Il più bel canto d'amore

Il più bel canto d'amore - Il Cantico dei cantici tra amor sacro e amor profano

Roma, 19 Dicembre 2013 (Zenit.org) Robert Cheaib

«Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei cantici è stato donato a Israele, perché tutte le Scritture sono sante, ma il Cantico dei cantici è il Santo dei santi», così il rabbi Aqiva, uno dei grandi maestri del Talmud, difendeva la sacralità del Cantico di Salomone. È in un certo senso a lui – umanamente parlando – che va il credito per l’inclusione del Cantico dei cantici nel canone giudaico e di riflesso nel canone cristiano delle Scritture.

A Iamnia (Javneh), dinanzi ai rabbini sospettosi della sacralità del Cantico –  dato il suo carattere particolare come «frammenti di un discorso amoroso», per prendere in prestito un titolo di Roland Barthes – rabbi Aqiva sosteneva che «nessuno in Israele ha mai contestato il Cantico».

Rimaniamo comunque davanti a un testo molto particolare in cui non viene pronunciato il nome di Dio se non una volta sola e in forma idiomatica (Ct 8,6). È un testo che ha avuto una ricchissima storia degli effetti e una strabiliante varietà di interpretazioni. Gli ebrei vi videro la celebrazione dell’amore tra Adonai e il popolo d’Israele. I cristiani, a partire da origene, vi leggevano l’amore tra Cristo e la Chiesa. Nella tradizione monastica, il Cantico sarà parte del linguaggio di meditazione e preghiera personale.

Il monopolio quasi totale della lettura allegorica verrà scosso dall’ascesa dell’esegesi storico-critica che porrà di nuovo il dilemma: cantico spirituale? O canto d’amore profano? Non sorprende in questo clima l’affermazione del teologo e martire luterano Dietrich Bonhoeffer: «Vorrei leggere il Cantico dei cantici come un cantico d’amore terreno. Probabilmente questa è la migliore interpretazione “cristologica”».

Nel libro Il più bel canto d’amore. Letture e riscritture del Cantico dei cantici, Enzo Bianchi raccoglie e presenta un’antologia di letture di «padri della chiesa, teologi, filosofi, scrittori, credenti ebrei e cristiani, non credenti contemporanei, per offrire un saggio delle diverse interpretazioni di questo canto sempre attuale, che diventa linguaggio spirituale o erotico in quanto lo assumono nelle loro storie personali».

Per assaggiare i contributi racchiusi nel volume, lasciamo la parola a Franz Rosenzweig che chiarisce che il senso profano e il senso sacro del Cantico non si escludono a vicenda, ma, anzi, si implicano e si necessitano:

«La metafora dell’amore attraversa, come metafora, l’intera rivelazione. Presso i profeti è la metafora sempre ricorrente. Ma deve essere ben più che una metafora. E tale è solo quando compare senza un “ciò significa”, quindi senza un rinvio a ciò di cui deve essere metafora. Non è sufficiente, dunque, che il rapporto di Dio con l’uomo venga raffigurato con la metafora del rapporto tra l’amante e l’amata; nella parola di Dio deve esserci immediatamente il rapporto dell’amante con l’amata, cioè il significante senz’alcun rimando al significato. E così lo troviamo nel Cantico dei cantici. In questa metafora non è più possibile vedere “soltanto una metafora”. Qui il lettore è posto, a quanto pare, di fronte all’alternativa tra l’accogliere il senso “puramente umano”, puramente sensuale (e certo allora finirà con il chiedersi per quale bizzarro errore queste pagine siano finite in mezzo alla parola di Dio) e il riconoscere che qui, proprio in questo senso puramente sensibile, direttamente e non “solo” metaforicamente si cela il significato più profondo.

[…]

«Non benché, ma proprio perché il Cantico dei cantici era un canto d’amore “autentico”, vale a dire “profano”, proprio per questo era un autentico canto “spirituale” dell’amore di Dio per l’uomo. L’uomo ama poiché Dio ama e così come Dio ama. La sua anima umana è l’anima destata e amata da Dio». 

La misteriosa compassione di Dio

La misteriosa compassione di Dio

Commento sulla Lettera ai Romani di Daniel Attinger

Roma, 08 Marzo 2014 (Zenit.org) Robert Cheaib

Pochi scritti neotestamentari si sono prestati a così tante bandiere come la lettera di san Paolo ai romani. Questa «enciclica» paolina, però, non è una cava da cui estrarre le pietre per comporne mosaici personalizzati a piacimento. La lettera è uno scritto unitario che ha una sua intenzionalità. Come ogni scritto, però, specie se antico, vi è una distanza incolmabile tra autore e lettore. Di questa distanza, Daniel Attinger – autore del volume Lettera ai Romani. La misteriosa compassione di Dio, Edizioni Qiqajon – è ben cosciente.

