Desiderare altro

DESIDERARE ALTRO                                       di Daniela Larentis

La parola «desiderio» può rimandare banalmente, di primo acchito, alla scena del bambino con le dita e la bocca sporche di marmellata o a qualche altra accattivante immagine che ha a che fare con la trasgressione, pensiamo per esempio al mito di Adone, la cui madre, Mirra, un bel giorno si trovò a desiderare niente meno che suo padre Cinira, re di Cipro. Tanto fece che, a farla breve, con l’aiuto della vecchia nutrice (la madre pare che avesse fatto voto di castità) riuscì ad unirsi carnalmente più volte a lui, ponendo un’unica condizione e cioè quella di non farsi riconoscere. Però il padre a un certo punto divenne curioso e scoprì che la giovane amante altri non era che la propria figlia, così, in preda a una sconfinata rabbia, la rincorse con la spada per ucciderla. Quando la raggiunse lei, grazie all’aiuto degli dei, era già bella che trasformata in un albero, ma il padre non si fermò e dalle ferite inferte nel tronco uscì una resina profumata, la mirra appunto. Nove mesi dopo, dalla corteccia uscì niente meno che Adone, il celebre giovanotto di cui si innamoravano tutte le donne, il frutto di un desiderio incestuoso. Miti greci a parte, vien da dire che il desiderio sia molto più di questo. Finché si desidera ci si sente vivi, questo è un dato di fatto. Solo i morti non desiderano più nulla. Ma che senso diamo a questo termine che racchiude molti significati, che cosa ci ricorda? E chi lo sa, a noi per esempio fa venire in mente le parole del poeta libanese Kahlil Gibran, il quale a proposito del desiderio scrisse in «Sabbia e schiuma» che «tra ciò che un uomo immagina e ciò che realizza vi è uno spazio che solo il suo desiderio può attraversare», un pensiero che la dice lunga. Verrebbe da aggiungere che sarebbe saggio ascoltare sempre con grande attenzione la chiamata dei propri bisogni, dei propri desideri più profondi, cercando di assecondare le proprie attitudini, coltivando i propri talenti, rinunciando, al contrario, a imboccare spesso la via più comoda o quella che si ritiene essere l’unica percorribile al momento. C’è un interessante pubblicazione che parla proprio di desiderio, un libro intitolato «La forza del desiderio» di Massimo Recalcati (Edizioni Qiqajon). «L’etimologia di questa parola» scrive l’autore a pag. 7 «viene da Giulio Cesare, il quale nel “De bello gallico” dice che “desiderio” viene da “desiderantes”», ossia «i soldati sopravvissuti al campo di battaglia: sotto un cielo stellato attendono i propri compagni ancora impegnati nella battaglia, a rischio morte». Come viene definita qualche riga più avanti «una strana e potente immagine», potente perché «mette in rilievo alcune dimensioni fondamentali dell’esperienza del desiderio: quello dell’attesa…». Il fattore «attesa» pare sia proprio fondamentale, questo discorso vale ancora di più in un mondo «veloce» come il nostro, dove non si fa tempo a desiderare qualcosa che già l’attenzione si sposta su qualcosa d’altro. Come viene fatto notare a pag. 40, «il desiderio umano – è questa la dimensione più infernale – è sempre desiderio non dell’altro (chiamata, domanda di amore, domanda di presenza), ma desiderio d’altro, di altri oggetti, inquietudine: quello che ho non è mai sufficiente, non è mai abbastanza». Come dare torto all’autore? Basta guardarsi intorno per rendersene conto, non si è mai soddisfatti di nulla e si è sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo per colmare il vuoto che alberga nel cuore di ognuno. Tutto ciò che è nuovo pare esercitare un potere immenso (pag. 40): «Il discorso in cui tutti noi siamo inscritti oggi enfatizza il potere seduttivo del nuovo: la nuova sensazione, la nuova esperienza, il nuovo oggetto tecnologico, il cambio di partner… La sirena del nuovo tocca un punto della struttura del desiderio, cioè che il desiderio umano non si accontenta mai, tende sempre all’al di là di ciò che ha». Non sempre il nuovo è