Amore in eccesso
4 giugno 2023
Gv 3,16-18 (Es 34,4-9; 2Cor 13,11-13)
SS. Trinità
di Luciano Manicardi
16Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio.
Le letture della domenica dopo la Pentecoste offrono alla contemplazione del credente la dimensione trinitaria del Dio di Gesù. Il Dio che è relazione e comunione in se stesso, crea comunione tra i credenti mostrandosi compassionevole, benedicendo, donando. Nella prima lettura (Es 34,4b-6.8-9), dopo il peccato del vitello d’oro, Dio si manifesta una seconda volta ai figli d’Israele scendendo sul Sinai per comunicare loro il suo Nome che lo rivela quale compassionevole e misericordioso, capace di grazia e di perdono. È il Dio che ama, il Dio paziente, il Dio condiscendente, che scende per raggiungere l’uomo nel suo peccato. Il vangelo (Gv 3,16-18) presenta il Dio che ama a tal punto l’umanità da donare il suo Figlio per la salvezza del mondo. Il figlio unico è tutta la vita di un padre, è ciò che egli più ama di tutto ciò che ama: il Dio che dona il Figlio è il Dio mosso da amore folle, il maniakòs éros di cui parlavano i padri greci. Vi è un eccesso nell’amare di Dio e questo eccesso è il Figlio Gesù Cristo. La benedizione presente nella seconda lettura (2Cor 13,11-13) vuole stabilire la presenza amorosa di Dio nella comunità dei cristiani di Corinto. Questi sono pertanto esortati ad accogliere e a lasciar operare tra di loro la grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito santo.
Il brano di Esodo 34 ci parla di un momento di grave crisi tra Mosè e il popolo. Mentre Mosè era sul monte, obbedendo ai lunghi e non preventivabili tempi del discernimento, il popolo si lascia prendere dall’impazienza: “Il popolo vedendo che Mosè tardava a scendere dal monte, fece ressa intorno a Aronne e gli disse: Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa, perché a Mosè, quell’uomo che ci ha fatto uscire dall’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto” (Es 32,1). L’impazienza, l’incapacità di attesa appare qui alle radici dell’idolatria. Incapaci di aspettare, i figli d’Israele si rivolgono ad Aronne quasi eleggendolo capo al posto di Mosè. Aronne, gratificato dal rivolgersi del popolo a lui, non solo non scoraggia, ma anzi, accondiscende. E Mosè una volta sceso dal monte e avendo constatato che le parole scritte sulle tavole della Legge erano già state infrante dal popolo, spezza le tavole. Così Mosè deve ripetere ciò che già aveva fatto. L’arte di governare il popolo è per Mosè esercizio di pazienza. Dove pazienza significa sobbarcarsi il peso delle colpe di altri e ripetere non solo ciò che già aveva più volte detto, ma anche rifare ciò che già aveva fatto. “Mosè tagliò due tavole di pietra come le prime …” (v. 4). Ma ciò che colpisce positivamente di Mosè in questo episodio è che pur avendo molti motivi per lamentarsi del popolo, egli non si de-solidarizza ma anzi si coinvolge con il popolo e parla al noi. Riconosce realisticamente la qualità della sua comunità, comunità dal cuore duro, comunità che non obbedisce, che non comprende, ma non ne prende le distanze, bensì fa corpo con essa: “Fa’ di noi la tua eredità”. Il suo parlare davanti a Dio non è “io contro loro”, ma “io e loro”, “io con loro”, “io che non sono meglio di loro”. Così, il popolo peccatore rivela qualcosa di cui Mosè stesso ha bisogno: sapersi anche lui peccatore. Ma soprattutto egli, come guida del popolo crede: ha piena fiducia che il Signore possa rendere sua eredità, comunità sacramento della sua presenza nel mondo, quella gente riottosa all’ascolto e restia a far fiducia. “Fa’ di noi la tua eredità”: Ecco la grandezza di Mosè, vedere i limiti del popolo, ma vivere la piena solidarietà con il popolo stesso, e credere che proprio quelle persone possono essere il popolo di Dio, il suo possesso prezioso tra le genti. Se a Mosè fosse mancata questa fiducia, che ne sarebbe stato dei figli d’Israele? È essenziale che la guida del popolo creda in Dio, ma anche che creda che quella gente può divenire il popolo di Dio. Credere, in sostanza, contro ogni evidenza.