Il commento che ci presenta questo pastore riformato e monaco di Bose prende atto del fatto che «ogni scritto, dopo che è stato concluso, vive di una sua vita propria determinata anche dall’incontro con il lettore che lo legge con i propri occhi e con il proprio cuore». A partire da questa costatazione, il commento di Attinger si presenta scevro delle intenzioni polemiche e volto a evidenziare il cuore del messaggio paolino ben lontano dalle derive polemiche che pascoleranno nella lettera ai romani nei secoli successivi.

Attinger stesso contestualizza il commento così: «Andando avanti nella redazione di questo commento, mi sono accorto che Romani assomiglia alla Gerusalemme in cui vivo: più la si conosce, più appare impenetrabile, più si percepisce quanti sono i punti dei quali si dovrebbe dire: “Non li capisco”; attira e respinge nel contempo; ti affascina ma, allo stesso tempo, ti fa vedere quanto sei ancora uno straniero, la cui mentalità mai corrisponderà alla sua mentalità».

Ciò non di meno, Attinger individua – come già traspare dal sottotitolo del volume – il cuore pulsante della Lettera: quello della compassione giustificante di Dio che ingloba la lettera dall’apertura (la vocazione di Paolo messo a parte in vista dell’evangelo di Dio, nonché quelli che sono a Roma «amati da Dio e chiamati santi») fino all’epilogo in cui Paolo ribadisce il senso del suo ministero «per le genti, esercitando il sacerdozio dell’evangelo di Dio, affinché le genti siano un’offerta gradita giacché santificata nello Spirito Santo».

Tra libertà e amore

Christian Albini
in Sperare per tutti

            Questo 2015 è un anno giubilare per il monastero di Bose e per il suo fondatore e priore, Enzo Bianchi, di cui oggi cade il compleanno. É stato infatti nel dicembre 1965, alla chiusura del Concilio Vaticano II, che il giovanissimo Enzo iniziò la propria vita monastica sulla Serra d'Ivrea. Alla luce di questo anniversario, risulta ancora più significativa la lettura del suo ultimo libro, Nella libertà e per amore (Qiqajon).

            Il testo appartiene a un ambito forse meno conosciuto dai lettori, rispetto ad altri titoli di Enzo Bianchi, quello delle opere dedicate alla vita monastica come Non siamo migliori e Il mantello di Elia. Eppure, sono tra i suoi scritti più importanti, perché in essi rilegge la vocazione a cui ha dedicato la propria vita. Si comprende, allora, come questo libro assuma un valore di ricapitolazione e di consegna di quanto il suo autore ritiene maggiormente importante dopo essere passato al setaccio di mezzo secolo di esperienza.

Sarebbe sbagliato, però, pensare che quanto scrive abbia valore solo per i monaci. Certo, il monachesimo risponde a un'esigenza di radicalità cristiana che però il Vangelo richiede a tutti i cristiani.

Si tratta di un'esigenza assolutamente universale, di una condizione posta a tutti senza alcuna restrizione, dunque di una “conditio sine qua non” dell'essere cristiani. La radicalità evangelica non è delegabile ad alcune forme di vita religiosa, la sciando ai fedeli il semplice dovere di un'osservanza priva di radicalità. Diverse sono le forme concrete in cui viverla, ma la radicalità della proposta resta unica.

Enzo Bianchi, Non siamo migliori, p. 61

            Il monaco non è "più cristiano" degli altri battezzati e  il Vangelo non "chiede" al monaco più di quanto non chieda agli altri battezzati. L'Evangelo è uno e resta uno e la sequela del Signore o è radicale, almeno nella scelta, o non è. É significativo e non casuale che Bose abbia voluto recuperare, rispetto alla malattia del clericalismo, il carattere di laicità del monachesimo (“Noi siamo semplici laici senza importanza”, come diceva Orsiesi, discepolo di Pacomio).

            Piuttosto, il monaco è segno e memoria per gli altri battezzati del radicalismo cristiano nel suo vivere i consigli evangelici di obbedienza, castità e povertà. Questi ultimi hanno un valore universale, segnano la differenza cristiana in mezzo agli uomini, nel rapportarsi con le cose e con gli altri senza possederli, ma con gratuità, ricevendoli come dono e occasione di comunione. Il monachesimo li vive in una forma specifica, propria che è quella di un proprio modo di vivere le relazioni (il quale si esprime in una vita comunitaria distinta dall'ordinarietà della vita sociale e, in alcuni casi, in quella eremitica) e in un proprio modo di vivere il tempo.

