La parola di Dio negli eventi

Davide Balliano, UNTITLED_0299_7272_2024
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23 marzo 2025

III domenica di Quqaresima
Luca 13,1-9 (Es 3,1-8a.13-15)
di Luciano Manicardi

1 In quel tempo si presentarono alcuni riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. 2Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? 3No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. 4O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». 6Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. 7Allora disse al vignaiolo: «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest'albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». 8Ma quello gli rispose: «Padrone, lascialo ancora quest'anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. 9Vedremo se porterà frutti per l'avvenire; se no, lo taglierai»».


La conversione è il tema centrale della terza domenica di Quaresima. Evidente nel testo evangelico (Lc 13,1-9: “Se non vi convertite, perirete”: Lc 13,3.5), l’invito alla conversione è presente nel testo paolino (1Cor 10,1-6.10-12) sotto forma di ammonizione a non cadere nell’idolatria e a lottare contro le tentazioni; nella prima lettura (Es 3,1-8a.13-15) la conversione appare come svolta decisiva nella vita di Mosè, per cui egli riceve dal Signore ciò che prima si era affidato da sé, cioè il compito di liberare i figli d’Israele dall’Egitto.

I tre testi trovano un filo rosso anche nella presentazione del rapporto tra Parola di Dio ed eventi. Gli eventi della vita quotidiana, i gesti ripetitivi del lavoro, diventano occasione di ascolto di una Parola di Dio per Mosè (Es 3); gli eventi accaduti nel passato della storia di salvezza e testimoniati nella Scrittura veicolano una Parola di Dio per i cristiani di Corinto (1Cor 10); gli eventi della storia contemporanea, in particolare alcuni fatti di cronaca, sono colti da Gesù come appello alla conversione (Lc 13). Attraverso la quotidianità (I lettura), la storia (vangelo) e la Scrittura (II lettura) Dio parla all’uomo. Ascolto (I lettura), memoria (II lettura) e discernimento (vangelo) sono atteggiamenti essenziali per cogliere la Parola di Dio negli eventi.

La prima lettura presenta Mosè nel quotidiano svolgimento del suo lavoro. Mosè aveva allora 80 anni (Es 7,7), età che rappresenta la compiutezza del secondo periodo della sua vita (suddivisa in tre periodi di 40 anni. “Mosè aveva centoventi anni quando morì”: Dt 34,7). Mosè è al culmine della fase mediana della sua vita e si ritrova ad essere un uomo sradicato dal suo popolo e minacciato dal faraone. La sua vita è precaria, irrisolta pur essendo lui ormai con famiglia e lavoro: è un ebreo lontano dal suo popolo, un egiziano fuggito dall’Egitto, uno straniero presso Jetro. E Mosè arriva nel deserto e all’Oreb. O forse la sua quotidianità finisce in un deserto, nell’horrorvacui, nella solitudine orribile e disperante di cui è simbolo il deserto. Mosè si trova davanti all’Oreb, che diventerà sì il monte di Dio, ma il termine Oreb deriva da una radice che significa “rovina”, “devastazione”, “maceria”. L’indesiderato, l’inatteso, l’impensato ci coglie di sorpresa, impreparati. E per questo può dispiegare la sua forza trasformante su di noi: perché siamo indifesi. E se può dare il colpo di grazia a una vita già precaria, può anche divenire luogo di rinnovamento dell’esistenza. Il roveto che arde senza consumarsi diviene spettacolo che non solo attrae gli occhi di Mosè ma evento che lo guarda (“Il Signore apparve a Mosè in una fiamma di fuoco”: v. 2; “dal roveto il Signore vide Mosè”: v. 4), che lo ri-guarda. La rinascita inizia nel momento in cui accettiamo che la realtà ci tocchi, non sia qualcosa da evitare con l’indifferenza e l’apatia. Di fronte al roveto Mosè si spoglia dei sandali (v. 5), simbolo della dignità e dell’autonomia della persona libera, come anche del suo potere di acquisto: togliersi i sandali è simbolo (oltre che di rispetto per il suolo che si calpesta) di rinuncia al diritto di possesso. E di fronte alla voce che gli parla dal roveto, si vela il volto, segno del timore di fronte al divino, ma anche di volontà di sottrarsi all’imprevisto che fa capolino nel quotidiano. Mosè ha paura (v. 6). E al Dio che gli affida il compito di andare dal faraone per far uscire il popolo dall’Egitto, Mosè oppone obiezioni. La prima, non compresa nel testo liturgico, è: “Chi sono io per andare dal faraone?” (v. 11). Mosè si sente inadeguato, privo di carisma, senza nulla nella sua persona e nella sua storia che giustifichi questo compito. E la risposta fa passare Mosè dal suo io spaventato alla promessa di prossimità di Dio: “Io sarò con te” (v. 12). Ovvero: non dare troppo spazio a te, al tuo “io” per questo compito che ti affido perché questa sarebbe la via più diretta per il fallimento. Questa la prima condizione per assumere la guida del popolo: non appoggiarsi sul proprio “io”, ma contare sul Signore. La seconda obiezione verte sul nome di Dio. “Mi diranno, i figli d’Israele: qual è il nome del Dio che ti manda?” (v. 13). Ovvero: che cosa ci assicura questo Dio? Che promessa ha in serbo per noi affinché gli crediamo? Allora Dio rivela il suo nome: “Io sarò colui che sarò” (v. 14). O anche: “Io sono colui che sarò” (dove Dio si rivela come promessa) o ancora: “Io sarò sempre quello che sono” (dove Dio si rivela come fedeltà). Mosè deve credere alla promessa di Dio e alla fedeltà di Dio. Le obiezioni di Mosè sono fondate, queste come le altre che si trovano nei capitoli successivi dell’Esodo. Ma la spiegazione del nome divino data in Isaia 52,6 fornisce la risposta sufficiente. “Il mio popolo conoscerà il mio nome, comprenderà in quel giorno che io dicevo: Eccomi”. Il nome di Dio dice non il suo “essere”, astratto, ma il suo esserci, il suo essere accanto, il suo essere lì con. E accogliere la rivelazione del nome significa fare un atto di affidamento nel Signore. Perché il suo nome significa: “Eccomi” (con te, accanto a te, per te). Su questo Mosè dovrà spezzare le sue resistenze e le sue obiezioni.

