La compassione
Nella relazione con il malato e con il sofferente in genere, la compassione è attitudine essenziale. Dal punto di vista teologico la Bibbia attribuisce la compassione anzitutto a Dio e ne fa l’elemento in base al quale Dio “vede” la sofferenza del popolo e si appresta a intervenire a suo favore (Esodo 2,23-25; 3,7-8); Cristo nei vangeli appare come narrazione e personificazione della compassione di Dio, ben espressa nell’atteggiamento del buon samaritano che, passando accanto all’uomo ferito, “lo vide e ne ebbe compassione” (Luca 10,33). Da questo sconvolgimento interiore, da questo soffrire la sofferenza dell’altro, il samaritano è condotto a un comportamento etico in base al quale fa tutto ciò che è in suo potere per alleviare la situazione del bisognoso. La compassione non è solo un sentimento che si impone al cuore dell’uomo, ma diviene scelta, responsabilità. Essa è risposta al muto grido di aiuto che si leva dal viso dell’uomo sofferente, dagli occhi atterriti e più che mai nudi e inermi della persona soverchiata dal dolore, vicina alla morte; è il no radicale all’indifferenza di fronte al male del prossimo: in essa io partecipo e comunico, per quanto mi è possibile, alla sofferenza dell’altro uomo. La compassione, facendo della sofferenza una sofferenza per l’altro, spezza l’isolamento in cui l’eccesso di sofferenza rischia di rinchiudere l’uomo. L’impotenza del malato, del morente ha la paradossale forza di risvegliare l’umanità dell’uomo che riconosce l’altro come un fratello proprio nel momento in cui non può essere strumento di alcun interesse. In questo senso la sofferenza per la sofferenza altrui è uno dei più alti segni della dignità umana.
La compassione è una forma fondamentale dell’incontro con l’altro, un linguaggio umanissimo, perché linguaggio di tutto il corpo, che coinvolge i gesti, la gestualità, la parola, la presenza personale. Certo la compassione nasce in chi accetta di lasciarsi ferire e colpire dalla sofferenza dell’altro, sicché solo chi riconosce la propria vulnerabilità sa aprirsi alla sofferenza altrui: “Solo un io vulnerabile può amare il prossimo” (Emmanuel Lévinas). E di fronte al malato per cui non c’è più nulla da fare dal punto di vista medico, che altro resta se non con-soffrire restandogli accanto, parlandogli, esprimendogli, nei modi che lui può ancora capire, che noi lo amiamo? “Io non so come accada che, quando un membro soffre, il suo dolore divenga più leggero se le altre membra soffrono con lui. E l’alleviamento del dolore non deriva da una distribuzione comune dei medesimi mali, ma dalla consolazione che si trova nella carità degli altri” (Agostino di Ippona). Sì, nella compassione vi è la rivelazione di qualcosa che è profondamente umano e autenticamente divino
Luciano Manicardi, L'umano soffrire, Qiqajon, Bose 2006, pp. 67-69.