CARA UMANITÀ

Photo by usgs on Unsplash - Nuvole che solcano il deserto egiziano - i colori sono il risultato dell’utilizzo della camera a infrarossi
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Cara umanità.

Non per mio diritto, ma per condivisione, accoglimi in questa lettera. Ho la solitudine dentro e fuori, e tu così lontana qui in mezzo alle parole. Lo spazio tra noi due è un infinito vuoto, la distanza tra l’io e il noi un’estensione tale da non poter essere misurata. Eppure, mentre tu non sai di me, io so di te ogni giorno e ogni notte e ti vedo allo specchio ogni mattina, primo sguardo.

La chiara coscienza è per me guardare dalla finestra. Mi diventa ogni anno più difficile la neve. Direi che stento nelle relazioni sociali con l’inverno. Credo sia per troppa similitudine noi due. Così mi succede che stento ad uscire di casa. Lo guardo dalla finestra, come del resto anche l’estate. Ma è solo dipendenza da me stessa, dell’Io rispetto alle esigenze del mondo esterno, oppure viceversa. Ora, questa è quotidianità di una voce che cerca distanza per mantenere una posizione di centro nei versi che scrive. Al di là, tu. E la tua condizione e le tue qualità, crudeltà e intelletto, fragilità e costanza, la pietà e l’imperfezione. Splendido e triste saperti insieme, imparo nell’accettazione e nel rifiuto. E mi creo a tua immagine e somiglianza, giorno per giorno guardandomi ti comprendo, secondo sguardo.

Il tuo nome, amo il nome semplice delle mie figlie. Ti chiamo Anna e ti chiamo Maria, e poi ti chiamo Giovanni e ti chiamo Elia e posso chiamarti in lingue differenti, differenti radici e affondare la voce, le mani nel tuo sacro terreno e prosperare in confluenze diverse, così diverse da far dimenticare le deformità e le brutture, le tue, quelle che appartengono a te solamente. Aprire le braccia, chiamarti nome per nome e udire rispondermi:
presente, presente, terzo sguardo.

Insieme e col pianto concorde, ti chiedo un pianto solo, tra commozione e dolore la sinfonia di un lamento comune, per comune sentire. E diventare il canto triste degli uccelli a disagio, il suono di uno strumento musicale in mano alla malinconia, il soffio dei venti, quello di tutti i mari, la condivisione delle genti sole e prendere parte al dolore di chi conosce il dolore. Un unico accordo, la nenia di un solo lamento. E capire, capire, quarto sguardo.

E se non sai, se tu non comprendi, io ti perdono, poiché è me che non devo perdonare, io che ogni giorno colmo il mio essere di infelicità propria, la debole coscienza e la superbia nell’atteggiamento di me che mi preoccupo di me stessa, della mia utilità a vantaggio di me soltanto. Inutile stare è fissare il sasso, poiché è vero, non sono diversa da lui. È l’indifferenza la mala pianta di quest’epoca, le radici che hai sviluppato penetrando il suolo dell’estrema povertà, dello squallore e le desolazioni che non hanno conforto, quinto sguardo.

E ancora tu, narrante Io, colei che scrive,
ancora e solamente io, sesto sguardo.

Tu che hai bisogno di una conferma,
in questo specchio l’anima che vedi ti riguarda.
Ti riguarda questo esercizio sterile, la visione di te,
la tua storia. Qui attraverso non sei diverso,
seppure la tua destra diventi sinistra,
luminoso solo se illuminato.

E ti credi altro da te, rovesciata esistenza
e la domanda: cosa guardi? Cosa vedi?

Vedi uno, nessuno e centomila
che si ripetono e si ripetono le storie,
la conoscenza di te in doppia misura,
posta accanto per servire al medesimo scopo
verità e menzogna. Poco oltre le civiltà, i miti,
l’umanità carnefice, i vinti.
E vedi nello specchio entrare la vanità e l’orgoglio,
dallo specchio uscire in triste solitudine entrambi
e malgrado ciò non poterne fare a meno.

È un povero augurio il mio, scarsa previsione di eventi lieti e felici, poiché in questo preciso istante muoiono le genti. Muoiono ora e questo momento non è passato, è adesso. Così finiscono e iniziano da capo i tristi capitoli che non possiedono la chiusa di un tempo. Fino a quale alba faranno la conta dei giorni le processioni dei miserabili? Scorrono, come sangue nelle vene le generazioni eroiche tra i labili attimi di bene. E in queste poche paci, rare assenze di morte, noi che ogni volta ancora, sediamo in uno spazio riservato al pubblico, che da uguale divano in ogni guerra al racconto della storia per minuti proviamo orrore. Esterni uditori di pianti siamo, gli indolenti, settimo sguardo.

Ecco. Io ti auguro di non incontrare l’indifferenza, male peggiore nel corso di qualunque esistenza. Ti auguro commozione, tremore di cuore, scossa. E che le aspirazioni della tua età vedano i figli ridenti nascere, perché il mondo li vuole. Perché davanti a loro tu stirerai qualunque divisa, pulirai le tue scarpe, eretto corpo, rivolgerai lo sguardo in avanti. E che i libri, i libri più adulati diventino scritture rare, dalla loro carta il profumo della tua compassione. Ti auguro di aspirarla, respirarla, in virtù del cuore e ancora di più, della ragione.

RD
I2021


©Roberta Dapunt - Diritti riservati

Roberta Dapunt è nata nel 1970 a Badia, dove vive e lavora. Ha pubblicato le raccolte di poesia OscuraMente (1993), La carezzata mela (1999), La terra più del paradiso (Einaudi, 2008), Le beatitudini della malattia (Einaudi, 2013) e Sincope (Einaudi, 2018). Oltre all'italiano ha utilizzato nelle sue opere la lingua ladina.