La preghiera: dall’incontro alla comunione

La preghiera è ricerca di Dio, incontro con Dio, e andare oltre quest’incontro nella comunione. E dunque un’attività, uno stato e anche una situazione; e si tratta di situarsi sia rispetto a Dio che riguardo al creato. Essa sorge dalla presa d’atto che il mondo in cui viviamo non è semplicemente bidimensionale, imbrigliato in categorie come tempo e spazio, un piatto mondo nel quale si può incontrare solo la superficie delle cose, una superficie opaca che racchiude il vuoto. La preghiera nasce dalla scoperta che il mondo possiede profondità, che non siamo circondati unicamente da realtà visibili, ma siamo immersi e penetrati dall’invisibile. E questo mondo invisibile è al tempo stesso la presenza di Dio, realtà suprema e sublime, e la nostra verità più profonda. L’incontro è centrale nella preghiera. È la categoria basilare della rivelazione, perché la rivelazione stessa è incontro con un Dio che ci offre una visione nuova del mondo. Ogni cosa è incontro, nella Scrittura come nella vita. Incontro personale e universale, unico ed esemplare. C’è sempre un duplice aspetto in questo: incontro con Dio e in lui con tutto il creato, incontro con l’uomo nelle sue profondità radicate nella volontà creatrice di Dio, tesa al compimento, quando Dio sarà tutto in tutti. Questo incontro è personale perché ciascuno di noi deve fame personalmente l’esperienza: non è possibile viverlo per interposta persona.


Ci appartiene, ma al tempo stesso possiede un significato universale perché va oltre il nostro io superficiale e limitato. Un tale incontro è unico perché per Dio, così come per ciascuno di noi (se veramente apriamo gli occhi), ogni persona è unica e insostituibile. Ogni creatura conosce Dio a modo suo. Ciascuno di noi conosce Dio in un modo che nessuno potrà intuire se non saremo noi stessi a descriverlo. Contemporaneamente, però, essendo la natura umana universale, ogni incontro diviene esemplare. È una rivelazione fatta a tutti di ciò che ognuno conosce in modo personale. Un incontro è vero solo quando sono vere le persone che si incontrano. Da questo punto di vista, finiamo costantemente col contraffare l’incontro. Non solo in noi, ma nell’immagine stessa che abbiamo di Dio, ci è assai difficile essere autentici. Per tutto il giorno assumiamo una dopo l’altra una serie di “personalità sociali”, a volte irriconoscibili per chi ci sta innanzi o perfino ai nostri stessi occhi. Quando viene l’ora della preghiera e desideriamo presentarci a Dio, ci sentiamo spesso smarriti, perché non sappiamo quale di queste personalità sociali sia la verità della nostra persona; non siamo più capaci di distinguere la nostra autentica identità. Le diverse persone che presentiamo a Dio, una dopo l’altra, non sono noi stessi. C’è del nostro in ciascuna di esse, ma la persona nella sua globalità rimane assente. Ecco perché la preghiera, che pure sarebbe in grado di salire con forza dal cuore di una persona autentica, non trova la sua strada in mezzo al nugolo di marionette che offriamo a Dio. Ognuna di queste dice una parola che è vera nella sua parzialità, ma non esprime le altre personalità parziali che abbiamo assunto durante il giorno. Ritrovare la nostra unità, l’identità fondamentale, diventa oltremodo importante. Se ciò non accade, non possiamo incontrare il Signore nella verità (A. Bloom, {link_prodotto:id=337}, Qiqajon).

Imparare a pregare

«Signore, insegnaci a pregare!» (Lc 11,1).

