Il sangue dei martiri, seme di comunione
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Intervento di Sua Beatitudine Yuhanna X Patriarca di Antiochia e di tutto l’Oriente
XXIV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa
MARTIRIO E COMUNIONE Monastero di Bose, 7-10 settembre 2016
Dalla Chiesa apostolica di Antiochia dove “per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani” (At 11,26),
invio a voi la benedizione apostolica con amore sincero e l’abbraccio fraterno in Cristo Gesù nostro Signore.
“Dio ha messo noi, gli apostoli, all'ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo dati in spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo percossi, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo…” (1Cor 4,9-13).
Forse in queste parole dell’Apostolo Paolo si trova l’espressione migliore dell’attuale situazione della Chiesa di Antiochia e la sua continua lotta per rendere testimonianza, nel corso dei secoli, al suo Signore e alla sua fede viva. Non appena, infatti, terminò l’era delle persecuzioni dell’impero romano pagano, giunse alle porte delle nostre diocesi nel Mediterraneo orientale l’invasore. Fu un’epoca di rinnovata testimonianza e di martirio aggravata dalle conquiste dei Persiani, dei mongoli, dalle invasioni dei Mamelucchi e degli altri eserciti stranieri che hanno devastato la nostra regione. Poi fu la volta dell’avanzata ottomana e della creazione dell’impero ottomano nel nostro Oriente. È come se la nostra Chiesa fosse condannata a vivere all’ombra degli invasori e dei conquistatori subendo le loro politiche di repressione religiosa e i loro crimini storici che hanno portato alla frantumazione del corpo ecclesiale antiocheno in diverse realtà ecclesiali.
La Chiesa d’Oriente, tuttavia, nonostante il grande prezzo pagato, è rimasta sempre disponibile al dialogo con i fratelli cristiani. Anzi, ha sempre teso la mano verso l’altro per abbracciarlo nel nome dell’agape evangelico e della speranza “che non delude” (Rm 5,5).
Oggi, come sapete, sui nostri figli e sui nostri paesi soffiano venti di guerra che mirano a frantumare le nostre società e ad annientare la semplicità, il calore, la lentezza e le belle aspettative che le caratterizza. Guerre di estranei a casa nostra, guerre di estremisti che mancano del minimo accettabile di umanità, di ragionevolezza, di sensibilità.
Il nostro popolo, fratelli, ama la pace e la brama ardentemente. Noi siamo un popolo che ha il disgusto per le guerre e che detesta le armi. Nel corso del tempo, ha capito che il confronto violento non genera che distruzione, frantumazione e desolazione. Sì, noi abbiamo capito che la violenza non edifica né le nazioni, né le democrazie, né le libertà come alcuni ritengono, ma al contrario semina calamità come l’odio, l’inimicizia e la divisione.
I nostri cristiani d’Oriente oggi cercano qualcuno che porga attenzione al loro grido ma non lo trovano. Nei nostri paesi noi siamo fautori di pace, di riconciliazione, di armonia, di fraternità. Non andiamo in cerca della pietà dei forti di questo mondo ma, a voce alta, urliamo loro in faccia: “Smettetela di affibbiarci l’etichetta di miscredenti, basta terrorismo, basta menzogne! Smettetela di esportare la barbarie, di adottare slogan insensati! Basta dichiarazioni ipocrite che invitano i Paesi ad accogliere i cristiani [sradicati]”. Ciò che di meglio il mondo sta facendo per il bene di cristiani e musulmani insieme nel nostro Oriente è diffondere la cultura del dialogo mettendo un freno alla cultura della spada. Salvate i nostri paesi dalle grinfie del terrorismo, fermate il commercio sfrenato delle armi e richiamate nei porti le vostre navi da guerra! Non ci sentiremo al sicuro né con navi da guerra né con navi da emigrazione! Ci sentiremo protetti soltanto se nelle nostre terre verrà seminata la pace. Noi siamo piantati qui da duemila anni, qui siamo nati, qui viviamo, qui anche moriremo.
Ripeto: non è giunta l’ora che il mondo si svegli? Non è giunta ancora l’ora in cui l’umanità si renda conto che terrorismo e intolleranza religiosa (takfir) che ora prendono di mira i nostri popoli e le nostre chiese raggiungeranno ogni angolo di questo pianeta? Non è giunta ancora l’ora in cui la politica internazionale si interessi al caso dei due metropoliti, Yuhanna Ibrahim e Bulus Yaziji, e dei padri presbiteri rapiti da più di tre anni? Non è giunta ancora l’ora per la società internazionale di domandarsi, per una volta, perché impone un embargo a un popolo affamato chiudendogli le porte dei suoi mercati mentre gli spalanca quelle del mercato delle armi?
