Sogni da mangiare


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straberry grimwooddi Rubem Alves

Povera Babette... Per quattordici anni non aveva fatto altro che cucinare, cibandosi di un pasticcio di pesce, farina e latte. Viveva con gli abitanti del villaggio e sembrava una di loro. C’era solo una differenza: non aveva dimenticato. “Ciò che la memoria custodisce
è eterno”. Nel suo silenzio serbava ricordi di gioie passate, sconosciute a tutti gli altri. E sarebbe stato inutile parlarne. Non avrebbero capito. Come Cenerentola, tra la cenere, i suoi sogni non erano condivisibili.
E questo era il suo vero cibo: vecchie ricette, formule per dar piacere. Non si vive di solo pane, ma di parole che custodiscono il ricordo di una gioia perduta. Non anelava a nulla di nuovo o di diverso. Desiderava ardentemente solo il passato. E in effetti è impossibile che si desideri ardentemente qualcosa di nuovo.
Com’è possibile che una persona aneli a qualcosa che non conosce? Perché una persona brami qualcosa, deve averne già fatto prima esperienza. E la bramosia verso qualcosa subentra, quando la si ha perduta. L’amore desidera ripetere e recuperare nel futuro un tempo passato.
L’amore è una “recherche du temps perdu”. Babette si era nutrita per quattordici anni di sogni misti a desideri. Finché un giorno, per pura grazia, non accadde il miracolo...
Ma i nostri sogni sono troppo grandi. Una cucina è uno spazio troppo angusto per trasformare in cibo l’intero universo. Il nostro principale rammarico è di non poter mangiare tutto ciò che vediamo... La cucina e il piacere che essa procura è solo una metafora della trasformazione che avviene nel fuoco, la resurrezione cosmica dei morti, l’apocalisse: questo è il cibo che bramiamo.
Babette riuscì ad andare in città e a ordinare le cose di cui aveva bisogno, anche se si trattava di farle venire da paesi stranieri. Ma noi, dove potremo indirizzare il nostro ordine?
Siamo ciò che mangiamo, è vero. Ma la verità non si esaurisce qui. Siamo anche il cibo che desideriamo e non possiamo mangiare. Siamo creature eternamente affamate. Per questo il cibo pasquale è misto ad erbe amare... E noi mischiamo il nostro cibo a parole: sacramenti.
Ancora manca qualcosa. Ogni pasto non è altro che un “aperitivo”.
E il nostro corpo, piccola cucina, si sazia di cibi che non sarà mai la cucina al di fuori di noi a confezionare: sogni... Il corpo è una cucina utopistica... I sogni sono questo: ciò che il corpo desidera ardentemente e tuttavia non riesce a mangiare. Il corpo diviene così uno spazio fantasmatico, ove si appronta al fuoco del desiderio un baccanale orgiastico.
Siamo ciò che mangiamo.
Mangiamo ciò che non esiste: sogni.
Siamo i sogni di cui ci nutriamo.
I sogni sono buoni da mangiare: cibo...
Siamo trasformati dal cibo che mangiamo.
Siamo trasformati dai nostri sogni.
Siamo trasformati da ciò che non esiste.
“Cosa saremmo senza l’aiuto di ciò che non esiste?”.
Un sogno non è un argomento valido.
Un sogno non è un’affermazione vera sulla realtà esterna.
Non è una spiegazione convincente.
Non è neppure una concatenazione di idee chiare e distinte.
Gli argomenti non hanno gusto,
le spiegazioni non hanno odore,
idee chiare e distinte non hanno colori...
I sogni non sono fatti d’idee. Sono fatti d’immagini.
Le immagini sono la presenza dell’oggetto del desiderio
perduto, offerto ai nostri sensi. Ne invocano l’esuberanza
erotica: colori, profumi, sapori e tocchi. E il
corpo ama ciò che è assente e ne assapora escatologicamente
le delizie.
Tutti gli amanti sanno cosa voglio dire.
La volpe sorrideva alla vista dei campi di grano...
Nel mangiare il pane e bere il vino i discepoli si ricordarono di un volto...
L’amante piange o sorride nel vedere la fotografia della persona amata...

tratto da Parole da mangiare, Edizioni Qiqajon