Prolusione di Enzo Bianchi

XI Convegno Liturgico Internazionale Bose, 30 maggio – 1° giugno 2013
IL CONCILIO VATICANO II
Liturgia, Architettura, Arte

Organizzato dal Monastero di Bose
in collaborazione con Ufficio Nazionale Beni Culturali Ecclesiastici
della Conferenza Episcopale Italiana e «Rivista Liturgica»

Il Priore Enzo Bianchi durante la prolusionePROLUSIONE DI ENZO BIANCHI

Bose, 30 maggio 2013

Introduzione

Eminenza,
cari vescovi,
esimi relatori
e voi tutti che partecipate a questo Convegno,
un saluto da parte mia e della Comunità
che vi accoglie con gioia.

Per fare memoria dei 50 anni della Sacrosanctum Concilium abbiamo quest'anno modulato il nostro programma attorno al tema di Liturgia, architettura e arte, in una forma meno analitica rispetto agli altri anni. Si tratterà certamente di fare non tanto una commemorazione dell'evento conciliare guardando indietro, quanto piuttosto di leggere oggi, dopo 50 anni, le vie che si sono aperte e le prospettive per il futuro.

Chiedo subito molta comprensione per quello che oserò dire, sicuro che, non possedendo nessuna autorità ma solo delle convinzioni, convinzioni di un cristiano e di un monaco che pratica la liturgia e quindi riflette anche su di essa, potrò fare e destare domande piuttosto che indicare soluzioni, guardando al futuro.

Per questo, inizio, a mo’ di introduzione, con una lettura del contesto in cui sono maturate alcune mie convinzioni, un contesto determinato da cinquant’anni vissuti dopo la costituzione conciliare Sacrosantum Concilium, anni segnati dalla riforma liturgica, ma anche anni in cui nella storia dell’occidente è avvenuta un’evoluzione, antropologica prima che socio-politica, rapida e profonda. Questo mezzo secolo coincide anche con gli anni della mia vita consapevole, della mia vita cristiana e monastica, del mio crescere dalla giovinezza alla vecchiaia: in essi ho visto, ho seguito da vicino, sono stato coinvolto nella riforma liturgica e nella vita della chiesa che ne è scaturita. E certo non posso non dichiarare una mia impressione meditata e verificata, in base alla quale dividerei questi cinquant’anni di post-concilio e di riforma liturgica in due periodi. Il primo, fino al 1990 circa, in cui si registra una ricezione convinta della riforma liturgica; il secondo, dal 1990 fino a oggi, in cui si registra invece prima una stasi, poi una certa diffidenza verso la riforma, dando di conseguenza inizio a una reinterpretazione restrittiva e anche a una correzione del cammino fatto fino ad allora. L’istruzione Liturgiam authenticam, promulgata dalla Congregazione per il Culto Divino il 28 marzo 2001, è forse il culmine di questa nuova tappa della ricezione.

L’«oggi» della vita ecclesiale, un oggi che riguarda a grandi linee gli ultimi vent’anni, è contrassegnato dal conflitto: la liturgia, che per sua natura vuole essere luogo di comunione e spazio in cui il Signore risorto e vivente dona alla sua comunità la pace («Pax vobis!»: Gv 20,19.21.26), è luogo di conflitto, di contrapposizione, di delegittimazione gli uni degli altri, di accuse che si nutrono di una logica settaria e in ogni caso non conforme allo spirito del Vangelo. Tutta la chiesa ne soffre, è una chiesa «afflicta», per riprendere un’espressione del magistero, e in questa vera e propria situazione di aporia in cui molti non sanno cosa dire e cosa fare si registra una paralisi che non è conservazione della tradizione né preparazione di un futuro ecclesiale fecondo; si registra una confusione, perché a molti riesce difficile comprendere dove va la chiesa; si registrano tentativi di ritorni nostalgici alle tradizioni, senza che si punti a un limpido attingere alla grande tradizione, in modo da avventurarsi sereni in quest’ora ecclesiale che richiede un rinnovamento dell’evangelizzazione, una nuova grammatica per comunicare il Vangelo agli uomini e alle donne di oggi.