            Rispetto alla relazione, aderire alla vita comunitaria, spiega Enzo Bianchi, è amare l'altro prima di conoscerlo, diversamente da quanto avviene invece nel matrimonio. Rispetto al tempo, il monachesimo è più orientato verso l'attesa della venuta del Signore che verso la storia, verso l'oggi di Dio piuttosto che verso l'oggi degli uomini. Non è una contrapposizione, ma una dialettica. Il monachesimo ci ricorda una qualità diversa dell'esperienza del tempo, ci aiuta a guardare oltre il presente. É un tema su cui rifletto spesso, avendo diversi amici monaci. E mi viene da dire che il mio "servizio" nei confronti del monaco è ricordargli che la sua vocazione non è solo per se stesso, ma per gli altri, per immettere segni di memoria e profezia nella storia. Altrimenti, il monachesimo rischierebbe di divenire una sorta di narcisismo spirituale.

Spero, ora, che si comprendano tre aspetti del testo di Enzo Bianchi su cui vorrei soffermarmi brevemente.

            1. Il monachesimo è un vivere altrimenti (p. 11), nel senso che ho cercato di spiegare. In un mondo ormai massificato e conformista, il monachesimo è forse l'ultima alternativa. O meglio, credo che lo sia il cristianesimo che ha bisogno del monachesimo per farne memoria. Non perché il monachesimo abbia una funzione specifica che non sia quella di vivere il Vangelo, ma perché nell'adesione a una comunità che comporta la rinuncia a un possesso esclusivo di persone, cose, luoghi, il monaco "ricorda" al cristiano che tutte queste realtà non sono da rifiutare. Sono buone, sono dono di Dio, ma vanno relativizzate, non assolutizzate, sono da vivere non per la gratificazione personale, ma per la comunione.

            2. Il monachesimo è un cammino di maturazione spirituale nella vita cristiana. In altre parole, "è una crescita sul piano umano e sul piano spirituale" (p. 25), perché crescere è la vocazione dell'uomo. L'umanità è la prima vocazione. Il cristiano non rifiuta l'umanità, cerca di portarla a compimento. La vita cristiana è umanizzazione, è realizzazione in noi dell'umanità di Gesù, è arte del vivere e del morire. Perciò, il monachesimo, nel momento in cui è libero da ogni altra funzione ecclesiale e sociale, è dedizione a quest'arte. Non nascondo che dai monaci ho imparato a sviluppare l'attenzione a realtà umane fondamentali come il silenzio, l'accoglienza, lo stare a tavola...

            3. Il monachesimo è un vivere nella libertà e per amore. 

Sottolineo questi due termini, perché sono le condizioni assolutamente necessarie per la vita cristiana: in libertate et in caritate. Credo che la tradizione spirituale dell'occidente non abbia sottolineato abbastanza questa duplice indispensabile condizione.

(...) non è la necessità che domina nella vita cristiana, ma è la libertà; non è il caso che vi ha il primo posto, ma è l'amore. Queste due parole, la libertà e l'amore, sono centrali nella memoria che facciamo di Cristo, al punto da caratterizzare l'etica cristiana. Se si vuole camminare alla sequela di Cristo, queste due condizioni sono imprescindibili (p. 26).

            La teologia e la spiritualità cristiana sottovalutano ancora oggi il valore della libertà, colto maggiormente dalla cultura moderna, che però degenera in individualismo, se non trova la sua realizzazione nell'amore. La vita monastica cerca di tenere assieme questi due poli e dispiega così la provocazione antropologica del cristianesimo alla nostra cultura. 

            Questo non significa che sia una vita idilliaca. Il libro ha il suo accento più intimo e personale nei cenni alla separazione e alla sofferenza che sono feriscono anche le relazioni in una comunità monastica. É una manifestazione del nostro limite, della nostra fragilità che non possiamo nascondere e ignorare, perché non siamo onnipotenti. Anche questo vale per tutti noi, ognuno con i propri fallimenti. La vita umana non è determinata dalla sua riuscita, che non è garantita, ma dall'assumersi il rischio di vivere.

            Il libro di Enzo Bianchi, per concludere, non è un trattato a tavolino; è l'espressione di un cammino e di una ricerca. Il valore dell'esperienza di Bose non sta nell'essere idilliaca o perfetta, ma nell'offrire una possibilità di vita buona per chi ne fa parte o anche solo vi transita, attorno alla Parola di Dio letta, ascoltata, ruminata, spezzata. Una vita, lo sottolineo ancora, profondamente umana per come si prende cura di ciò che cresce dalla terra, di ciò che si mangia, della bellezza, degli incontri, degli oggetti, dell'ospitalità. É la possibilità di una vita che dà valore all'umanità, direi meglio. Una vita così, concordo con Enzo Bianchi, non può essere solo una vita buona, correndo il rischio del moralismo, ma richiede un'arte di vivere per tentare di essere anche bella e felice. Insieme agli altri, mai da soli.