Il servizio alle chiese

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Fratello, sorella, se sei venuto in comunità non è per te stesso ma per i fratelli, uomini e cristiani. La missione è una funzione di tutta la chiesa, che tu realizzi nelle relazioni con quelli che non confessano Cristo a loro salvezza. La comunità non è fine a se stessa: essa è stata inviata al mondo per annunciare la buona notizia. Il senso della missione deve perciò pervaderla. Per attuare tale missione, la comunità può decidere la creazione di fraternità. Come i discepoli di Cristo inviati a due a due, i fratelli in missione e fraternità sono un segno dell’annuncio del Cristo presente. Fratello, sorella, tu provieni da una chiesa cristiana. Non sei entrato in comunità per rifare una chiesa che ti soddisfi, a tua propria misura; tu appartieni a Cristo attraverso la chiesa che ti ha generato a lui con il battesimo. Riconoscerai perciò i suoi pastori, riconoscerai i suoi ministeri nella loro diversità, e cercherai di essere sempre segno di unità. Guardati dal criticare meschinamente e con amarezza, senza amore, la chiesa. Più volte sarai tentato di farlo. Ma guarda prima la vita della comunità. Non scopri in essa tante deficienze come nella chiesa?

(Regola di Bose 41-43.45)

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Gli inizi della comunità

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Fu il bisogno di vivere in modo radicale il desiderio e l’attesa delle promesse del regno a condurre il fondatore della comunità, fr. Enzo, allora studente universitario presso la Facoltà di economia e commercio dell’Università di Torino, a riunire in maniera regolare, a partire dal 1963, nel suo appartamento torinese di via Piave 8, un piccolo gruppo di giovani cattolici, valdesi e battisti.

Fu il bisogno di vivere in modo radicale il desiderio e l’attesa delle promesse del regno a condurre il fondatore della comunità, fr. Enzo, allora studente universitario presso la Facoltà di economia e commercio dell’Università di Torino, a riunire in maniera regolare, a partire dal 1963, nel suo appartamento torinese di via Piave 8, un piccolo gruppo di giovani cattolici, valdesi e battisti. Così, essi iniziarono a leggere insieme settimanalmente la Scrittura, a incontrarsi ogni sera per la preghiera delle ore e a condividere, come gruppo legato alle domus della Pro Civitate Christiana, la celebrazione eucaristica domestica, nella consapevolezza che soltanto facendosi poveri e piccoli, nell’ascolto e nella condivisione, si sarebbe potuti diventare quel piccolo gregge destinatario delle promesse del Signore.  Fu in quel contesto che per alcuni membri del gruppo andò maturando e precisandosi una vocazione comunitaria nel celibato. Fr. Enzo decise allora di scegliere un luogo di incontro fuori Torino, un luogo in disparte, nella solitudine, che servisse di riferimento per tutti e in cui fosse possibile iniziare una vita fraterna. Individuata e affittata una povera casa a Bose, frazione del comune di Magnano, sulla grande morena tra Ivrea e Biella, il gruppo degli amici di via Piave organizzò un campo di lavoro per restituire dignità alla bellissima chiesa romanica di San Secondo, situata a poche centinaia di metri dalla cascina di Bose.

Fu l’ultima attività comune del gruppo torinese: quando fr. Enzo decise di stabilirsi in quella povera casa (Bose era allora una località molto isolata e priva di elettricità, di fognature e di acquedotto), rimase solo. Qualcuno del gruppo di via Piave continuerà a fargli visita, e volti nuovi si affacceranno per cercare una vita in disparte e un luogo di preghiera. Di fatto, però, dal suo trasferimento a Bose fr. Enzo si trovò a vivere un tempo di profonda solitudine. Tempo prezioso, dedicato da un lato alla preghiera e all’accoglienza di coloro che di quando in quando passavano da Bose per un momento di silenzio e di ascolto della Parola, dall’altro all’approfondimento della propria vocazione, sia attraverso visite e periodi di soggiorno in monasteri cattolici (presso i trappisti di Tamié), ortodossi (al Monte Athos) e riformati (a Taizé, comunità allora interamente composta di riformati), sia grazie ai colloqui e all’amicizia con figure di grande levatura spirituale, come padre Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino, e l’indimenticabile patriarca di Costantinopoli Athenagoras. Al peso della solitudine si aggiunse presto l’incomprensione del vescovo locale, che il 7 novembre del 1967 proibì qualsiasi celebrazione liturgica pubblica presso la cascina di Bose, a motivo soprattutto della frequente presenza di non cattolici tra gli ospiti di fr. Enzo.

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A questo provvedimento, così come alla perdurante solitudine, si fece piena obbedienza, pur nella grave sofferenza, nella convinzione che quel germe di vita avrebbe avuto senso solo se fosse cresciuto nella chiesa. Sarà padre Pellegrino a risolvere la questione, salendo a Magnano il 29 giugno 1968 per un incontro sul tema “La fede di Pietro nei padri della chiesa” e celebrando in quell’occasione l’eucaristia con quanti si trovavano riuniti a Bose.

Pochi mesi dopo, nell’ottobre 1968, terminava la lunga vigilia: due giovani cattolici (Domenico Ciardi e Maritè Calloni) e un pastore riformato svizzero (Daniel Attinger) decidevano di unirsi a fr. Enzo per iniziare una vita comunitaria, assieme a una sorella della comunità riformata di Grandchamp, richiesta da fr. Enzo alla priora della comunità, sr. Minke De Vries.

Scriveva il 1° gennaio del 1970 padre Ernesto Balducci, nel suo Diario dell’esodo:

"Su di una collina, nei pressi di Biella, un gruppo di cristiani di diversa confessione ha occupato, da due anni, le poche casupole lasciate vuote dal piccolo nucleo di abitanti migrati in città. Sono case per modo di dire: il vento fischia tra le fessure e la nebbia che le avvolge sembra quasi dipanarle e portarsele via. Non c’è nemmeno la luce elettrica. C’è la fede paradossale di questi amici che si propongono di preparare, in assoluta povertà, il cristianesimo di domani".

Addossati al deserto

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Raccontata in breve la storia degli inizi, è necessario chiarire in quale senso la comunità formatasi e consolidatasi a Bose negli ultimi trent’anni si riconosca nell’alveo della tradizione monastica.
I monaci furono fin dai primi tempi della chiesa uomini e donne che, per poter vivere la vocazione cristiana in modo radicale, sentirono il bisogno di andare in disparte, di vivere ai margini della società e anche della chiesa visibile, a costo di essere marginali. Un monastero è solitamente addossato al deserto, alla montagna, ai boschi...

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