meglio di quello a cui siamo abituati, pensiamo alla frutta, per esempio. Stufi di mangiare «la solita mela» alcuni iniziano a comprare frutta proveniente da ogni angolo del mondo, senza tener presente che al di fuori dell’Unione Europea la regolamentazione dell’agricoltura può essere molto differente (in alcuni Paesi, per esempio, vengono ancora utilizzati diserbanti e insetticidi particolarmente nocivi). A proposito della «seduzione del nuovo», il problema è che cambiando gli oggetti del desiderio l’insoddisfazione poi sembrerebbe rimanere più o meno la stessa; questo è un aspetto che viene ricordato nel testo e che dovrebbe far riflettere. A pag. 43 un pensiero colpisce la nostra attenzione: «Ma dobbiamo stare attenti a distinguere il rapporto del desiderio con il suo oggetto dal desiderio in sé. Ci sono in effetti rapporti che a volte finiscono, che si interrompono, che non hanno più linfa vitale. Non parlo solo dei rapporti sentimentali tra uomo e donna, mi riferisco anche ai rapporti con un lavoro. «Qui dobbiamo però fare attenzione: è l’oggetto che è decaduto, ma perché il desiderio chiede una meta più coerente con la sua spinta. Il problema quindi non è tanto lavorare sugli oggetti. La grande illusione del nostro tempo è che sono gli oggetti che danno la felicità. Hai un partner con cui non va? Cambia partner! C’è uno psicoterapeuta con cui non va? Cambialo! C’è una scuola che non va? Cambia scuola! Siamo in un tempo in cui sembra che la felicità dipenda dall’oggetto e che cambiando l’oggetto si possa essere felici». Il desiderio d’altro può essere anche inteso in maniera differente, come un atteggiamento, un’apertura mentale che diventa opportunità di crescita. Il desiderio è un po’ il motore che muove il mondo. Come viene evidenziato a pag. 43 «finché c’è desiderio, c’è vita. Il desiderio allunga la vita. Nella misura in cui il desiderio ci attraversa, dilata l’orizzonte della nostra vita. Il problema è che nel nostro tempo il desiderio è sostituito da altre cose, fosse anche l’ordinarietà ripetitiva della nostra vita. Allora, è molto difficile trovare il nuovo nello stesso, ma è quella la direzione». Alle volte si dà la colpa per aver rinunciato ai propri desideri agli altri, ai genitori, ai figli talvolta, al proprio partner, più genericamente alle circostanze, dimenticandosi che c’è sempre una responsabilità personale in tutto ciò che si fa. A pag. 47 a tal proposito leggiamo quanto segue: «Noi siamo sempre responsabili di quello che facciamo di ciò che gli altri hanno fatto di noi» e poi viene spiegato: «La nostra responsabilità consiste nel fare qualcosa di quello che gli altri ci hanno fatto. Qui emerge una responsabilità irriducibile. «Per questo una madre non è mai il virus dell’anoressia, così come il padre non è mai il virus della tossicomania, perché tra una cattiva madre, un cattivo padre e l’anoressia, la tossicomania, c’è la mediazione del soggetto, e alla fine il responsabile è il soggetto. Ripeto, non dell’essersi provocato le ferite, perché le ferite le ha subite, ma di quale destino, quale forma soggettiva ha dato a queste ferite». E qui entriamo in un terreno davvero insidioso, qualunque cosa si dica a riguardo potrebbe risultare stonata, in quanto le dinamiche fra genitori e figli sono infinite, non si può mai giudicare una situazione dall’esterno, inoltre i genitori di un figlio anoressico o di uno che fa uso di droghe, tanto per stare ai due esempi citati da Recalcati, non è assolutamente detto che siano cattivi genitori (anche se gli esempi vanno contestualizzati). Da non «addetti ai lavori» verrebbe da dire, scollegandoci da questo discorso, che i genitori non dovrebbero mai covare l’insano desiderio di progettare la vita dei figli, coprendoli di aspettative (le quali il più delle volte non potranno che essere disattese) e trascinandoli dentro i propri sogni. Ognuno ha il sacrosanto diritto di avere un proprio desiderio, il desiderio che si merita. Ma è più facile a dirsi che a farsi…