Possiamo dunque chiederci: la liturgia che viviamo oggi nella chiesa, la liturgia voluta dal Concilio Vaticano II – «la grande grazia del secolo XX», come l’ha definito Giovanni Paolo II (cf. Lettera apostolica Novo millennio ineunte [6 gennaio 2001] 57) –, è in grado di essere il luogo, il sito in cui i fedeli possono essere soggetti della fede cristiana, capaci di sperimentare che cosa la fede permette di vivere, capaci di accogliere una speranza da offrire e proporre agli altri uomini? Oppure la liturgia è tentata di diventare un non-luogo, cioè uno spazio in cui gli uomini non vivono il loro oggi nell’oggi di Dio, in cui non trova accoglienza l’umanità reale, concreta e quotidiana, in cui si consuma un «sacro» che nulla ha a che fare con Gesù Cristo, l’exeghésato del Dio vivente (cf. Gv 1,18)?

È in questo contesto che voglio suscitare domande sul nostro futuro di credenti, convinti che la liturgia sia «fons et culmen» (cf. Sacrosantum Concilium 10) di tutta la loro identità, del loro stare nel mondo. Molti sarebbero gli ambiti sui quali potremmo interrogarci, ma io mi limito ad analizzarne brevemente tre:

  1. Liturgia e Parola.
  2. Liturgia e spiritualità.
  3. Liturgia ed evangelizzazione.

Ripeto, avrei potuto sceglierne altri, forse di uguale valore, ma mi fermo a un numero di elementi minore di quello dei sassi scelti dal Dio vivente, cinque, e messi nella propria sacca dal re David prima di andare in battaglia (cf. 1Sam 17,40).

1. Liturgia e Parola

Nel suo intervento all’81° Katholikentag tenuto a Bamberg nel luglio del 1966 Joseph Ratzinger, dando alcune risposte alle obiezioni già allora sollevate nei confronti della riforma liturgica, indicata da lui come «segno di contraddizione» («Le catholicisme après le Concile», in La documentation catholique hors-série 1 [2005], p. 6), affermava che l’originalità del culto cristiano sta nel suo «essere essenzialmente annuncio della buona notizia alla comunità riunita in assemblea e accoglienza di essa da parte della comunità che risponde» (ibid.). Dunque Parola di Dio rivolta alla chiesa e parola della chiesa rivolta a Dio. Egli affermava ancora: «Purificando la Parola dal suo carattere rituale per ridonarle il suo carattere di Parola, la riforma liturgica ha compiuto un atto di importanza decisiva … La Parola si era svuotata diventando rito, e la riforma liturgica non ha fatto altro che rimettere in valore la verità della Parola e, nello stesso tempo, la verità del culto della Parola» (ibid., p. 7).

Questo tema del «culto secondo il Lógos», che riprende l’espressione paolina «loghikè latreía» (Rm 12,1), è caro a Joseph Ratzinger e sovente l’attuale papa è tornato su di esso, con precisazioni penetranti, in quanto egli è convinto – sono ancora parole sue – che «la liturgia non consiste nel riempirci del sentimento del sacro, per mezzo di fremiti e di allusioni, bensì nel metterci di fronte alla spada tagliente della Parola di Dio (cf. Eb 4,12)» (ibid.). Non a caso nell’Esortazione apostolica post-sinodale Verbum Domini (30 settembre 2010) Benedetto XVI, dopo aver parlato per la prima volta nel magistero dell’analogia Verbi (§ 7), è giunto a parlare della sacramentalità della Parola (§ 56), sacramentalità da comprendersi in analogia con la presenza di Cristo nell’eucaristia e con l’incarnazione del Verbo in Gesù di Nazaret.

