Essere sale e luce per altri


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13 novembre 2024

Mt 5,13-16

In quel tempo Gesù diceva ai discepoli: «13Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente.14Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, 15né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. 16Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.


«Voi», il piccolo gruppo dei discepoli del Signore, la comunità delle beatitudini, alla quale il Maestro ha appena annunciato la possibilità reale dell’insulto, dell’opposizione, dell’incomprensione, della persecuzione, della menzogna, questo stesso «voi» è chiamato ad essere «sale», anzi lo è già: sale che dà sapore, gusto, come condimento invisibile, ma saporoso, come sapienza che, inosservata, informa di sé parole e gesti di senso. Ma quel sale non è fine a se stesso, perché la sua funzione è quella di insaporire i cibi, di perdersi e disperdersi, invisibilmente, affinché gli alimenti che sostengono la vita possano risultare gustosi. Un’invisibilità necessaria, essenziale, un diminuire proprio perché il senso e il sapore crescano, a beneficio di altri.

Dal gusto alla vista, la metafora prosegue descrivendo la comunità del Signore come «luce del mondo», posta in alto, su un candelabro, affinché il suo chiarore, diffondendosi, raggiunga tutti gli abitanti della casa. Questo risplendere «davanti agli uomini» non è sinonimo di una volontà di ergersi con arroganza al di sopra degli altri, fregiandosi di una pretesa superiorità, ma è dell’ordine della visibilità necessaria di «una città che sta sopra un monte», e che quindi «non può restare nascosta», perché questa luce che i discepoli portano è solo il riflesso di un’altra Luce, quella di Dio che è rifulsa nel Cristo, come l’evangelista ricordava poco sopra ai suoi lettori: «Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta» (Mt 4,16; Is 9,1).

Sembra esservi qui una tensione paradossale fra le due metafore: la stessa realtà – cioè la comunità dei discepoli – è connotata dall’invisibilità del sale e dalla visibilità della luce posta sul lucerniere, come della città posta sulle alture. Un paradosso che dice, però, una misteriosa fecondità, cioè l’esigenza del dono, dell’essere e dell’esserci non per sé, ma per altri, in un’apertura e in una dilatazione che assumono i tratti dell’universalità, come suggerisce il crescendo dei termini: terra (v. 13), mondo (v. 14), tutti (v. 15), gli uomini (v. 16).

Così l’ultimo versetto chiarisce che si è sale e luce quando si lasciano brillare le proprie opere, cioè l’amore vissuto nella forma delle beatitudini, in un operare apportatore di sapienza, sapore e luminosità, perché gli altri – tutti gli altri – possano trovare senso e illuminazione, come ricorderà anche la Lettera di Pietro: «Tenete una condotta esemplare perché […] al vedere le vostre buone opere diano gloria a Dio» (1Pt 2,12).

Questo vangelo risuona oggi attraverso la figura di san Giovanni Crisostomo, patriarca di Costantinopoli nel iv secolo e insigne predicatore, la cui memoria ricorre il 13 settembre secondo il calendario cattolico, mentre le Chiese ortodosse lo ricordano il 13 novembre, cantando: «La grazia della tua bocca, che come torcia rifulse, ha illuminato tutta la terra, ha deposto nel mondo tesori di generosità, e ci ha mostrato la sublimità dell’umiltà. Sei divenuto sole dalle molte luci per rischiarare tutta la terra con i tuoi discorsi, luminosissima lampada, fiaccola che invita al placidissimo porto della salvezza per grazia quelli che continuamente sono sbattuti dalla tempesta nel mare del mondo, o Crisostomo dall’aurea eloquenza».

un fratello di Bose