Gesù, la porta aperta sulla vita

3 maggio 2020

IV Domenica di Pasqua
Gv 10,1-10
di Luciano Manicardi

1 In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. 2Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. 3Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. 4E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. 5Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». 6Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
7Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. 8Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza.


La quarta domenica di Pasqua contempla il Risorto quale pastore della chiesa. Il pastore indica al gregge la via da percorrere e il Cristo-Pastore indica alla chiesa la via che essa deve seguire. La pagina evangelica dell’annata A (Gv 10,1-10) è tratta dal capitolo decimo del vangelo secondo Giovanni, ma non contiene ancora l’esplicita affermazione di Cristo quale “pastore” (è solo al v. 11 che si incontra l’autorivelazione “Io sono il buon pastore”), insiste invece sull’immagine della porta (“Io sono la porta”: v. 9). Ovvero, la pagina evangelica dichiara che Cristo è la porta attraverso cui deve passare il cammino del discepolo: si tratta di un cammino spirituale di ascolto, sequela e conoscenza del Signore (vv. 3-4).

L’immagine della porta ha una forte valenza simbolica e antropologica che forse, in giorni di confinamento domestico a causa del coronavirus, cogliamo con maggiore forza. Quando gli stipiti della porta di casa diventano come novelle colonne d’Ercole che è quasi tabù valicare, ecco che la normalità ripetitiva dell’uscire di casa e del rientrarvi a piacimento viene posta in discussione e ci conduce a riflettere su quegli atti di entrare e uscire che l’abitudine ci ha resi scontati. La mobilità della porta rende il limite del riparo costruito dall’uomo, sia esso casa o qualunque altro edificio, un limite che non imprigiona ma che è a servizio della libertà sia quando protegge l’intimità della persona all’interno sia quando la apre alle relazioni all’esterno. Immagine di chiusura e apertura, di intimità e di relazione, di protezione e di esposizione (di inspirazione e di espirazione), la potenza antropologica del simbolo della porta viene applicata dal quarto evangelista a Cristo stesso. Infatti, attraverso la porta che è Cristo stesso, si entra e si esce (v. 9). Entrare e uscire è tipica formula polare semitica che indica una totalità, tutta la vita umana riassunta nei due atti fondamentali di entrare e uscire: dalla nascita, l’uscita dal seno materno, all’uscire ed entrare in casa e negli spazi della vita, fino all’uscita definitiva con la morte. Il simbolo della porta applicato a Cristo indica dunque il compito del cristiano di vivere ricominciando sempre la sequela di Cristo, ovvero passare attraverso la porta che è Cristo. La vita in abbondanza portata da Gesù (v. 10) è questa nostra unica vita innestata in Cristo e in lui risignificata.

Come la porta segna un dentro e un fuori, opera dunque un discrimen, essa, applicata a Cristo attua anche un giudizio: “Chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante” (v. 1). Il pastore del gregge entra nell’ovile attraverso la porta, non ha certo bisogno di entrate secondarie, di sotterfugi: egli entra per la via diretta e visibile, non per vie nascoste. Chi entra, o forse meglio, penetra, all’interno per altre vie, è un malfattore che viene non per pascere, ma per rubare e sottrarre, per portare morte e non vita. L’immagine pastorale diviene cristologica già nel v. 10 dove Gesù afferma di sé di essere venuto per dare la vita in abbondanza. Ma se il pastore Gesù è venuto perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza, ladri e briganti invece vengono per “rubare, sacrificare (la Bibbia CEI traduce “uccidere”) e far perire” (Gv 10,10). Di costoro Gesù dice che “sono venuti prima di me”, ma questo non va inteso in senso cronologico, quasi che si riferisse ai personaggi della prima alleanza. Ignazio di Antiochia ha compreso bene: “Cristo è la porta del Padre, attraverso la quale entrano Abramo, Isacco e Giacobbe, i profeti, gli apostoli e la chiesa” (Ai Filadelfesi IX,1). Si tratta invece dei falsi messia che si presentano agli uomini avanzando la pretesa di essere dei salvatori: quand’anche venissero dopo (cronologicamente) rispetto a Gesù, essi rientrerebbero nel novero degli usurpatori qui intravisti. Il criterio discriminante che dice l’autenticità della missione è nel sottrarre per sé o nel donare, nel portare morte o nel portare vita, nel servire la vita di ogni singola pecora (il pastore chiama ogni pecora “per nome”, con attenzione profonda alla singolarità di ciascuno), di ogni individuo, o nel servirsene e nell’usare per sé, nell’abusare, nello sfruttare le persone per i propri fini. In particolare viene condannato il sacrificare: ovvero, il togliere vita in nome di Dio, il servirsi delle persone per scopi religiosi fino ad annientarle, l’usare il nome di Dio e la religione per fare violenza, il togliere la libertà alle persone dando forma nuova agli antichi sacrifici umani.