Certo, l’ispirazione di tali affermazioni può essere trovata in Agostino: «Sacramentum, [id est] tamquam visibile verbum» (Commento a Giovanni 80,3); ma con l’attuale comprensione della sacramentalità della Scrittura dovremmo cogliere diversamente la liturgia della Parola: non più come preparazione alla messa ma essa stessa come comunicazione di Dio, come parte dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Si tratta di comprendere che «la Parola precipita in gesto sacramentale eucaristico» (Louis-Marie Chauvet) e che la Parola proclamata, predicata, ascoltata rende partecipe l’assemblea all’azione di Dio, al suo dabar, parola-evento, che è il mistero rivelato e celebrato.
Nel prossimo futuro un vero impegno della chiesa dovrebbe dunque essere rivolto all’acquisizione e alla comprensione di questa qualità sacramentale della Parola, senza la quale permane la patologia di un primato dell’eco della Parola di Dio detta e predicata, e non della Parola stessa. È Cristo stesso che “adest praesens in medio” (cf. Sacrosantum Concilium 7), che parla quando si proclamano le Scritture che contengono la Parola; non solo, è il Signore che opera, agisce, crea l’evento di salvezza, con una presenza testamentaria che sancisce l’alleanza con la chiesa sua sposa. Purtroppo è caduta nel dimenticatoio una preziosa sottolineatura presente nelle premesse all’Ordinamento delle letture della messa del 1981, dove uno dei compiti di chi presiede la liturgia è così espresso: «[egli] alimenta la fede dei presenti per ciò che riguarda quella Parola che nella celebrazione, sotto l’azione dello Spirito Santo, si fa sacramento» (§ 41). La Parola di Dio viene a noi dal sacramento delle sante Scritture che la chiesa prende in mano per spezzare la Parola stessa.

Lo richiamo ancora una volta: occorre comprendere la liturgia come esegesi viva della Parola di Dio e luogo ecclesiale del discernimento e dell’esegesi della Parola stessa. La liturgia della Parola è una vera e propria cristologia in cui Cristo è l’exeghésato di Dio nella potenza dello Spirito santo. È nella liturgia della Parola che Cristo è Kýrios più che mai, che è Pantokrátor, Omnitenens – direbbe Agostino – delle Scritture, di Mosè, dei Profeti e dei Salmi (cf. Lc 24,44), perché li rende una parola, lui stesso Parola di Dio. Come ha operato la klásis toû ártou (cf. Lc 24,35; At 2,42), così opera la klásis toû lógou. Perché dunque si continua giustamente a preoccuparsi del discernere il corpo del Signore, ma non ci si preoccupa ugualmente del discernimento della parola del Signore? La liturgia è questo discernimento. Manca tuttora una riflessione adeguata sull’esegesi liturgica delle Scritture, dimenticando anche il fatto che i fedeli cattolici hanno il loro contatto con le sante Scritture quasi esclusivamente nella liturgia eucaristica: solo attraverso questa riflessione si potrà condurre i cristiani a vivere la verità del sacramentum quale visibile verbum!

2. Liturgia e spiritualità

Devo confessare tutta la mia preoccupazione, vorrei anche dire la mia sofferenza per una permanente incomprensione del rapporto tra liturgia e spiritualità, anzi per un misconoscimento che, secondo la mia osservazione della prassi delle chiese locali, diventa sempre più profondo e attestato. Liturgia e preghiera cristiana continuano a soffrire di una dicotomia, di una separazione che impoverisce l’una e l’altra. La liturgia rischia di essere prevalentemente «rito» e la preghiera di essere prevalentemente «devozione». Occorrerebbe invece armonizzarle e, soprattutto, fare in modo che la liturgia sia canone, traccia e ispirazione della preghiera personale. Si pensi alla possibilità di vivere di più l’anno liturgico non solo nella liturgia ma nella preghiera stessa dei fedeli (si veda, per esempio, la novena di Natale): molte possibilità del passato sono state tralasciate e così per i fedeli è restato il vuoto… Oggi, con la molteplice offerta di elementi appartenenti a spiritualità non cristiane, si rischia di vivere «iniziative, eventi» (non li chiamo liturgie, perché non meritano questo nome) in cui sono più presenti elementi esoterici che non un’ispirazione biblica e liturgica cristiana. Errori nel pregare significano errori nella fede!
Chi come me per ragioni anagrafiche ha conosciuto una vita cristiana alimentata dai «pia populi cristiani exercitia», da devozioni e manifestazioni della pietà popolare, ha nutrito grandi speranze nell’ora della riforma liturgica: in quel momento infatti si scopriva e si assumeva la convinzione che la vita spirituale personale non può avere altra fonte che non la liturgia, la liturgia eucaristica innanzitutto, la liturgia delle ore, la liturgia dei sacramenti. Come non confessare che la restaurazione della veglia pasquale voluta dalla riforma di Pio XII all’inizio degli anni ’50 del secolo scorso cambiò la nostra spiritualità, ponendo al suo centro il mistero pasquale, il mistero della morte e resurrezione del Signore Gesù? Fu proprio la mia generazione a tenere sul comodino come libro eccellente di preghiera personale il piccolo messale nelle edizioni prima del Caronti, poi del Lefebvre, infine, in gioventù, quello del Feder. L’eucologia delle collette del tempo liturgico e per le varie necessità, la liturgia delle ore domenicale erano la fonte della nostra spiritualità.

