La strada insegna il silenzio
Chi cammina a lungo ama il silenzio. Esso gli permette di regolare il respiro sul ritmo dei suoi passi. Gli fa udire anche il rumore dei suoi passi, diverso su un terreno friabile o sassoso, sulla ghiaia, o sulla morbidezza del suolo erboso. Questa percezione del rumore dei passi fa parte del ritmo del cammino.
È, in modo misterioso, conversazione, alla quale si mescolano altri rumori della strada: quello della cascata, del ruscello, uno scampanio, o i campanacci, un frammento di voce che gli giunge. Chi lo ha emesso e in che circostanza? Quale vita lo circonda, che segue il proprio corso, diverso dal suo? Tutto questo à lasciato alla sua immaginazione. Ma vi può essere anche, all’intorno, il rumore più prosaico di un motore di macchina agricola, di moto, di automobile, di camion. Che cosa fanno, dove vanno? Lui non lo sa.
Ma si sente curiosamente solidale con loro, così come la metà della terra nascosta lo è dell’altra che è ancora, o già, nella luce. A volte può essere anche lo stridio di un animale in un cespuglio, oppure... le prime gocce di pioggia, che lo obbligano a sostare. “Non è la scomparsa dei suoni che fa il silenzio, ma la qualità dell’ascolto, il leggero pulsare della vita che anima lo spazio ... Il silenzio produce un’acuta sensazione di esistere. Segna un momento di denudamento che permette di fare il punto, di raccogliere le idee di ritrovare un’unità interiore, di risolversi a una decisione difficile. Il silenzio sfronda la persona e la rende di nuovo disponibile” (David le Breton). È così che lungo il cammino il pellegrino fa rifornimento di interiorità, e non solo per il momento in cui dovrà riprendere il ritmo del quotidiano, con la sua agitazione, ma anche per la propria esistenza personale, che da quel momento sarà diversa. Come dice ancora un proverbio tuareg: “Il deserto è Dio, il silenzio è la sua parola.
E il pellegrino si nutre di questa parola”. Ne risulta che il pellegrino parla poco. A modo suo è un po’ come i monaci, che conoscono troppo bene il valore del silenzio per permettere che si perda. La parola che si inscrive in questo silenzio è buona. Il silenzio accoglie la parola in uno scrigno di velluto, parola che puòð essere semplice, ma è comunque ricca, buona, ha spessore, è umanità che si offre in condivisione. La chiacchiera è uno spreco, e sul silenzio del pellegrino non può fare veramente presa.
La parola, invece, è arricchente. È anche vigilanza. Quelle poche parole che il pellegrino canticchia tra sé, anche quelle che scambia o che accoglie camminando, hanno sapore di umanità. E forse sono sempre al confine con la preghiera. Il mormorio interiore è una modalità di veglia, sullo stile di quelle evocate dai salmi per esprimere il fatto che l’orante trova rifugio, di giorno o di notte, in parole molto semplici, in un desiderio del cuore. E in alcuni luoghi in qualche misura legati al silenzio, che il pellegrino ama e ricerca, egli lascia che il suo cuore parli al ritmo dei suoi passi, al ritmo del suo respiro, a meno che non custodisca semplicemente... il silenzio
(J. Nieuviarts, Con il passo del pellegrino, Qiqajon, Bose 2009, pp. 53-55).