Daniela Larentis – Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Sorella Maria, respiro di fraternità

Sorella Maria: un respiro largo nella fraternità

"Ignazio, io sono pancristiana. Voi lo sapete, o più esattamente sono panica, né potrei non esserlo. Considero che le diverse Chiese Cristiane o i membri coscienti di queste chiese, sono chiamati a dare un loro contributo allo spirito ecumenico, gettando sale nelle acque malsane o insipide della nostra Cattolicità romana.".[1]

E' sorella Maria l'autrice di queste righe: le scrive il 12 aprile 1951 a Ignazio, nome con cui si rivolgeva – con riferimento al martire, vescovo di Antiochia nel II secolo, 'frumento di Cristo' - a don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo, predicatore infaticabile nell'Italia degli anni della guerra e del dopoguerra. Con lui Maria venne a contatto nel 1939, ed incontrò di persona poi una sola volta, ma mantenne uno scambio epistolare durato vent'anni fino al 1959, data della morte di don Primo.

Mariangela Maraviglia, storica pistoiese, ha curato l'edizione di questo carteggio pubblicata di recente dalle edizioni Qiqajon di Bose.[2] Dopo l'edizione dell'epistolario di sorella Maria e padre Giovanni Vannucci,[3] il presente lavoro costituisce un passaggio di approfondimento e di presentazione più accurata e contestualizzata del profilo di sorella Maria nel rapporto - questa volta - con don Mazzolari, appassionato predicatore della pace e di un rinnovamento della chiesa nell'orizzonte del farsi vicina soprattutto ai più lontani e ai più umili,[4] figura più studiata e conosciuta nella storia della chiesa italiana del Novecento.[5]

Si può dire che questa edizione, condotta in modo rigoroso su testi sinora conservati con attenzione e cura presso l'eremo, costituisca anche il frutto di un passaggio di maturazione della conoscenza di Maria di Campello che dai suoi testi emerge nel suo spessore di vita spirituale e quale punto di riferimento e di incontro per tante coscienze segnate da autentica passione evangelica.[6]

Sorella Maria, al secolo Valeria Pignetti nata a Torino nel 1875, entrò nel 1901 presso le francescane missionarie, ma presto maturò una vocazione alla vita nella preghiera, nel silenzio e nella fraternità. Nell'eremo di Campello diede inizio ad una famiglia in cui lavoro, preghiera, ospitalità furono le caratteristiche; ed, accanto a queste, l'amicizia con tanti e tante con cui si mantenevano relazioni epistolari, amicizia che ella ebbe a definire come sacramento di ogni momento.[7]

E' una figura che si potrebbe pensare 'minore' nella prima metà del Novecento che vide il sorgere di fermenti interessantissimi e vari di vitalità e creatività femminile nel mondo del cattolicesimo italiano. Questo per molti aspetti era impreparato ed insensibile ad accogliere istanze provenienti da donne che aprivano percorsi innovativi e profetici. Il contesto ecclesiale dei primi decenni del secolo era segnato pesantemente soprattutto in Italia, dall'atmosfera di sospetto da parte della gerarchia nei confronti di figure e movimenti che in qualche modo potessero dare spazio alle istanze presentate da quella molteplicità di percorsi e riflessioni che in modo semplificatorio venne indicato come il 'movimento modernista', condannato dall'enciclica Pascendi nel 1907.[8]

Sorella Maria, man mano che vengono pubblicati testi sinora inediti, rivela la sua grandezza spirituale ma attraverso di lei risalta anche la levatura di fede e di dedizione alla chiesa di figure come Ernesto Buonaiuti ad esempio a cui ella fu profondamente legata e che fu fratello dell'eremo di Campello: a lui Maria si rivolgeva con il nome di Ginepro.[9] Ma accanto a lui di tanti altri con cui sorella Maria fu in rapporto: un rapporto né di figliolanza spirituale, né di condizionamento, piuttosto rapporti adulti di fraternità.

Da quell'angolo nascosto dell'Umbria dove viveva, l'eremo di Campello, presso le fonti del Clitumno, sorella Maria tesse relazioni con gli spiriti segnati da inquietudine di fede e di testimonianza profetica: oltre ad Ernesto Buonaiuti – colpito da scomunica - con cui nutre un rapporto particolare, don Primo Mazzolari, don Brizio Casciola, padre David Turoldo, padre Vannucci, don Zeno fondatore di Nomadelfia, e, accanto ad essi, persone di diverse confessioni cristiane e religioni. Durante l'occupazione tedesca l'eremo accoglie alcuni ebrei tra cui bambini, Maria ha contatti con padre Monier, gesuita amico del grande orientalista Massignon, così come con Lanza del Vasto per il suo pensiero non violento. Tra altri anche con Adelaide Coari e Dorothy Day. All'eremo sono poi ospitati Friedrich Heiler, storico delle religioni, ortodossi russi, e Maria ebbe rapporti epistolari con Albert Schweitzer a cui inviò dei ceri come lumen Christi,[10] e con Gandhi. A quest'ultimo scrive, parlando di sé, nella sua prima lettera nel 1928: "Io appartengo a Cristo e sono italiana (…) Io sono creatura selvatica e libera in Cristo, e voglio Lui, con te, con voi, con ogni fratello cercatore di Dio, camminare per i sentieri della verità…".[11]

