Un cuore che ascolta

Maria e Gesù dodicenne

Ogni anno per la festa di Pasqua, memoriale della liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto, Maria e Giuseppe si recano in pellegrinaggio da Nazareth a Gerusalemme. Quando il figlio Gesù compie dodici anni, età considerata dagli ebrei della maturità umana e di fede, lo portano con loro. Finiti i giorni della festa, al momento di prendere la via del ritorno in Galilea, i genitori credono che Gesù sia con il resto della carovana, in mezzo a parenti e conoscenti. Alla sera, però, si accorgono che Gesù non c'è, e nessuno dei familiari l’ha visto.

Possiamo immaginare la pena di questi genitori, che subito tornano indietro, a Gerusalemme, e cercano il proprio figlio in tutti gli angoli della città. Lo trovano solo dopo tre giorni, il tempo dell’attesa.

 

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Gesù è nel tempio, dal quale non era uscito: è rimasto a dimorare là dove dimora la Shekinah, la Presenza di Dio. È seduto tra i rabbini, gli uomini esperti e interpreti delle sante Scritture, intento ad ascoltarli e a interrogarli. Gesù cerca di comprendere meglio ciò che il Signore dice a chi lo ascolta: è un ragazzo che crede, capace di porsi domande.

Come Samuele iniziò a profetizzare a dodici anni (cf. 1Sam 3), come Daniele a questa età disse una parola di sapienza (cf. Dn 13,45-49), così Gesù manifesta che, anche nella sua crescita, ciò che più cerca e più lo coinvolge è la presenza del Signore capace di “parlare” a chi si fa figlio dell’insegnamento e servo della Parola.

Maria, pure lei ancora giovane donna, rimane stupita al vederlo. Accorre, insieme a Giuseppe, e dice: “Figlio, perché ci hai fatto così? Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo” (Lc 2,48). Gesù ribatte: “Perché mi cercavate?”. Lui, a dodici anni, dimostra già una maturità eccezionale, e una libertà inaudita nei confronti dei suoi genitori. Senza l’ombra di un senso di colpa per non averli avvisati di essere rimasto a Gerusalemme, con sconcertante semplicità chiede perché lo stessero cercando, e rivela: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49). Parole che certamente hanno raggiunto il cuore di Maria e Giuseppe, come precisa Luca qualche versetto più avanti: “Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore” (Lc 2,51).

Tutta la vita adulta di Gesù sarà poi dedicata all’ascolto della Parola del Padre, che è Dio. La sua volontà e la sua missione è compiere ciò che il Padre gli chiede. Vivrà la passione, la morte in croce, e riceverà da Dio la vita per sempre attraverso la resurrezione.

Cosa può dire questo episodio a chi oggi è giovane e cerca parole di senso per la propria vita? Quali “rabbini” è possibile cercare e ascoltare e interrogare? Dove dimora oggi la parola del Signore, che ci è Padre? Dimora forse sulle labbra di quel vecchio prete originario del Burundi, in Italia da una ventina d’anni, che assomiglia più a un capo tribù che a un uomo del clero, e che sa pronunciare parole di speranza e consolazione? O sulla bocca di quella donna romena che ogni mattina prende l’autobus sovraffollato, e mentre conversa con la vicina a un certo punto dice: “Nella vita non bisogna troppo calcolare, altrimenti non aiuti mai nessuno. A me piace aiutare, quando posso, le persone che hanno bisogno, e non voglio niente in cambio. Se uno mi ricambia, che aiuto è?”. A ciascuno il compito di interrogare la realtà, di porsi e porre domande.

La parola di Dio, contenuta principalmente nelle Scritture, è una parola che non ci conferma in quello che già pensavamo e sapevamo. È una parola viva. Una parola che sul momento non si comprende, e che tuttavia si percepisce importante custodire nel cuore. Una parola che a tempo debito, come un fuoco da un mucchio di braci sotto la cenere, divampa, e fa luce sul vissuto delle nostre storie, e della storia tutta.