Così i discepoli dicevano a Gesù, riconoscendo in tal modo di non saper pregare con le proprie forze. Essi avevano necessità di imparare. Imparare a pregare: l’espressione ci suona contraddittoria. Infatti ci sembra che il cuore o sarà così traboccante da iniziare da solo a pregare, o non imparerà mai. Ma è un pericoloso errore, oggi in effetti molto diffuso nella cristianità, quello di ritenere che il cuore sia naturalmente portato a pregare. Scambiamo la preghiera con i desideri, le speranze, i sospiri, i lamenti, la gioia; tutte cose queste che il cuore sa esprimere per suo conto. Ma così scambiamo la terra con il cielo, l’uomo con Dio. Pregare non significa semplicemente dare sfogo al proprio cuore, ma significa procedere nel cammino verso Dio e parlare con lui, sia che il nostro cuore sia traboccante oppure vuoto. Ma per trovare questa strada non bastano le risorse umane ed è necessario Gesù Cristo. I discepoli vogliono pregare, ma non sanno farlo. Può diventare un grande tormento il voler parlare con Dio senza sapere come, l’esser costretti al mutismo davanti a lui, il rendersi conto che l’eco di ogni nostra invocazione resta confinata all’interno del nostro io, che il cuore e la bocca parlano una lingua stravolta, cui Dio non vuole prestar ascolto. In questa penosa situazione ricorriamo ad uomini che possono aiutarci, che sappiano qualcosa della preghiera. Se uno che sa pregare ci coinvolgesse, ci consentisse di partecipare alla sua preghiera, ne avremmo un aiuto! Certamente qui possono aiutarci molto quei cristiani che hanno già percorso molta strada, ma solo per mezzo di colui che deve aiutare anche loro e al quale essi ci indirizzeranno, se sono autentici maestri di preghiera, cioè per mezzo di Gesù Cristo. Se egli ci coinvolge nella sua preghiera, se ci consente di pregare con lui, se ci fa percorrere in sua compagnia il cammino verso Dio e ci insegna a pregare, allora saremo liberati dal tormento dell’impossibilità di pregare. Ed è questo che Gesù Cristo vuole. Vuol pregare con noi, noi partecipiamo alla sua preghiera e perciò possiamo avere la certezza e la gioia che Dio ci presterà ascolto. È corretta la nostra preghiera se tutta la nostra volontà, tutto il nostro cuore fa tutt’uno con la preghiera di Cristo. Solo in Gesù Cristo possiamo pregare, e con lui saremo esauditi anche noi. Dunque è necessario che impariamo a pregare. Il bambino impara a parlare in quanto il padre gli parla. Impara la lingua del padre. Allo stesso modo impariamo a parlare a Dio, in quanto Dio ci ha parlato e ci parla. Sulla base del linguaggio del Padre celeste i figli imparano a parlare con lui. Nel ripetere le parole stesse di Dio, noi iniziamo a pregarlo. Non dobbiamo parlare a Dio, né egli vuol ascoltare da noi il linguaggio alterato e corrotto del nostro cuore, ma il linguaggio chiaro e puro che Dio ha rivolto a noi in Gesù Cristo. Il linguaggio di Dio in Gesù Cristo lo incontriamo nella sacra Scrittura. Se vogliamo pregare nella certezza e nella gioia, dobbiamo porre la parola della Scrittura come solida base della nostra preghiera. Da qui sappiamo che Gesù Cristo, Parola di Dio, ci insegna a pregare. Le parole che vengono da Dio saranno i gradini della scala per giungere a Dio. Ora nella sacra Scrittura c’è un libro che si distingue da tutti gli altri per il fatto di contenere solo preghiere. È il libro dei salmi. A un primo sguardo è molto sorprendente trovar nella Bibbia un libro di preghiera. Infatti la sacra Scrittura è la Parola di Dio a noi, mentre le preghiere sono parole umane. Come mai entrano nella Bibbia? Non lasciamoci trarre in inganno: la Bibbia è Parola di Dio anche nei salmi. Ma allora le preghiere a Dio sono Parola di Dio? È qualcosa che ci sembra difficilmente comprensibile. Se ci pensiamo, l’unica cosa che possiamo capire è che solo da Gesù Cristo si può imparare a pregare nel modo giusto, che in lui siamo in presenza della Parola del Figlio di Dio, vivente in mezzo agli uomini, che si rivolge al Padre, che vive nell’ eternità. Gesù Cristo ha portato al cospetto di Dio ogni miseria, ogni gioia, ogni gratitudine e ogni speranza degli uomini. Sulle sue labbra la parola umana diventa Parola di Dio, e nel nostro partecipare alla sua preghiera la Parola di Dio si fa a sua volta parola umana. Così tutte le preghiere della Bibbia sono preghiere in cui noi partecipiamo alla preghiera di Gesù Cristo, in cui egli ci coinvolge, portandoci al cospetto di Dio; altrimenti non sono le preghiere giuste, perché possiamo pregare solo in e con Gesù Cristo. Se partiamo da questo presupposto, se vogliamo leggere e pregare le preghiere della Bibbia, e in particolare i salmi, non dobbiamo cominciare col chiederci che riferimento essi abbiano a noi, ma che riferimento abbiano a Gesù Cristo. Dobbiamo chiederci come comprendere i salmi in quanto Parola di Dio; solo a quel punto possiamo partecipare alla preghiera che in essi è pronunciata. Non ha nessuna importanza che i salmi esprimano proprio il sentimento presente nel nostro cuore. Forse è addirittura necessario pregare opponendoci al nostro cuore, se vogliamo pregare bene. L’importante non è ciò che risponde al nostro volere, ma ciò che Dio vuole sia detto nella nostra invocazione. Se dovessimo contare solo su noi stessi, la nostra preghiera sarebbe spesso soltanto la quarta invocazione del Padre nostro. Ma Dio stabilisce diversamente: non la povertà del nostro cuore, ma la ricchezza della Parola di Dio deve caratterizzare la nostra preghiera (D. Bonhoeffer, Il libro di preghiera della Bibbia. Introduzione ai salmi, Queriniana).