Maria, dalla periferia nascosta ove risiedeva, viveva come cuore pulsante di tanti rapporti di vicinanza e condivisione della passione per il vangelo.[12] La profondità di affetto e nel contempo la tensione spirituale che anima queste esperienze emerge dai toni del carteggio con il parroco di Bozzolo: si scorgono i tratti di una comunicazione viva tra l'infaticabile predicatore e la sorella impegnata a costruire nel ritiro dell'eremo una comunità di sorelle. La stessa Sorella Maria riconosce Primo Mazzolari la singolare capacità di simpatia umana e varie sono le espressioni di affetto intenso e delicato nelle lettere.[13]

La curatrice dell'epistolario ha compiuto una duplice operazione in questo puntuale lavoro di edizione: ha innanzitutto operato una presentazione ordinata e documentata dei testi. Lo scambio delle lettere è collocato nel contesto storico contemporaneo ed in quello della vita movimentata di don Mazzolari in anni intensi in cui egli andava pubblicando i suoi libri e curava la rivista quindicinale 'Adesso', ma anche viveva la sua militanza antifascista fino a dover entrare nella clandestinità tra il 1944 e il 1945. Nell'introduzione al carteggio sono inoltre posti in luce, a partire dagli scritti pubblicati, i tratti di una spiritualità che attraversa il tempo, una spiritualità dell'essenziale e della ricerca della semplicità cristiana.

Mariangela Maraviglia ci conduce anche a cogliere come i due siano uniti da una ricerca spirituale animata da un bisogno di più ampio respiro, nel riferimento ad una regola da considerarsi come attuazione del vangelo e nello spirito di ospitalità che si esprime come sensibilità ecumenica. Il fondamentale ed esigente riferimento a Cristo non si fa attitudine escludente ed identitaria, ma appassionata ricerca proprio nei rapporti con i lontani, comunione universale e accoglienza di ogni inquietudine religiosa. In Maria in particolare c'è un senso della sacramentalità di ogni gesto autenticamente umano e di ogni aspetto della vita nelle sue espressioni genuine, un senso del sacro che si mantiene nella sobrietà del cogliere le dimensioni più intime e nascoste del vivere delle creature.

Appare come proprio l''accoglienza del lontano sia la cifra che accomuna l'attitudine di Mazzolari e di sorella Maria nella diversità dei loro percorsi e delle loro esistenze.[14] Nell'espressione "io sono pancristiana. Voi lo sapete, o più esattamente sono panica, né potrei non esserlo" sta forse racchiuso il nucleo segreto della forza spirituale di sorella Maria, e della sua esperienza di fraternità - 'koinonia' ella la chiamava - di povertà e di incontro con Dio in una apertura radicale alla relazione.

"Ma anche ora le creature ci aiutano a vivere. Per esempio sono fioriti 144 gigli. E solo questa comunità di gigli insieme alle roselline selvatiche, così fragili, ha resistito al tremendo urto dell'uragano".[15] "Del resto quando contemplo il cielo e la stella della sera, quando posso servire ai più poveri e disperati fra i nostri fratelli e ricevere la loro benedizione, rientro nella pace del tutto".[16] Citando Bernardo fa proprio l'invito a cercare nei boschi e nella preghiera quello che non si è trovato sui libri.

Natura e rapporti umani, sguardo contemplativo e servizio nella concretezza dell'esistenza quotidiana, senso della vicinanza e della comunione con i poveri sono un primo tratto che risalta da questo scambio. Vi è una consapevolezza radicale di stare sotto il segno di una benedizione di Dio che la raggiunge attraverso le cose e i poveri.

