Il faticoso cammino della compassione
Così la compassione non resta solamente un sentimento che si impone al cuore dell’uomo, ma diviene scelta, responsabilità, solidarietà. Essa è la risposta al muto grido di aiuto che si leva dal viso dell’uomo sofferente, dagli occhi atterriti e più che mai nudi e inermi della persona soverchiata dal dolore, vicina alla morte. Nella Scrittura la compassione appare come il fremito delle viscere, la risonanza viscerale della sofferenza dell’altro, risonanza che diviene consonanza: la sofferenza dell’altro grida, e la compassione fa del mio corpo una cassa di accoglienza e di risonanza alla sua sofferenza. La compassione è il no radicale all’indifferenza di fronte al male del prossimo: in essa io partecipo e comunico, per quanto mi è possibile, alla sofferenza dell’altro uomo. L’impotenza del malato, del morente, ha la paradossale forza di risvegliare l’umanità dell’uomo che riconosce l’altro come fratello proprio nel momento in cui non può essere lo strumento di alcun interesse. In questo senso la sofferenza per la sofferenza altrui è uno dei più alti segni della dignità umana. La compassione è una forma fondamentale dell’incontro con l’altro, un linguaggio umanissimo, perché linguaggio di tutto il corpo, che coinvolge i sensi, la gestualità, la parola, la presenza personale. La solidarietà deve ricordarsi di tutto questo se vuole avere una radice nel cuore dell’uomo, nel suo intimo. il samaritano, a differenza del sacerdote e del levita, fa divenire ascolto la visione del ferito. Non solo lo vede, ma lo ascolta, lo accoglie, lo fa avvenire in sé, patisce in sé qualcosa di ciò che sta patendo lui: allora ecco la solidarietà che si manifesta e la solidarietà testimonia che ogni uomo è mio fratello. E che io ne ho la responsabilità (L. Manicardi, {link_prodotto:id=606}, Qiqajon, Bose 2004, pp. 15-16,18-19).
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