Spiritual struggle for church unity
Al disordine della chiesa a Corinto Paolo oppone questo: “La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio” (1Cor 1,18). Al posto di una certa sapienza mondana che ispirò le fazioni a Corinto l’apostolo non può fare a meno di dire: “È piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione” (1Cor 1,21b). In questa o quella eparchia, in questa o quella parrocchia ci si è ridotti a risolvere le difficoltà sorte tra i fedeli con i mezzi della sapienza mondana.
In Galazia la situazione è più grave. Paolo dice: “Mi meraviglio che, così in fretta, da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo voi passiate a un altro vangelo. Però non ce n’è un altro, se non che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo” (Gal 1,6-7).
C’è disordine nell’insegnamento, c’è la volontà di insegnare di predicare un vangelo altro da quello di Paolo. Paolo scrive ai cristiani della Galazia come a quelli di Corinto: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). C’è un’impossibilità radicale di affrontare i conflitti nella chiesa con i mezzi di questo mondo. L’unità sarebbe nel compromesso delle categorie sociali ma non una riconciliazione in Cristo. In alcune parti del mondo ortodosso il vescovo di fatto è un etnarca soprattutto in assenza di ogni catechesi preparatoria a ogni dialogo tra il pastore e il suo gregge che non è sempre sensibile alla fede a cui il presbitero o il vescovo fan riferimento. Ci sono in questo modo nella comunità due linguaggi differenti e, con un po’ di esagerazione da parte mia, una Babele permanente.
Possiamo interrogarci se le divisioni della chiesa non siano la conseguenza dell’infedeltà all’alleanza. È un’interpretazione possibile di Levitico 26,36.37: “Cadranno uno sopra l’altro”. Le terribili maledizioni sono la conseguenza della non-osservanza dell’alleanza da parte del popolo. Ciascuno cerca di salvare la pelle senza preoccuparsi del bene comune. In alcuni luoghi sono i ripiegamenti identitari familiari o politici. Molti battezzati “si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine e una figura” (Rm 1,21b-23). Il dramma di alcune parrocchie è la condanna al silenzio quando in pochi adorano Dio e gli altri, invece, adorano le immagini, cioè se stessi.
Nella lotta spirituale per l’unità della chiesa la credibilità della chiesa in terra è in funzione della sua testimonianza di comunione ecclesiale. Ora, la comunione ecclesiale ha un linguaggio, anzitutto quello dell’amicizia. L’amicizia è il minimo che si possa sperare per istituire un linguaggio evangelico, condizione dell’essere ecclesiale teso necessariamente alla missione.
L’autentica preoccupazione della fede autentica è espressa dalla liturgia di Giovanni Crisostomo con queste parole: “Amiamoci gli uni gli altri affinché nello stesso slancio confessiamo il Padre, il Figlio e lo Spirito santo”. In vista dell’intelligenza della fede coltivate “sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri” (Col 3,12-13).
Con tali disposizioni si impara gli uni dagli altri ad ascoltare la parola di Dio. In altri termini, accettare di divenire sempre di più discepoli di Cristo ascoltando ciò che lo Spirito dice per mezzo del fratello o della sorella. Chi ha parole divine le dica. Perché la chiesa viva, il dono di Dio va condiviso. L’obbedienza al Signore esige che noi riconosciamo la sua volontà per mezzo delle parole da lui deposte nel cuore dei suoi discepoli amati. Ciò richiede una grande umiltà da parte di tutti, in particolare dei gerarchi che devono saper ascoltare ciò che il Signore dice alle chiese, cioè spesso a dei laici dal cuore puro che frequentano abitualmente le Scritture. Accanto ai vescovi e ai presbiteri Dio sceglie chi vuole e gli comunica i misteri del regno e della parola che ci riconforta nell’oggi di Dio.
Un altro mistero della salvezza della chiesa intera è la comune diakonia dei “poveri” che ci dà la certezza di servire il Signore stesso in essi.
Dobbiamo ricordarci che è ai poveri che il regno è predicato, che sono i fratelli minimi di Gesù e che il loro pascolo è Dio. Non c’è manducazione celeste per noi se non viviamo la condivisione con loro. Sono essi quell’altare su cui offriamo un sacrificio superiore all’altare della liturgia, riprendendo un’esaltante espressione di Crisostomo.
Infine, lungo questa via di distacco che prepara all’unità, possiamo essere fondati in Dio solo rinunciando ai nostri interessi personali e al nostro orgoglio confessionale. La verità ti corona e non serve la tua vanità storica quali ne siano le attrattive. In questo senso Paolo parla di coloro che “cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo” (Fil 2,21). Nella medesima direzione diceva di coloro che “predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa” (Fil 1,15), in antitesi a Cristo che “svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,7-8).