La sua spiritualità affonda su di una limpida percezione evangelica, che apre le porte a percepire i rapporti come un 'imparare da tutti' e con lo stile del presentarsi di fronte agli altri mendichi di perdono e di tolleranza.[17] 'La minore' è infatti l'appellativo che si attribuisce firmandosi così nelle sue lettere. Ed è proprio la condizione di minorità quella che lei sente come propria: "Novizia sono sempre nella via del Signore, e sempre egualmente indigente nello spirito e nel corpo".[18]

Donna aperta ad un sentimento di presenza di Dio percepito nelle piccole cose e nei cuori soprattutto di chi sperimenta la ricerca dell'essenziale secondo il vangelo, la sua esperienza vive di 'ineffabile fraternità': scrive infatti che si trova a non dover "… ritardare la comunione con Voi, Ignazio, che date olio alla mia lampada, e della cui ineffabile fraternità tutti abbiamo bisogno".[19]

Il volto di sorella Maria che si delinea dalla testimonianza di queste lettere è quello di una donna aperta al senso profondo della benedizione di Dio, con tratti di trasparenza d'animo e purezza francescana. Si muove quale mendicante di piccole luci di gioia che chiede a chi è legata in fraternità, tra di essi a don Primo: "Accattateci anche la grazia di tener accesa a qualunque costo la piccola lampada della gioia. Dio quanta è sacra la gioia e quanto vorremmo non essere indegne di questa virtù augusta e suprema".[20] "E voi benedite il pane, benedite l'acqua, benedite il vecchio eremo ove si custodisce il fuoco sacro, e sosteneteci sempre con la vostra pietà e il vostro perdono".[21]

La sua semplicità è unita ad un interesse non erudito per letture di ogni tipo e aperte ai contributi di culture e religioni diverse: sono testi che gli vengono consigliati dai suoi corrispondenti, ed in particolare da Mazzolari è tenuta aggiornata con la lettura della rivista 'Adesso'.[22]

La semplicità e la libertà sono i due caratteri che maggiormente risaltano della sorella di Campello e la accomunano, pur nei modi diversi di attuazione, al prete cremonese: egli nelle lettere appare tutto preso dal dovere di una missione per una trasformazione della società in un riferimento radicale al vangelo come apertura al dialogo con tutti.

La minore parla della vita nell'eremo accennando alle fatiche a cui le sorelle sono sottoposte per il sostentamento quotidiano ma anche ai raggi di consolazione: "Per esempio la pietà scambievole, la breve pura salmodia".[23] La descrive come canto d'un ruscello, piccola fonte nell'aridità anche nei mesi brucianti. E' lei stessa, in tempi in cui la liturgia era in latino, a preparare la salmodia – trascrivendo e semplificando traduzioni che circolavano nell'eremo - perché fosse breve e pura: "la preparo via via per noi, come una volta, quando ancora potevo, preparavo il pane".[24]

Questi sprazzi uniscono la quotidianità colta nel suo spessore sacramentale e l'apertura contemplativa al senso della presenza di Dio da accogliere come infinità. E' un far propria l'esperienza di Francesco.[25]

Donna 'vicina', nell'esperienza del silenzio dell'Eremo scelta certamente come allontanamento forse da un mondo ma anche da una Chiesa troppo distratti per il compromesso con il potere e per le complicazioni che nascondono aridità spirituale.[26] Troviamo talvolta, accanto la sua firma, l'espressione 'così vicina' che esprime il senso profondo di fede della comunione quotidiana che lega i viventi con i defunti, coloro che ella definisce 'andati avanti'.[27]

L'ineffabile fraternità si declina in questi scritti anche come 'fraternità riverente', lontana da ogni spirito di zelo partigiano, sia esso politico, sia anche 'ecclesiastico'.[28] Non è affatto un'attitudine di facile sincretismo, è piuttosto definibile come una discesa alle profondità di ciò che è essenziale: "Io sono riconoscente e in venerazione per la Chiesa della mia nascita e della mia famiglia, ma la Chiesa del mio cuore è l'invisibile Chiesa che sale alle stelle, che non è divisa da diversità di culti, ma è formata da tutti i cercatori di verità".[29] Così, con 'parresia' evangelica e sincerità, scrive al Papa in un tempo in cui il cammino ecumenico era percepito con sospetto e come deviazione: "Per me la fraternità riverente verso le Chiese cristiane, verso i fratelli separati, verso ogni esperienza religiosa sincera, se pur diversa dalla nostra, è mandato inflessibile ed è anche luce sul cammino".[30]