La realtà dei nostri paesi è dolorosissima. Viviamo un’epoca tremenda in cui ampi strati della nostra società subiscono una persecuzione sistematica da parte delle organizzazioni religiose estremistiche che nulla hanno a che vedere con la religione, come si sa nei nostri paesi. L’ondata di estremismo, di chiusura e di rigetto dell’altro che oggi imperversa nel Mediterraneo orientale mirando a estendersi al mondo intero, è un’ideologia che non ha niente a che vedere con la religione. Essa è senza alcun dubbio il risultato diretto di ostinate geopolitiche che non hanno seminato che odio. Tutta l’umanità, ora, non raccoglie se non terrore e morte. Gli abitanti di centinaia di villaggi e di decine di città sono diventati profughi. Migliaia di madri hanno perso i loro figli. Sono state rase al suolo abitazioni, sono stati profanati luoghi di culto. Intere aree vengono ora svuotate dei loro abitanti autoctoni che in esse risiedono dall’alba della Storia.
Cosa posso dire ancora? Mi servirebbe tempo per raccontarvi dei rapiti, dei prigionieri, dei deportati, dei feriti che non hanno speranza di guarire. Come posso descrivere i corpi torturati o il dolore delle donne deportate o la miseria dei bambini arruolati con la forza per combattere? O come potrei raccontarvi delle famiglie dei rapiti che, instancabilmente, ancora attendono dopo una lunga assenza il ritorno dei loro figli? Sembrano descrivere la nostra situazione le parole della Scrittura: “Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più” (Mt 2,18; Ger 31,15).
“Siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini” (1Cor 4,9). In verità, non riesco a capire come facciano i politici della terra a stare con le mani in mano, a guardare come spettatori il teatro di violenza che è il nostro paese dando priorità soltanto agli interessi economici e strategici che servono le loro politiche disumane.
Il mondo oggi, fratelli, è in uno stato di smarrimento. Attende da noi cristiani volti oranti, una comunione autentica e una vera unità che superi le barriere della Storia, i suoi peccati e le sue ferite. Il mondo oggi ha un impellente bisogno di una testimonianza cristiana fondata sull’incontro e la comprensione, di una voce cristiana unificata e franca che risponda agli interrogativi che lanciano una sfida all’uomo d’oggi in tutte le crisi sociali che è chiamato ad affrontare. Sì, la globalizzazione forse unificherà le nostre società sul piano economico, politico e massmediatico, ma le nostre società continueranno a restare smarrite, frantumate sul piano dell’etica, del sentire umano e dei valori spirituali. Se non ci unirà “un pensiero solo e un cuore solo” come potremo offrire questa testimonianza o come potremmo soddisfare queste necessità?
Non è forse giunto il tempo che i nostri dialoghi teologici superino le barriere e i complessi della Storia? Non è forse giunta l’ora di comprendere che le nostre divisioni rendono sterile la nostra testimonianza? Tanto più in una terra arida dominata dal materialismo e dall’assurdo, da modelli perversi che vengono sponsorizzati tanto da imporsi come normalità, come unità di misura e principio.
Come possiamo, nella nostra frammentarietà, affrontare lo sfruttamento assurdo, di cui siamo testimoni in questi giorni, della religione che viene piegata a dettami politici? Come possiamo essere fautori di pace e far ascoltare la nostra voce in un mondo che in noi non vede che tensioni, divisioni, parcellizzazioni? Se la pace di Dio non sgorga dalle nostre relazioni come possiamo offrire questa pace al mondo? Come possiamo testimoniare che il cristianesimo è affrancamento da ogni laccio e da ogni schiavitù e che, anzi, è principio di vera libertà, se siamo ancora schiavi delle dispute del passato, del peso della Storia e della nostra autosufficienza? In quanto Chiese di Cristo sappiamo riflettere, a beneficio del mondo, nel bel mezzo delle nostre divisioni, “la grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo” (2Cor 13,13)?
Il sangue dei martiri è stato sempre il lievito che fa lievitare tutta la pasta. Rimette in forza il Corpo di Cristo, la Chiesa, rinnovando in essa le grazie dello Spirito Tuttosanto. Soffriamo in maniera indicibile per i nostri martiri e per coloro che hanno offerto, per fede, la bella testimonianza (cf. 1Tim 6,13). Ma la nostra consolazione per la gloria divina che hanno ottenuto è senza fine. “Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui” (1Cor 12,26).