Ma cosa è successo dopo, in contraddizione con l’intenzione della riforma liturgica e l’amplissimo materiale che essa poneva a disposizione quale fonte di spiritualità autentica per ogni cristiano? Perché i giovani, anche quelli più consapevoli, non possiedono più il messalino? Perché in Italia le diocesi e i loro uffici liturgici, quando vi è un’assemblea diocesana, o di presbiteri, o di religiose, anziché celebrare la liturgia delle ore preferiscono fabbricare, sovente con dilettantismo, delle liturgie in cui non si è più capaci di esprimere una lex orandi? Come non ricordare che nell’ultimo Convegno ecclesiale nazionale, tenutosi a Verona nell’ottobre del 2006, nell’ora del tramonto non avvenne la celebrazione dei vespri ma una celebrazione disordinata e inconsistente, in cui si privilegiavano immagini che apparivano sullo schermo?
Già all’inizio del XX secolo Pio X affermava che «la fonte prima e indispensabile alla quale i fedeli devono attingere uno spirito veramente cristiano è la liturgia» (cf. Motu proprio Inter sollicitudines [22 novembre 1903], Introduzione) e Giovanni Paolo II lo ha riconfermato con queste parole: «Niente di tutto ciò che facciamo noi nella liturgia può apparire come più importante di quello che invisibilmente, ma realmente fa il Cristo per l’opera del suo Spirito» (Lettera apostolica Vicesimus quintus annus [4 dicembre 1988] 10). Eppure nella spiritualità attuale, basta leggere gli autori «spirituali» più in voga, il riferimento alla liturgia è assente: molti sono i riferimenti alla preghiera, rarissimi quelli alla liturgia… Sono contento che si parli del rapporto tra Bibbia e spiritualità, che si parli della lectio divina, ma vorrei che lo stesso sforzo fatto da alcuni vescovi, da alcune chiese locali e da molti fedeli per la lectio fosse accompagnato da un’attenzione, da un impegno a favore della liturgia, la fonte della spiritualità: tutto questo nella consapevolezza che il sito privilegiato per accogliere la Parola è proprio la liturgia! La seconda parte dell’Esortazione apostolica Verbum Domini, intitolata Verbum in ecclesia (§§ 50-89), è ricca di indicazioni a questo proposito.
Si legge nel n. 90 della Sacrosantum Concilium: «La preghiera pubblica della chiesa sia la fonte della pietà e l’alimento della preghiera personale». Va detto che questa affermazione non ha fin qui trovato un’attuazione e attende nel prossimo futuro un impegno serio da parte di tutte le chiese locali. Nei prossimi anni la liturgia dovrà rispondere alla domanda di un’atmosfera orante, senza per questo cadere in espressioni devote e intimistiche. Sì, questa divaricazione tra liturgia e spiritualità – mi rincresce dirlo – è anche dovuta alla responsabilità di operatori liturgici e pastorali che di fatto non riconoscono alla liturgia la qualità di fonte della teologia, della spiritualità e, di conseguenza, della pastorale. Così la spiritualità è sempre più narcisistica, sempre più preoccupata di fornire soluzioni terapeutiche, sempre più individualista e, come tale, è un elemento che ostacola l’assiduità, la partecipazione alla liturgia della chiesa, che è «partecipazione attiva», «actuosa participatio» (Sacrosantum Concilium 14), quando riesce a nutrire, cioè a essere accolta come cibo nella vita di fede del credente. Perché nella liturgia cristiana si tratta di accogliere, non di dare; si tratta di diventare soggetti di fede, speranza e carità, non di fare.
I cristiani oggi vogliono trovare nella liturgia il luogo in cui sperimentare – come accennavo nell’introduzione – ciò che la fede permette di vivere, ciò che può ispirare e plasmare il loro comportamento, ciò che essi possono sperare e dunque testimoniare. È nella liturgia che dovrebbe accadere che Gesù Cristo parla e chiama: «Se tu vuoi…, vieni…, seguimi…, alzati e cammina…, andate…», non nell’intimità individualistica nutrita da letture devote o nell’ambito di assembramenti in cui si testimonia non la presenza del Signore e il risuonare della sua «Parola viva ed efficace» (cf. Eb 4,12), ma si afferma piuttosto: «C’ero anch’io!».