Sorella Maria in questi scritti si staglia come donna forte, capace di resistere in un momento di malattia alla scandalosa richiesta presentatale dal confessore, per poter avere l'assoluzione, di abiurare l'amicizia con Buonaiuti: "Ho sempre cercato di non tradire la mia coscienza. Non potrei farlo in quest'ora estrema".[31] E riferisce proprio quest'episodio nella lettera al papa Pio XII di cui invia copia a Mazzolari.[32]

Silenzio, lavoro cammino: questi i tre semplici caposaldi di una vita vissuta nella fraternità, con un senso profondo di quella che si potrebbe definire una larghezza d'animo e di respiro: "andare al largo sì sì occorre, e respirare, e contemplare, se non sarete più o meno degli affrettati, dei racchiusi, con respiro affievolito e mentalità annebbiata".[33] Interessante è la sottolineatura del cammino come una tra le 'consuetudini disciplinate', lo stile di vita dell'eremo: un camminare quotidiano, con attenzione alle creature, che porti a scorgere i profili delle colline, apertura di respiro e di contatto con il creato e la comunione con i poveri, tutti i vicini e i lontani con necessità spirituali e materiali. Fra le 'consuetudini disciplinate' tutte finalizzate all'unica regola come rinnovamento continuo del proprio cuore in rapporto al vangelo, c'è, oltre al lavoro nella sua durezza, proprio la cura della corrispondenza e azioni semplici come impastare il pane, la pulizia, l'ascoltare musica con raccoglimento.

Pregio del lavoro di Mariangela Maraviglia è anche quello di guidare il lettore a cogliere la fecondità di questi testi e dell'esperienza di sorella Maria. Nella sua vita ella affrontò la prova e la fatica, e non solo a causa della malattia che segnò la sua esistenza. Erano tempi difficili, per il contesto internazionale, la guerra e il dopoguerra, ma anche difficili per la vita della Chiesa. L'epistolario attraversa gli anni della polarizzazione in Italia degli schieramenti politici in cui anche la chiesa italiana si confuse per molti aspetti in queste lotte ideologiche e fu preoccupata di perseguire forme di affermazione nella vita sociale e politica.

In questa temperie, nel nascondimento, ma in una radicale coerenza al vangelo e nella fedeltà a tante amicizie e percorsi spirituali ed umani, sorella Maria ha lasciato il suo seme. Si può forse ritrovare qui, nel suo sguardo fiducioso al vangelo sperando contro ogni speranza, il segno più bello della sua fede: fede in Dio che avvolge della sua misericordia ogni creatura, ma anche fedeltà a quei cercatori di Dio che anche nelle prove non cessano di continuare a domandarsi come 'essere figliuoli', e rifuggono gli apparati del potere e il frastuono. E' questo un seme che per vie misteriose ha fruttificato incontrandosi con sensibilità diverse nel tempo e che prosegue non nelle forme del potere o della visibilità dei mass-media, ma ai margini, sul confine, là dove si scorge la terra dell'altro: dall'esperienza di padre Giovanni Vannucci e dell'eremo delle Stinche nel Chianti, alla comunità di Bose, alla fraternità di Romena nel Casentino, tutte esperienze che riconoscono in sorella Maria un faro di riferimento evangelico.

Sta forse qui l'attualità del messaggio che da queste lettere proviene a noi, ed è posto in risalto dal commento della curatrice. Nei tempi diversi la ricerca dell'essenzialità, di un 'respiro più largo' per la fede e per la vita, l'accoglienza del lontano, la scelta della povertà come 'minorità', sono 'le cose che rimangono', e vale la pena orientare la vita e il percorso della fede su tale inquietudine che impone ogni giorno di ricominciare a costruirsi con un cuore di non violenza e a ricercare forme di comunità in coerenza con il paradosso evangelico.[34] Una semplicità cristiana da ritrovare in tempi di frastuono, in cui le aperture del Vaticano II trovano progressiva riduzione e sembra prevalere una proposta di cristianesimo come programma di religione civile.

"Sì, in una stagione culturale ed ecclesiale come quella odierna, è motivo di rendimento di grazie poter riscoprire che quando ci si nutre del vangelo è possibile parlarsi da cuore a cuore anche da lontano, perché nei giorni non facili di frastuono e di inutile chiacchericcio si preferisce tacere e ascoltare le voci buone e care che ci parlano in segreto".[35] Sorella Maria è certamente una di queste voci, e la sua testimonianza rinvia ad un atteggiameno profondo di ascolto di tante voci e di sguardo a tante luci. Come lei stessa ebbe a scrivere: "Abbiamo tanto bisogno di accendere la nostra piccola lucerna alla face dei grandi di ogni tempo e d'ogni popolo, e d'ogni forma di spiritualità sincera".[36]

Alessandro Cortesi op

20 settembre 2007

 


[1] let. 128, del 12.04.51, p.264.