Il testo evangelico parla di un’uscita, di un esodo che il Cristo pastore fa fare alle sue pecore, a coloro che sono suoi: vv. 3-4. Il vocabolo usato da Giovanni per indicare l’ovile, il recinto delle pecore (10,1) non è il termine usuale per indicare questa realtà, ma il termine aulé, che indica il vestibolo del tempio (cf. Es 27,9; 2Cr 6,13; 11,16; Ap 11,2), l’atrio del tempio. Anzi, in v. 4 si parla di cacciare fuori, ekballein, con il verbo usato anche in Gv 2,13-22 quando si tratta della cacciata dal tempio delle pecore e degli animali per i sacrifici. Come detto, al v. 10 si parla di “sacrificare”, e i sacrifici si fanno al tempio. E come qui vengono denunciati ladri e briganti, altre volte, riprendendo il profeta Geremia che denunciava che il tempio era diventato spelonca di briganti, di ladri, di lestaì (Ger 7,11), Gesù aveva pronunciato parole simili sul tempio e su coloro che lo avevano ridotto a luogo di commercio e di compravendita, di affari economici (Mc 11,17). Insomma Giovanni vuole dire che non è il tempio ma il corpo di Gesù, la vita di Gesù culminata nella sua morte e resurrezione, che dà accesso alla comunione con Dio, è la porta che immette nella vita con il Padre. Questo il senso già delle parole profetiche di Gv 2,19-22, quando Gesù parlava del tempio del suo corpo. L’esodo infatti non è solo un movimento negativo, di uscita, di presa di distanza, bensì anche di ingresso, è un movimento esistenziale totale. Ormai tutta la vita, colta come sequela di Gesù Cristo, è un movimento di esodo, di liberazione e salvezza. Si tratta di passare attraverso la porta che è Cristo stesso: allora uno “entrerà e uscirà”, cioè vivrà pienamente la sua vita umana in Cristo, trovando nutrimento in Cristo. Se poi Cristo è la “porta” che conduce alla salvezza (Gv 10,9) e se la porta fa parte dell’edificio a cui permette l’accesso, Gesù è al tempo stesso il mediatore della salvezza e la salvezza stessa. Gesù è la Via verso il Padre, ma è anche la Vita (Gv 14,6): in Gesù troviamo la vita del Padre.

La figura del pastore domina i vv. 2-4 ed è di fatto presente anche nel v. 5, che definisce l’estraneo in maniera puramente negativa negando riguardo a lui ciò che prima è stato affermato del pastore (se “il pastore cammina davanti alle sue pecore ed esse lo seguono perché conoscono la sua voce”, invece le pecore “non seguiranno un estraneo, ma fuggiranno via da lui perché non conoscono la voce di un estraneo”). Emerge la forte densità teologica del linguaggio: i temi della voce del pastore, delle pecore che lo seguono e che conoscono la sua voce, sono troppo evocatori nel IV vangelo per essere semplicemente i tratti descrittivi di una parabola, in cui i vari elementi del discorso (recinto, porta, pecore, custode, pastore, ladro, ecc.) rinviano a una scena di vita pastorale quotidiana nel mondo palestinese. In realtà nel testo giovanneo i riferimenti agli usi consueti nella vita pastorale palestinese sono trasformati e applicati a un altro contesto più densamente teologico e rivelativo. Il passaggio diviene esplicito a partire dal v. 7 (e fino al v. 18) in cui Gesù parla alla prima persona, a differenza del discorso enigmatico dei vv. 1-5 in cui il discorso è alla terza persona.

Se la nostra pagina evangelica contiene un giudizio, in realtà presenta anche una dimensione di consolazione per la comunità cristiana. Perché? Perché si afferma che, se anche vi sono falsi pastori, lupi vestiti da agnelli, falsi maestri e falsi dottori (il NT è pieno di questi pseudo: persone con responsabilità ecclesiale ma senza mandato, persone con ruoli di autorità che svolgono il ministero come esercizio di potere e non come servizio, o che cercano di spadroneggiare sulle coscienze altrui in forza della posizione che rivestono), e se vi sono, come dice Giovanni, salariati, banditi e ladri, c’è però anche un sensus fidei fidelium, un senso delle pecore che sanno fiutare e discernere il vero dal falso pastore: “Un estraneo le pecore non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei” (v. 5) . Non esiste solo l’odore delle pecore, come ripete papa Francesco, ma esiste anche il fiuto delle pecore, la capacità di ascoltare la voce del Signore, di discernere la voce del vangelo nelle parole e nella testimonianza di chi se ne fa servo. Un antico testo cristiano afferma che criterio di discernimento del vero dal falso profeta è che abbia “i modi del Signore” (Didaché 11,8). Avere i modi del Signore significa conoscere e far proprie le modalità con cui, secondo i vangeli, Gesù, il Signore, vive: l’acquisizione del discernimento è data dalla conoscenza e dall’assunzione dei modi del Signore grazie all’assiduità con il vangelo.