La sinodalità della vita

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Fratelli, sorelle,

la prima lettura che abbiamo ascoltato a eucaristia oggi, il passo tratto dal libro dei Numeri (11,25-29), rinvia alla situazione per cui nella conduzione del popolo d’Israele durante il cammino nel deserto, la responsabilità di Mosè fu condivisa da altri settanta uomini. Il testo parla dello Spirito che assisteva Mosè e che si posa anche sugli altri che avrebbero coadiuvato Mosè nel portare il peso del popolo.

Siamo rinviati a una pratica, vitale nella chiesa e in ogni comunità monastica, di collegialità e di corresponsabilità. Pratica che è fondamentale per arrivare a sentirsi davvero parte della comunità stessa e che, al tempo stesso, esprime tale appartenenza e partecipazione. Una corresponsabilità che nella vita monastica si manifesta nei momenti sinodali per eccellenza come i consigli o i capitoli, ma che ha il suo luogo autentico nella vita quotidiana, trova la sua cartina di tornasole nelle relazioni fraterne. Perché anche le istituzioni sinodali sono a servizio della vita, della reale vita relazionale fraterna e comunionale che è il cuore di ogni comunità. Limitare il momento sinodale all’evento istituzionale significa tradire la vita e anche l’autentica sinodalità riducendola a momento burocratico e cadere in cavillosità procedurali che si rifiutano di vedere e assumere l’evidenza della vita. Perché è lì, nei comportamenti quotidiani che si verificano le più gravi mancanze nei confronti della sinodalità, cioè della vita comunitaria e della fraternità, dei singoli fratelli e delle singole sorelle come della comunità nel suo insieme. Ma è anche lì che in ogni gesto vissuto in autenticità, fuori da ogni doppiezza e menzogna, ipocrisia e falsità, ma in sincerità, verità e spirito di carità e di servizio, che la comunità viene edificata. Oppure viene distrutta dai comportamenti contrari.

Ogni atteggiamento vissuto nella fede è dono per la comunità” dice la nostra Regola (RBo 17).

Ma una reale sinodalità di cosa abbisogna concretamente? Anzitutto della presa di parola, del coraggio della propria parola. Si tratta cioè di vincere la paura e la timidezza nell’esprimersi. Di vincere la paura di osare il proprio pensiero, la paura del giudizio altrui, la paura di esporsi davanti agli altri. La paura di dire qualcosa che può risultare sgradito a qualcuno, magari a chi detiene l’autorità nella comunità. La paura di patire delle conseguenze, delle rappresaglie, diciamo così, se si esprime qualcosa di sgradito a qualcun altro.

Inoltre si tratta di pensare e di avere in mente il bene comune, ciò che alla comunità può fare bene. Vincendo cioè i personalismi e gli interessi particolari e propri. Perché sì, si possono perseguire finalità inconfessabili e di parte, di un gruppetto, anche nello spazio comunitario.Dice ancora la nostra Regola: “Chiediti sempre prima di parlare se quel che dici è conforme al tuo piano o al piano di Dio” (RBo 28). Al piano tuo o della tua parte. Ovvero, è anche necessario un lavoro di discernimento e riflessione previa di ciò che si intende dire. E occorre verità e sincerità con se stessi. Occorre anche vincere la paura del conflitto che può nascere o manifestarsi. Tacere pro bono pacis può essere molto peggio che esprimere apertamente il proprio parere. Di certo, ci lascia un senso di amarezza, di scontentezza, di frustrazione, mentre l’espressione di noi stessi, anche se ci costa, ci dona un grande senso di integrità.

Tutto questo necessita di un clima di fiducia, senza il quale non può esservi libertà e vita comunitaria. Clima di fiducia che va costruito giorno per giorno, con grande pazienza. Oppure lo si distrugge ogni giorno con appunto le menzogne, la mancanza di trasparenza, l’ipocrisia, la falsità, la mancanza di rispetto. Fuori dalle condizioni prima ricordate afferenti alla vita interiore di ciascuno, sinodalità è solo espressione vuota e retorica, senza alcun fondamento. Inoltre, occorre anche accettare le decisioni che il consiglio arriva a prendere anche se non le condividiamo: “Cerca di fare tua, di comprendere dall’interno una decisione presa contro il tuo parere” (RBo 27). Insomma, la sinodalità è esercizio che ci chiede autenticità di vita, ci chiede di crescere in libertà e capacità di verità, che è anzitutto verità con se stessi. Si tratta poi di mettere la nostra libertà a servizio della vita comunitaria. Allora nascerà anche un senso della vita monastica come vita, in cui tutto, ma proprio tutto ciò che si vive, è pienamente parte della vocazione ricevuta ed è di edificazione comunitaria. E si può così uscire da derive burocratiche o concezioni impiegatizie del lavoro e dei servizi, ma assumere ogni aspetto della vita comune come atto che edifica il corpo comunitario e contribuisce al suo armonico funzionamento. Non avvenga che ciò che è comune sia sentito come iniqua sottrazione di qualcosa a sé, alla propria persona e al proprio tempo.

Perciò, fratelli, sorelle, siamo sobri e vigilanti perché il nostro Avversario, il Divisore, si aggira cercando una preda da divorare. Resistiamogli saldi nella fede, impegnati a crescere in libertà, capacità di condivisione e corresponsabilità. E tu, Signore, abbi pietà di noi.

fratel Luciano