[2] Sorella Maria di Campello, Primo Mazzolari, L'ineffabile fraternità. Carteggio (1925-1959), a cura di M. Maraviglia, Bose Qiqajon 2007.

[3] Sorella Maria, Giovanni Vannucci, Il canto dell'allodola. Lettere scelte (1947-1961), a cura di P. Marangon, Bose Qiqajon 2006.

[4] P.Mazzolari, I lontani. Motivi di apostolato avventuroso, Bologna Dehoniane 1981, 4 ed..

[5] M.Maraviglia, Primo Mazzolari. Nella storia del Novecento, Roma Studium 2000

[6] R. Morozzo della Rocca, Maria dell'Eremo di Campello. Un'avventura spirituale nell'Italia del Novecento, Milano, Guerini e Associati 1998)

[7] Quando parla del vincolo che unisce i fratelli indica quello dell'affetto, vincolo religioso per eccellenza, accanto ad esso il partecipare alla vita altrui con la preghiera "e con lo sforzo di ogni giorno per offrire la pace, pur nel travaglio e nella sofferenza" (allegato alla let.29, del 10.12.41, p.124)

[8] Cfr. P.Gaiotti de Biase, Le origini del movimento cattolico femminile, Brescia Morcelliana 2002 (2ed).

[9] Così sorella Maria lo descrive in una lettera in cui presenta chi sono i fratelli legati alla piccola famiglia di Campello: "Studioso, duro lavoratore, seminatore, viandante, giullare di Dio, fratello di tutti. Amatore degli uccelli (specialmente dei merli e delle allodole) e amatore di Beethoven. Terziario francescano. Tra Ginepro e la minore 'un vincolo infrangibile'".

[10] let. 195, del 24.12.54, p. 330.

[11] cit. in Morozzo dell Rocca, Maria di Campello, cit., p. 70.

[12] let. 1, del 5 marzo 1925, pp. 83.84: nella prima lettera inviata a don Primo, descrivendo le caratteristiche della sua esperienza a Campello parla della piccola comunità di sorelle come "piccola famiglia nell'ombra" (p.84) e come "gruppo di terziarie francescane secolari che viviamo insieme come sorelle" (p.83).

[13] let. 67, del 15.02.46, p.189. Don Primo viene riconosciuto come fratello dell'eremo a partire dal 1941.

[14] M.Maraviglia, Introduzione, p. 32. Ne La più bella avventura del 1934 Mazzolari sviluppa una lettura della parabola del figliol prodigo applicando alla vita della chiesa l'urgenza di conversione ad una accoglienza del lontano e nel contempo il coltivare una attenzione critica al 'vicino'.

[15] let. 37, del 9.06.42, p.134.

[16] Sorella Maria, let. 155 del 4.2.53, p. 290.

[17] let. 98, del 13.12.49, p. 222.

[18] let. 67, del 15.2.46, p. 189.

[19] ibid. p. 189.

[20] let. 65, del 23.10.45, p.183.

[21] let. 54, del 18.8.43, p. 170.

[22] M.Maraviglia, Chiesa e storia in 'Adesso', (1949-1959), Bologna Dehoniane 1991. Cfr. let. 93, p. 217.

[23] let. 65 del 23.10.45, p.184

[24] ibid. p.184.

[25] ibid. p.184: "Quanto si vorrebbe giungere alla semplicità del Poverello".

[26] Così don Mazzolari accennando ad una sua partecipazione alla settimana estiva dei laureati cattolici a Camaldoli: "Quello che ò sofferto a camaldoli, tra quell'aridità insopporabile di schemi e di cuori, non ve lo scrivo. O' reagito sino all'importunità. questa è un po' la mia vocazione e mi sforzo di compirla a qualsiasi costo. Non si può dormire quando il Cristo agonizza" (let. 23, del 3.09.41, p.112).

[27] let. 54 del 18.08.43, p.170 "Seguendo una pia credenza, tutta meridionale, del paese di alcune tra noi, immancabilmente ogni sera prepariamo con cura un po' di pane e una brocca d'acqua per i nostri Trapassati. Dice la commovente credenza che essi vengono nella notte e trovano ristoro in questa nostra sollecitudine d'amore, in questo nostro desiderio bruciante ch'essi partecipino pur sempre al nostro vivere"

[28] cfr. let. 67, del 15.02.46, p.189.

