito la sua lebbra fu guarita. 4Poi Gesù gli disse: «Guàrdati bene dal dirlo a qualcuno; va' invece a mostrarti al sacerdote e presenta l'offerta prescritta da Mosè come testimonianza per loro»
«Non v’è carenza di orrore nel mondo. Se l’uomo chiudesse gli occhi su di esso, ve ne sarebbe ancor di più. L’uomo, tuttavia, è un risolutore di problemi. Su questo schermo apparirà un’immagine di bruttezza, una visione di dolore senza sollievo che nessun essere umano dovrebbe ignorare. Spazzar via quest’orrore e alleviare le sue vittime è lo scopo di questo film e la speranza dei suoi produttori».
È una voce che emerge dal nero di uno schermo, nell’avvio di Khaneh siah ast («La casa è nera»), primo film della regista e poetessa iraniana Forough Farrokhzad, nel 1962. Scene di un lebbrosario, corpi deformi, mancanti, sottratti alla pienezza della vita e delle relazioni. La lebbra divora parti del viso e del corpo, riduce le mani a tronchi contorti di vite, gli occhi a cavità senza luce. La lebbra è isolamento: l’impuro è tenuto lontano, ai margini, fuori della compagnia degli umani.
Si logora nel dolore la mia vita,
inaridisce per la pena il mio vigore
e si consumano le mie ossa.
Sono il rifiuto dei miei nemici
e persino dei miei vicini,
il terrore dei miei conoscenti;
chi mi vede per strada mi sfugge.
Sono come un morto, lontano dal cuore;
sono come un coccio da gettare.
Ascolto la calunnia di molti: «Terrore all'intorno!» (Sal 31,11-14).
«La lebbra è cronica e contagiosa. La lebbra non è ereditaria. La lebbra può essere in nessun luogo e in ogni luogo. Nasce con la povertà. Si mangia i tessuti. Divora il setto nasale. Accieca. Toglie sensibilità al tatto. Apre la strada ad altre malattie. Ma non è incurabile, se si previene il contagio e lo spargersi sulle parti sane del corpo», diceva ancora quella voce fuori campo nel lebbrosario.
Lebbra di ieri e di oggi, visibile nel corpo o invisibile nei cuori e negli animi: l’altro, il diverso, il curvato dal male, l’estraneo perché straniero nella terra della malattia, sono colpiti dallo stigma della marginalizzazione, a motivo di quel «marchio visibile della colpa in cancrena, carne che imputridisce, latteo ghigno del demonio, infinita deformità, che contagia. […] Il lebbroso è oltraggio incarnato, bestemmia, calunnia purulenta, follia» (Pangea).
«Questa è la descrizione di una società chiusa e rigida, l’immagine del vivere umano, da emarginati, come scarti. Anche le cosiddette persone sane in una società apparentemente sana al di fuori del lebbrosario possono soffrire degli stessi sintomi, nascosti nelle profondità del loro animo» (Forough Farrokhzad, da un’intervista di Faraj Saba, febbraio 1964).
I toni cupi di questa scena si illuminano nell’incontro evangelico fra il Cristo e il lebbroso: colui che era escluso dalla società civile e religiosa ora viene visto, riconosciuto, interpellato, ascoltato nel suo bisogno e nel suo desiderio; colui che era come un morto vivente rinasce come un uomo nuovo, di quella novità di vita che viene significata dalla sua carne risanata e tornata rosea come quella di un bambino.
La Parola raggiunge l’uomo e trasfigura la sua decadenza, nel rifiorire di una speranza che vince la caducità, la malattia e la morte.
Sulle labbra di Gesù la tradizione islamica ha posto questa frase: «E inoltre guarirò, con il permesso di Dio, il cieco nato e il lebbroso, e risusciterò i morti» (Corano, Sura 3, § 49). Significativamente, si accosta qui la guarigione del lebbroso alla risurrezione dei morti: c’è speranza per l’uomo di ritrovare la propria verità e vedere in sé, nella propria vita e persino nella propria carne, che «quanto è distrutto si ricostruisce, ciò che è invecchiato si rinnova e tutto ritorna alla sua integrità, per mezzo del Cristo» (Veglia pasquale, Orazione dopo la VII lettura).
Il lebbroso vedeva la morte all’opera nella sua vita, ne percepiva il lavorio distruttivo nelle fibre del proprio corpo, ora sente una parola che guarisce, un tocco che accarezza, conosce, fa comunione. C’è bisogno di risentire col corpo il contatto di quelle dita sulla nostra pelle per sentire la vita rinascere in noi.
E le stelle bianche del mio pianto
sfavillavano nella notte delle ciglia;
vidi come le tue mani, come nuvole,
toccavano il mio viso attonito (Forough Farrokhzad).
un fratello di Bose