Message de Justin Welby, archevêque de Canterbury
TRADUCTION ITALIENNE DU MESSAGE DE L'ARCHEVEQUE DE CANTERBURY
AUX PARTICIPANTS DU XXIIe COLLOQUE OECUMENIQUE DE BOSE
Messaggio dell’Arcivescovo di Canterbury
al Priore Enzo, alla Comunità del Monastero di Bose
e a tutti i partecipanti
al ventiduesimo Convegno Ecumenico Internazionale
di Spiritualità Ortodossa, 3-6 Settembre 2014
Mi fa molto piacere inviarvi saluti nel nome del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo. Questa comunità ha assunto dai suoi esordi come suo unico compito il rafforzamento delle relazioni tra le Chiese. La riconciliazione è stata la sua forza propulsiva.
Il tema di questo ventiduesimo Convegno Internazionale, Beati i pacifici, è più appropriato alla luce di così tante gravi situazioni di conflitto presenti oggi nel mondo. Tali conflitti pongono la Chiesa a confronto con la sfida della realizzazione della pace. Il Convegno è un’occasione per pregare insieme, ma anche per riflettere teologicamente, per condividere testimonianze, informazioni e intuizioni provenienti da molti contesti a proposito di modi efficaci per risolvere il conflitto e favorire la pace. Gli effetti devastanti del conflitto sui civili, e in particolare sulle minoranze religiose in Nord Iraq e in altre zone del Medio Oriente – per menzionare solo una complessa regione di lotta – non ci lasciano indifferenti. La nostra chiamata a essere fedeli al nostro compito cristiano di realizzazione della pace, di essere fautori della pace, è divenuta acuta.
La condizione della pace spesso appare sfuggente e addirittura paradossale. Le parole di Gesù alle beatitudini nel vangelo di Matteo sono: “Beati gli operatori di pace”, e questo carica sui suoi discepoli il dovere di creare attivamente la pace. In Gv 14,27 le parole del Cristo risorto: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace” suggeriscono che la pace è una condizione donata, almeno tra i suoi discepoli. Questo paradosso è risolto se realizziamo che il dono della pace è per noi da rivendicare, ma può realizzarsi, per noi come cristiani e per il mondo, solo se lavoriamo per la pace. Quindi, centrale nella nostra chiamata a essere cristiani nel mondo è essere capaci di sperimentare la pace di Dio ed essere operatori di pace nel mondo. La croce guarisce le relazioni e realizza la pace non solo tra Dio e l’umanità ma anche tra le persone e tra le nazioni. Il sacrificio di sé del Signore sulla croce ha aperto la via alla creazione di questa nuova umanità con il superamento dei muri di separazione dell’inimicizia.
La croce è il sentiero di Dio nel rispondere al conflitto. Essa addita la riconciliazione come cura all’ostilità e alla violenza tra le persone e tra le nazioni, ed si rivela anche nel lavoro per attuare il ristabilimento delle relazioni tra le chiese. Come operatori di pace portiamo gli uni il carico degli altri, ci sosteniamo l’un l’altro e ci manteniamo reciprocamente responsabili di fronte a Dio.
Nel contesto presente in cui siamo più che mai consci dello scandalo e della tragedia della guerra e in cui la speranza sembra distante, siamo messi alla prova nel restare fedeli alla nostra spiritualità centrata sulla preghiera in Cristo e a una visione del regno di Dio in cui ci sono pentimento e rinnovamento, dignità, giustizia, interdipendenza e amore. Cristo innalzato sulla croce comunica al mondo il messaggio di pace e riconciliazione. La pace per i cristiani dunque non è un’opzione ma è il nostro modo di vivere ed è un’espressione dell’essere “in Cristo” (Ef 4,13).
Possano questi giorni di preghiera e di confronti rafforzare la fedeltà all’interno del frammentato corpo di Cristo a una testimonianza globale effettivamente comune come operatori di pace.