3. Liturgia ed evangelizzazione

Infine, vorrei indicare un impegno per il prossimo futuro, quello per la valorizzazione del legame esistente tra liturgia ed evangelizzazione. Va detto che in verità l’impressione è che si sia imboccata la strada esattamente opposta. Mi riferisco al recente documento della Conferenza Episcopale Italiana: Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio 2010-2020, «Educare alla vita buona del Vangelo». Ebbene, è significativo: in questo testo, che vuole essere ispiratore per la nuova evangelizzazione, per l’educazione all’interno della comunità cristiana, sono dedicate dieci righe (per l’esattezza al § 39), un terzo di una pagina su un totale di oltre cento pagine. E potrei anche dire che quelle poche righe, contenenti un riferimento agli Orientamenti pastorali pubblicati nel 2001, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (§ 49), sono entrate all’ultimo momento e in seguito a una forte pressione… Purtroppo tra liturgia e missione permane un’opposizione, mentre sarebbe necessario affinare tra di esse la sinergia.

In verità la chiesa può educare alla fede celebrando in primo luogo il «mistero della fede» con la sua liturgia e i suoi sacramenti, perché proprio la liturgia è il primo atto di evangelizzazione: alle fonti dell’educazione alla fede, alle fonti dell’evangelizzazione, alle fonti della vita cristiana c’è la liturgia. Non c’è martyría, non c’è diakonía e non c’è koinonía senza la priorità della leitourghía, dove il «mistero della fede» abilita alla missione e al servizio degli uomini, creando e nutrendo lo spazio della comunione, che è sempre comunione in Cristo stabilita nella potenza dello Spirito santo. Sì, queste verità si proclamano quasi sempre ma poi, come un fiore all’occhiello del caro estinto, non hanno una reale forza per la missione e per la pastorale cristiana!

Se è vero l’adagio caro a Henri De Lubac, secondo cui non solo «la chiesa fa la liturgia» ma anche «la liturgia fa la chiesa», allora alla liturgia va riconosciuto il carattere fontale rispetto a ciò che la chiesa vive. Ma se non si è capaci di mostrare questa evidenza nel tessuto dell’azione ecclesiale, perché poi continuare a lamentarsi dello scarso rapporto vissuto dai credenti nei confronti dell’eucaristia domenicale? La pratica della fede, il primo annuncio della fede, l’educazione alla fede possono forse fare a meno della «fede pregata», cioè della liturgia, «eloquenza ecclesiale della fede»? L’incapacità mistagogica che contrassegna le nostre liturgie non dipende proprio dal fatto che la liturgia non è sentita come annuncio della buona notizia, come comunicazione del Vangelo, ma è piuttosto vissuta come qualcosa che compete al cristiano, come una sorta di obbligo che fa parte della vita cristiana ma che non ne è la fonte?
Queste e altre domande che si potrebbero porre non sono retoriche, ma a mio avviso saranno proprio le risposte date a esse a indicare degli itinerari decisivi per il futuro della chiesa.

Conclusione

Vorrei sintetizzare questo mio intervento attraverso un’urgenza che può aiutare a tenere insieme in modo fecondo e «canonico» i rapporti tra la liturgia e, rispettivamente, la Parola, la spiritualità, l’evangelizzazione.

La liturgia è luogo dell’esperienza della Parola e dello Spirito, ma luogo che resta umano, umanissimo, in cui l’uomo intero, nella sua unità di corpo, psiche e spirito, è soggetto dell’esperienza del Dio che viene all’uomo. Ecco, solo con un’attenzione e un’intelligenza che sappia cogliere l’umanità della liturgia è possibile accogliere in essa il «mistero della fede». Si legge nel prologo del quarto vangelo: «Dio nessuno lo ha mai visto, ma il Figlio», l’uomo Gesù, «exeghésato, ce ne ha fatto il racconto». Parallelamente, potremmo dire che solo nell’umanità autentica della liturgia si può trovare il racconto di Dio, perché la liturgia è l’exeghésato, qui e ora, per noi cristiani.

ENZO BIANCHI