Nel vangelo, a Gesù viene riferito un fatto di cronaca violento e sacrilego: Pilato ha fatto uccidere dei Galilei durante una cerimonia religiosa (Lc 13,1). Gesù e i discepoli sono interpellati da quella notizia. La fede non può restare estranea ai fatti di quel mondo che è il destinatario della sollecitudine di Dio. E il giudizio che Gesù dà è libero, originale e coraggioso. Gesù spezza il legame tra disgrazia e peccato, non ripete il ritornello teologico che pretende di trovare un senso anche là dove non c’è. E con la domanda “Pensate forse che…?” (Lc 13,2.4) polemizza con l’opinione diffusa che disgrazia e morte siano causati da peccati commessi. Gesù non ripete luoghi comuni teologici e consegna la sua interpretazione degli eventi: sono un invito a conversione. Non certo che Dio mandi eventi calamitosi perché l’uomo si converta: sarebbe blasfemo. Ma, per non abbandonare gli eventi a se stessi che resterebbero meri accadimenti senza nesso e senza senso, occorre ascoltarli e osare parole su di essi, occorre la fatica e il rischio dell’interpretazione. Gesù poi aggiunge di suo il riferimento a un fatto di cronaca, anch’esso luttuoso: il crollo della torre di Siloe che ha provocato la morte di diciotto persone (Lc 13,4). I due fatti parlano di morti improvvise: sono eventi di cui non abbiamo responsabilità, e tuttavia Gesù indica una via attraverso la quale essi possono parlarci e divenire transitivi, così da non perdersi nel non-senso, ma divenire capaci di ri-orientare la vita di altri. Rendendo quegli eventi un invito a conversione, Gesù esorta a vivere con coscienza e consapevolezza l’oggi e il vangelo. La morte dà forma alla vita: quando sopravviene, essa svela la nostra vita dandole forma compiuta. Dovessimo morire domani ecco che la nostra vita è tutto ciò che c’è stato prima. La non-consapevolezza, invece, è nemica della responsabilità, che è anzitutto responsabilità della nostra vita. Con l’invito a conversione che scaturisce dalla considerazione delle morti improvvise di altri, Gesù intende dare un volto a chi è rimasto senza volto, perduto nell’anonimato di macerie che l’hanno sepolto o di una violenza brutale che ne ha troncato l’esistenza. Gesù chiede che il volto e il nome perduti delle vittime trovino un riflesso nel volto e nel nome dei suoi discepoli. Gesù chiede responsabilità. Di farsi rispondenti di ciò di cui non si ha responsabilità diretta, ma che non ci può rimanere estraneo perché riguarda quegli esseri umani che sono nostri fratelli. Così, mentre la violenza brutale nega la fraternità spegnendo l’umanità di chi viene ucciso e di chi uccide, la risposta di Gesù tende a ricostruire legami di fraternità. Gesù assume l’evento che distrugge la fraternità umana per farne il luogo di ricostruzione di tale rapporto.

La parabola del fico improduttivo (Lc 13,6-9) presenta una minaccia di “morte” per l’albero che da troppo tempo non dà frutti. Ma, al padrone che gli comanda di tagliare l’albero, il contadino dice di no. Oppone quel lascialo, (àfes, v. 8) che è il verbo usato per la remissione dei peccati e la liberazione dal male. Il contadino obietta. Obbedendo, non entrerebbe in conflitto con il padrone e avrebbe una pianta in meno da lavorare. Ma il contadino crede al cambiamento possibile. Fa fiducia, crede che una novità possa intervenire e il frutto spuntare. E impegna se stesso, promette il suo lavoro, chiede pazienza, almeno, per un altro anno. Il contadino fa mostra della sua libertà dicendo di no al padrone e addirittura, dopo avergli chiesto di lasciarglielo ancora un anno per curarlo e lavorarlo, aggiunge: se non darà frutti, “tu lo taglierai” (v. 9). Il contadino si rifiuta di tagliare l’albero: se proprio vuoi, lo taglierai tu, non io. Il contadino oppone un altro no al padrone. Egli apre uno spazio di fiducia alla pianta, ne paga il prezzo e se ne assume il rischio: nulla gli garantisce il buon esito della sua iniziativa. Del resto: chi conosce i tempi in cui un uomo può dare frutti e convertirsi? Se perfino questo contadino, che assomiglia così tanto a Gesù, non si erge a padrone dei tempi dell’altro e non taglia l’albero infruttuoso, chi siamo noi per fare diversamente?