Il martire è testimone di qualcosa che ha amato e per la quale è morto. È un martire dell’amore. E i martiri della verità sono coloro che hanno fatto la gloria della Chiesa nel corso della Storia. A partire dalla testimonianza della verità offerta dal Re della gloria sulla sua Croce, veniamo a voi con amore, da una Chiesa ferita e gloriosa allo stesso tempo: ferita per ciò che sta accadendo e gloriosa per la gloria dei suoi martiri giusti.
Il Cristianesimo orientale è oggi testimone per eccellenza del Signore Redentore e Risorto. Questo Cristianesimo è appeso alla Croce di quest’Oriente e percorre la via del Golgota. Tuttavia, nel suo ventesimo secolo di vita, volge gli occhi alla luce della Risurrezione e ha fiducia che il Signore della Risurrezione è in mezzo a noi, nonostante l’avversità. La corona del tempo presente può far sanguinare il suo volto. Eppure essa è pienamente cosciente di essere figlia di Cristo, figlia di colui che è stato coronato di spine e che ha riposato nel sepolcro. E sa perfettamente che il sonno del sepolcro è stato spazzato via dal Signore risorto che ha distrutto le catene degli inferi facendo sorgere su di tutti la luce della Risurrezione.
La Chiesa nel nostro Oriente cristiano sa bene che il fuoco della persecuzione, di cui sta pagando il prezzo, ha raggiunto anche i suoi fratelli in Occidente. La malvagità delle ideologie estremistiche non fa distinzione tra un cristiano orientale e uno occidentale. Di questo linguaggio della violenza e del sangue, infatti, è stato vittima per primo un arcivescovo caldeo, Mar Paulos Faraj Rahho, che fu rapito nel 2008 in Iraq. Con il suo martirio fu inaugurata l’era contemporanea di persecuzione nei nostri paesi. Come possiamo non provare venerazione ricordando il padre gesuita olandese Frans Van der Lugt ucciso a Homs dopo aver speso la sua vita nel servizio e nel dono di sé? Come possiamo non inchinarci davanti a quei ventuno copti, uomini di Dio, il cui sangue è stato versato sulla costa libica mentre invocavano Gesù Signore e Salvatore. O i trenta martiri etiopi che hanno pagato con il sangue la loro fede nel Cristo, Figlio del Dio vivente. O i tantissimi altri uccisi per il nome del nostro Signore e Redentore. O ancora i martiri viventi che sopportano sofferente fisiche e psicologiche terribili perché appartengono al Signore Gesù. Ad unirsi a questa schiera moderna di martiri pochi giorni fa è stato padre Jacques Hamel morto in Francia, “ucciso tra l’altare e il santuario” (Mt 35,23) come dice la Scrittura.
Mi manca il tempo per parlarvi dei martiri dell’Uganda, dell’Armenia, della Russia, dell’Europa orientale, di Charles de Foucauld, di Edith Stein, di Massimiliano Kolbe, di Oscar Romero, di Alexander Men. Volti e nomi che hanno testimoniato, affermato e confessato che l’amore di Cristo è sconfinato e “invita tutti all’unità”.
La Chiesa d’Oriente sa che i martiri contemporanei sono primizia della nostra unità in Cristo, non importa a quale Chiesa appartengano. Ora, essi sono uniti al Signore della gloria. I loro nomi sono scritti nel libro della vita e attendono la nostra lotta qui sulla terra sperando che possiamo, mediante la nostra instancabile opera, attenta giorno e notte al bene della Chiesa e del suo popolo santo, compiere ciò che è gradito a Dio. Senza dubbio le sofferenze dei cristiani in questa nostra ultima crisi rappresentano per noi il miglior incentivo a pensare attentamente alla nostra unità come cristiani e a dare priorità a un’azione seria tesa a realizzarla.
Il sangue dei martiri è un invito rivolto a noi ad unirci con Cristo nel suo unico Corpo. Così facendo la Storia sarà riscattata e santificata. Il sangue dei martiri è una sfida rivolta a noi affinché realizziamo l’unità piena e tangibile della Chiesa perché la volontà del Padre per la Chiesa è “come in cielo così in terra”. Eppure, siamo disposti ad ascoltare quest’appello e a rispondergli? Oppure ci basta vantarci delle gesta dei santi martiri circondandoli di espressioni di lode e onore senza che queste parole abbiano il ben che minimo effetto nel nostro cuore e nella nostra realtà?