[29] lettera del 1932 cit. in R.Morozzo della Rocca, Maria dell'eremo di Campello, cit. p.77.

[30] let. al papa Pio XII, del 21.06.42, allegato alla let. 38, del 5.10.42, p.146;

[31] let. al papa Pio XII, del 21.06.42, allegato alla let. 38, del 5.10.42

[32] Maria comunica a Mazzolari che di questa lettera non ha avuto risposta. Mazzolari risponderà: "Che Vi rispondano o no, questo à poca importanza. Noi non ci facciamo molte illusioni sul progredire della larghezza spirituale in certi ambienti: ci basta conoscere il nostro dovere di figliuoli e pregare Iddio che ci aiuti a rimanervi fedeli a qualsiasi costo" (let. 39 del 29.10.42, p. 152). Nella let. 148 si attesa di una letterad aparte di G.B.Montini, sostituto della Segreteria di Stato di Pio XII che le comunica la benedizione del papa e una somma di denaro quale soccorso per la situazione precaria dell'eremo (let. 148, p.285-286).

[33] Allegato alla let.29, del 10.12.41, p.125; cfr. anche let.67, del 15.02.46, p.193: "Venite ad attigere alla fontanella del nostro silenzio e della nostra preghiera. E beneditela questa fontanella perché non s'inaridisca mai…" è l'invito che rivolge a don Primo.

[34] M.Maraviglia, Introduzione, pp. 70-74.

[35] E.Bianchi, Prefazione, p.7.

[36] lettera a mons.Celso Costantini cit. in R.Morozzo della Rocca, Maria dell'eremo di Campello, cit. p.75.

Le passioni dell'anima

Giovanni il Solitario, Le passioni dell’anima

Roma, 18 Novembre 2013 (Zenit.org) Robert Cheaib

L’opera della creazione in Genesi 1 si presenta come un ordinamento fatto di distinzioni e di polarità, quasi per invitare l’uomo a imparare a ricreare il proprio universo e la propria vita imitando Dio, mettendo ordine. Quest’arte di riordinare la propria vita e le proprie passioni è stata appresa e insegnata con maestria dai solitari delle varie tradizioni cristiane. Giovanni il Solitario costituisce uno dei grandi maestri della tradizione siriaca in questo campo.

Pur non essendo facile l’identificazione precisa di questo grande maestro, sappiamo della «influenza non trascurabile» che la sua originale dottrina ha esercitato su autori famosi come Filosseno di Mabbug, Giacomo di Sarug, Isacco di Ninive, Giovanni di Dalyata, Giuseppe Hazzaya, ecc.

Il libro Le passioni dell’anima – un classico della cultura monastica siriaca, tradotto per la prima volta in italiano – raccoglie quattro dialoghi di Giovanni il Solitario che testimoniano la facilità e la genialità con le quali ha navigato nell’ambito monastico, spirituale, ascetico e teologico-dogmatico.

Gli argomenti su cui vertono questi dialoghi con Eusebio ed Eutropio sono principalmente – come nota la preziosa introduzione di Marco Pavan – «la scansione della vita spirituale in tre gradi, corrispondenti alle tre dimensioni fondamentali della persona umana: corpo, anima, spirito». È un cammino verso la scoperta, o la riscoperta, di un ordine.

Vi è una capacità percettiva che l’uomo non può esercitare finché è prigioniero dei sensi. «Il corpo non può vedere con gli occhi ciò che non si può vedere se non con la mente». I sensi esteriori, infatti, non possono percepire la profondità dei misteri della creazione e non possono quindi da sé risalire verso «la sapienza nascosta delle creature dell’Onnipotente».

Una metafora efficiente nel pensiero di Giovanni il Solitario mostra la progressione che l’anima vive nell’intelligenza interiore delle realtà spirituali: è la metafora del concepimento del feto nel grembo e della nascita al mondo. Finché rimane al livello fisico o a quello psichico, l’uomo risulta come un feto nel grembo rispetto alla vita futura. Di quel mondo non può sperimentare niente con i propri sensi. Dopo la nascita, però, lo schermo è rimosso e l’uomo può guardare la realtà divina così come è e beneficiare della comunione piena con Dio.