 

L’evangelo è dissacrante

Secolarizzazione significa che l’uomo può fare a meno dell’ipotesi Dio per comprendere il mondo, organizzarlo e trasformarlo. Significa inoltre che ormai il campo della religione si restringe e la religione viene confinata nel privato. Oggi l’appartenenza religiosa non è più un fattore d’integrazione sociale (cinquant’anni fa la persona che non si vedeva mai in chiesa veniva segnata a dito). Oggi aderire a una fede, a un sistema di credenze, è una libera opzione. È evidente, ne guadagna la qualità della fede, ma al tempo stesso diminuiscono inevitabilmente il numero dei fedeli; ed è evidente anche - sebbene in questo campo non si debba mai lasciarsi impressionare dal numero - che ne risulta indebolito il vigore apostolico della fede. Infine, secolarizzazione significa che ormai anche una società pluriconfessionale è possibile. Non senza resistenze, d’altronde. Si pensi al fatto che si è dovuto attendere il concilio Vaticano II perché venisse affermato pubblicamente e solennemente il valore assoluto della coscienza in materia di libertà religiosa. Di fatto nella società dove oggi il cristiano vive circola tutto un miscuglio di credenze con cui egli non può evitare di scontrarsi o di subirne il fascino. È necessario al credente aprirsi una strada senza rinchiudersi sulla propria fede tenendosi sulle difensive, ma anche senza ricercare una pseudo-comunione nell’annullamento delle differenze. I rischi e le opportunità di questo movimento di secolarizzazione sono stati esposti molto bene da Henri de Lubac: “Diventando sempre più profane, le nostre civiltà ci espongono al rischio di perdere Dio.


forse questo permetterà di ritrovarlo a una maggiore profondità, e tale riscoperta potrà preparare nuove sintesi, senza che si debba mai ritornare alle indifferenziazioni primitive”. “Ritrovare Dio a una maggiore profondità” si può interpretare anche come: non confondere Dio con quello che lui non è, relativizzare tutto quello che non è lui, comprese tutte le forme istituzionali nelle quali vive la fede. Karl Rahner, a sua volta, fa un bilancio ottimistico di questa evoluzione e ravvisa anche l’uscita da una confusione possibile: “Solo ora cominciano le vere opportunità per il cristianesimo. È stato necessario attendere la nostra epoca perché cadesse il velo degli enigmi che ricopriva il mondo, e perché l’uomo lo vedesse così com’è. Impossibile, ormai, confonderlo con Dio”. Non confondere fede e religione: è proprio quello che ha fatto fin dagli inizi il cristianesimo, svelando che gli dèi dominanti erano idoli. In questo senso, certamente l’Evangelo è dissacrante. Si pensi al dialogo di Gesù con la samaritana, a proposito dei luoghi di culto. Per quanto riguarda il tempio, Gesù ha già parlato della sua distruzione e questo gli sarà rimproverato durante il processo. In questo dialogo cosa annuncia? La fine della religione del tempio. “I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte – gli dice la donna – e voi giudei invece dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare” (Giovanni 4,20). Gesù pone fine a quella rivalità da campanile. Rispondere che la religione è in spirito e verità equivale a dire chiaramente che la fede non si vive in alcun luogo, in alcun tempio particolare, ma “sempre e ovunque”.


Dire “Né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre” (Giovanni 4,21), è dire che la fede dà una libertà assoluta nei confronti di tutte le sfere dell’esistenza, ivi compresa la sfera religiosa. Ovunque e sempre noi possiamo adorare Dio in spirito, vivere da uomini “spirituali”, cioè dello Spirito di cui ha vissuto Gesù. Allora è la fine della religione? No di certo, perché lo spirito non va mai senza un corpo. È ancora necessario un linguaggio religioso? Sì, ma ricercando sempre il senso al di là delle parole. Dei gesti religiosi?. Sì, a condizione di non affidare il senso delle nostre vite a gesti formali. C’è ancora bisogno di luoghi e tempi religiosi, di una comunità? Sì, ma a condizione che ogni comunità accetti di aprirsi e di espandersi nel senso di una solidarietà universale (J.-P. Mensior,  {link_prodotto:id=365}, Qiqajon, Bose 2001, pp. 160-164).