I martiri della Chiesa dei giorni nostri ci ricordano che ciò che ci unisce è molto più grande di ciò che ci divide. Ma come possiamo rispondere in maniera pratica al loro appello? Ognuno di noi è disposto ad ammettere la propria responsabilità nell’allargare il fossato che divide le nostre Chiese? Ognuno di noi è disposto ad ammettere i propri errori commessi lungo il corso della Storia e in particolare quegli errori che hanno contribuito a dividere il Corpo di Cristo? Siamo pronti a curare, con onestà, le ferite del passato e a liberarci della memoria dell’inimicizia?
Abbiamo bisogno di mettere in moto con determinazione passi volti a riconciliarci con il sangue dei nostri nuovi martiri. La Storia ha gettato sulle spalle di ognuno di noi un giogo fatto di divergenze, di incomprensioni, di pregiudizi terribili che hanno solidificato un “muro di inimicizia” che divide le Chiese. Dobbiamo mettere in atto misure pratiche per abbattere questo recinto per poter entrare in una comunione piena come quella che ci insegnano i martiri dei tempi moderni.
Non c’è dubbio che la comunione della sofferenza avvicina tra loro i cristiani e le Chiese. Le condizioni sono propizie per mettere ordine nelle nostre priorità e negli approcci da adottare nell’ambito dell’attività ecumenica nel corso del ventunesimo secolo. In questo senso, dopo aver parlato nello scorso decennio di “ecumenismo spirituale” e di “ecumenismo del sangue” vorrei lanciare l’appello oggi a un “ecumenismo della conversione”. Abbiamo urgente bisogno di un’azione ecumenica comune che si poggi sulla conversione nel senso paolino del termine Μετανοία. Così saremo in grado di rinnovare la nostra mente mediante l’ammissione dei nostri errori, di uscire dal nostro isolamento ecclesiale per stringere la mano dell’altro, di curare l’io ecclesiale collettivo mediante la riconciliazione con l’altro e il perdono con tutto il cuore. Se ciò non avvenisse, ci ritroveremmo a rendere inefficace la potenza del sangue dei martiri e priveremmo il mondo della testimonianza dell’unità cristiana di cui esso ha bisogno: “affinché abbia la vita e l’abbia in abbondanza” (cf. Gv 10,10).
L’unità cristiana viene costruita e diventa piena nella misura in cui ognuno di noi aspira all’unità con Cristo e si lascia attrarre da lui. Io mi unisco all’altro cristiano nella misura in cui io aspiro con lui a essere in unità con Cristo e a essere attratti da lui in una maniera tale da non essere bloccati dalle contingenze storiche, da superare le questioni futili e superficiali, da essere sostenuti e temprati dalla dottrina vera e dalla fede tramandataci di generazione in generazione.
Preghiamo gli uni per gli altri, chiedendo l’intercessione dei martiri santi e la loro protezione per i nostri popoli contro il male, le divisioni e la frantumazione. Supplichiamo lo Spirito divino affinché illumini i nostri cuori, guidi i nostri passi sul cammino della pace, della riconciliazione e dell’unità e ci doni la forza per avvicinarci sempre più ai nostri fratelli affinché possiamo essere illuminati mediante la sua comunione vivificante e Dio sia “tutto in tutti” (1Cor 15,28).
Onorare i martiri e il martirio, fratelli, non significa assolutamente sminuire il valore della dignità umana e della santità della vita terrena. Noi siamo un popolo che ama vivere e abbiamo diritto a vivere in pace. Ma se siamo costretti ad alzare la voce contro l’iniquità, lo facciamo senza temere la morte.
Cosa posso dire ancora? “Accoglieteci nei vostri cuori! A nessuno abbiamo fatto ingiustizia, nessuno abbiamo danneggiato, nessuno abbiamo sfruttato. 3Non dico questo per condannare; infatti vi ho già detto che siete nel nostro cuore, per morire insieme e insieme vivere. 4Sono molto franco con voi e ho molto da vantarmi di voi. Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione.” (2Cor 7,2-4).
Sì, fratelli. Noi ad Antiochia, nonostante l’insopportabile dolore che viviamo, nonostante le grandi persecuzioni, nonostante i rapimenti, lo sradicamento, la privazione degli elementi basilari per una vita decente, amiamo ancora i fratelli e quando li incontriamo e dialoghiamo con loro con sincerità, scorgiamo un volto di speranza e la testimonianza resa a Colui che ha vinto la sofferenza e la morte e che ci ha donato, all’alba del terzo giorno, la luce della sua risurrezione e la grande compassione.
A lui sia gloria in ogni cosa. Amen.