Il passo finale della seconda lettera ai cristiani di Corinto è una benedizione. Il v. 13 è una formula liturgica di benedizione, formula trinitaria che fa seguito alle esortazioni e ammonizioni presenti nel v. 11 e ai saluti nel v. 12. Il Dio trinitario manifesta, attraverso la benedizione, la sua volontà di abitare nell’assemblea dei credenti. E la presenza di Dio si realizza nella comunità cristiana grazie all’attuazione di questi comandi. Anzitutto, “siate nella gioia”. Essere nella gioia significa abitare sotto le energie dello Spirito che consentono di guardare oltre le apparenze e il momentaneo e di vivere dell’essenziale, non del contingente. Consentono di leggere le situazioni e le persone in profondità e verità, non sull’onda dell’emozione. La gioia profonda è gioia anche nelle tribolazioni ed è il contrassegno della libertà del cristiano, che non si lascia intristire da ciò che è passeggero, ma tende alla stabilità del cuore. Poi abbiamo: “lavorate al vostro ristabilimento”, ovvero, operate per essere restituiti alla verità della vostra vocazione. La traduzione tendete alla perfezione sottolinea la dimensione dinamica di maturazione e di crescita a cui ogni cristiano è chiamato. Poi il testo dice: “fatevi coraggio a vicenda”, o consolatevi, o esortatevi. Nella comunità cristiana abbiamo bisogno del sostegno gli uni degli altri. Siamo chiamati a dare sostegno, ma anche a saperlo ricevere ed eventualmente a domandarlo nei momenti di bisogno e di difficoltà. Ma ciò che più sostiene, consola e incoraggia nella vita fraterna è la vicinanza, la prossimità, il farsi presenti agli altri e rimanere accanto a loro. Quindi l’autore chiede di dar prova di unanimità, di avere lo stesso sentire (“abbiate gli stessi sentimenti”), di far proprio il sentire di Cristo che si abbassò, si umiliò. Ovvero, fece il contrario di ciò a cui normalmente tende il nostro agire: innalzarci, inorgoglirci, farci grandi. L’esempio di Cristo che umiliò se stesso fino alla morte di croce è ciò che va assunto nella gioia e nella libertà per creare le condizioni di vivibilità evangelica e umana. Infine, Paolo esorta: “vivete in pace”. Cercate la pace, ciò che unisce e non ciò che divide, per poter narrare l’amore trinitario con la vostra unità e comunione.
Il vangelo afferma che “così Dio amò il mondo, che diede il suo unigenito Figlio” (Gv 3,16). Letteralmente, questo è l’inizio del nostro testo evangelico. Che sottolinea la modalità dell’amore di Dio. Come dunque Dio amò? Amò donando. Non prendendo per sé, non facendo suo, non impossessandosi, ma donando. Il verbo amare è spesso usato da noi nel senso di ambire a possedere, voler fare nostro. Dio ama donando. E cosa diede Dio? Non un oggetto, ma il Figlio. Donando il figlio, il padre mette a rischio il proprio essere padre. Il dono vero è rischio di sé. È rischio mortale che arriva a dare vita ad altri. Il vero dono è il donatore stesso. Ogni altro dono che sia meno di questo è un dono inadeguato. Dunque, Dio ama donando se stesso. Ancora: come Dio amò? Quel “Così” sottolinea la continuità del dono di Dio con il gesto che fece Mosè nel deserto innalzando il serpente nel deserto. Siamo rinviati ai versetti che precedono immediatamente il nostro testo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-15). C’è una modalità dell’amore di Dio che si declina come fedeltà: fedeltà di Dio al popolo con cui si è legato in alleanza, fedeltà alla storia condotta con il popolo, fedeltà al suo Nome in cui la misura della misericordia sovrasta di gran lunga la misura del giudizio (cf. Es 34,7). Si tratta di fedeltà al popolo infedele e di amore per il popolo che non vi corrisponde: la fedeltà e l’amore di Dio diventano il suo impegno, la sua responsabilità nei confronti degli uomini peccatori. Solo così l’amore di Dio è davvero per il mondo, per l’umanità tutta, per ogni uomo. E solo così il suo amore, unilaterale e incondizionato, non condanna, ma salva. Dunque l’amore con cui Dio amò è fatto di fedeltà e di responsabilità. E sottolineo la forma verbale: amò. Si tratta di un’azione puntuale svoltasi storicamente in un preciso momento storico. L’amore ha forma storica, concreta.
Il dono poi, cioè il Figlio Gesù Cristo, colui che è stato donato, è colui che a sua volta si dona, si consegna; è colui che ama in modo concreto i suoi e li ama fino alla fine. Il Dio che ama donando è narrato dal Figlio che a sua volta ama donandosi, e donandosi con fedeltà ai suoi che egli ama facendo dell’amore il suo impegno, la sua volontà, la sua responsabilità nei loro confronti. E il Figlio è anche colui che dona lo Spirito, che consegna lo Spirito (“Chinato il capo, consegnò lo Spirito”: Gv 19,30) e a sua volta lo Spirito, dono del Dio altissimo, diventa il dator munerum, il “datore di doni”. Lo Spirito elargisce doni e ispira e suscita l’atto stesso di donare nei credenti e nella comunità cristiana. Egli è il dono per eccellenza promesso alla preghiera dei credenti (Lc 11,13). Il modo di vita trinitario è quello del donarsi. E questo è anche il vertice dell’amore dei credenti: “Non c’è amore più grande di questo: dare la propria vita per gli amici” (Gv 15,13).
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