La chiamata a seguire Gesù

“E procedendo oltre Gesù vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto alla dogana e gli dice: ‘Seguimi’. Ed egli, alzatosi, lo seguì” (Marco 2,14). Cristo chiama e, senza ulteriore intervento, chi è chiamato obbedisce prontamente. Il discepolo non risponde confessando a parole la sua fede in Gesù, ma con un atto di obbedienza. Com’è possibile questo immediato riscontro dell’obbedienza con la chiamata? Questo fatto urta profondamente la ragione naturale; essa deve sforzarsi a separare questa successione così diretta; qualcosa deve esservi frapposto, qualcosa deve essere spiegato. Bisogna assolutamente trovare un intervento, psicologico stoico. Nulla precede questo incontro nulla segue se non l’obbedienza del chiamato. Il fatto che Gesù è il Cristo gli dà il pieno potere di chiamare e di pretendere obbedienza alla sua parola. Gesù invita a seguirlo, non come maestro e come esempio, ma perché è il Cristo, il Figlio di Dio. E che cosa dice il testo del mood di seguire? Seguimi. Corri dietro me. Ecco tutto. Camminare dietro lui è, in fondo, qualcosa senza contenuto. Non è certo un programma di vita, la cui realizzazione possa sembrare ragionevole; non è una meta, un ideale a cui si possa tendere. Non è una cosa per cui, secondo l’opinione degli uomini, valga la pena impegnare qualcosa, e tanto meno se stessi. Ma che accade? Il chiamato abbandona tutto ciò che possiede, non per compiere un atto particolarmente valido, ma semplicemente a causa di questa chiamata, perché altrimenti non potrebbe seguire Gesù. Si fa un taglio netto e semplicemente ci si incammina. Si è chiamati fuori e bisogna “venire fuori” dall’esistenza condotta fino a questo giorno; si deve “esistere” nel senso più rigoroso della parola. Questo fatto non è una legge generale, ma, anzi, proprio il contrario di ogni legalismo. E di nuovo non è null’altro che il vincolo che lega solo a Gesù Cristo, cioè appunto la completa rottura con ogni piano programmato, ogni aspirazione idealistica, ogni legalismo. Perciò non si può dare altro contenuto, perché Gesù Cristo è l’unico contenuto. Accanto a Gesù non possono esserci altri contenuti: lui stesso è il contenuto (D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia 1971, pp. 36-38).

Gesù, un’esistenza plasmata dall’amore

Abbiamo dentro di noi un’aspirazione senza la quale veramente tutta la storia sarebbe già chiusa, l’aspirazione a una forma di esistenza che sia proprio quella in cui l’amore è l’unica legge. Non c’è uomo perverso, posto che si possano usare questi termini, che non abbia in un angolo di sé il sogno di una vita in cui l’unica legge sia l’amore. Nella figura di Gesù noi abbiamo la rappresentazione reale – sia pure filtrata attraverso le testimonianze codificate dei vangeli – di questo modello di esistenza verso cui il fondo della nostra coscienza va come una pietra verso il dentro di gravitazione. Come Giusepe d’Arimatea era “uno che aspettava il regno”, così noi tutti aspettiamo questo regno. C’è in noi questa attesa. Certo, siamo dei disgraziati! Lo attendiamo in questi anni perfino all’ombra dei missili! Forse non ci arriveremo mai, forse fra qualche anno sulla terra ci sarà un palmo di cenere in più e tutto sarà finito. Però esso è possibile. E allora la mai fede è aperta a questa possibilità. Io credo in questo e dico, vedendo consumarsi la vita di Gesù, dell’uomo giusto crocifisso fra due delinquenti,: “costui è veramente il figlio di Dio “ (Marco 14,39). Più che se dicesse ai venti: “fermatevi!” e dicesse ai tumulti delle acque: “placatevi!”, questo è il miracolo dei miracoli, è l’eterno miracolo morale. Il fatto che un’esistenza possa essere plasmata solo dall’amore è un miracolo. Del resto, se vi succede di trovare qualche persona in cui questo avviene anche appena in mood incipiente, voi dite: “ma questo è un miracolo!”. Il miracolo che aspettiamo tutti è il mondo spoglio di violenza, è il mondo animato dall’amore. Lo chiamiamo col nome biblico? Chiamiamolo regno di Dio (E. Balducci, Il Vangelo della pace, Borla, Roma 1987, pp. 118-119).