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XXX Domingo do Tempo Comum


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23 Outubro 2011
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
Nós temos uma só forma de amar. E o amor ao próximo é a prova do nosso amor a Deus:"...aquele que não ama o seu irmão, a quem vê, não pode amar a Deus, a quem não vê." (1 Jo 4,20) 

Domingo 23 Outubro 2011

Ano A
Es 22,20-26; Sal 17; 1Ts 1,5c-10; Mt 22,34-40

La prima lettura presenta alcune leggi tratte dal più antico corpus legislativo della Torah (il codice dell’alleanza); nel vangelo Gesù, interrogato su quale sia il più grande comando presente nella Torah, risponde citando il comando di amare Dio con la totalità del proprio essere (cf. Dt 6,5; Mt 22,37-38) e accostandovi, come secondo e simile, il comando di amare il prossimo come se stessi (cf. Lv 19,18; Mt 22,39). La Torah, in bocca a Gesù e vissuta da Gesù, è Vangelo.

Le leggi e i precetti presenti nell’Antico Testamento, spesso ignorati o conosciuti male dai cristiani, sono testi di ricchezza perenne (come “perenne” è il valore dell’Antico Testamento per i cristiani: Dei verbum 14) e contengono spesso un importante insegnamento che tende all’umanizzazione dell’uomo. La legge che prescrive al creditore di restituire al povero “al tramonto del sole” il mantello preso in pegno è motivata con una affermazione che esprime la compassione per il sofferente e con una domanda che vuole svegliare l’umanità del creditore nei confronti del misero, che è un essere umano ben prima e ben più di un debitore: “Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle, come potrebbe coprirsi dormendo?” (Es 22,25-26). Qui la legge afferma che la vita di un uomo mette dei limiti a ciò che si è in diritto di pretendere da lui.

La legge che proibisce di opprimere l’immigrato e di sfruttarlo è motivata coinvolgendo il destinatario della legge: “perché voi siete stati immigrati nel paese di Egitto” (Es 22,20). Questa legge chiede un lavoro interiore, chiede di fare memoria delle sofferenze subite dai padri dei destinatari della legge, quando quelli si sono trovati a vivere e a lavorare da stranieri nel paese d’Egitto. La memoria divenuta legge può ispirare un rapporto umano con chi ora è immigrato nel proprio paese.


 

La pagina evangelica pone in stretto rapporto la Scrittura e l’amore. La Scrittura che chiede di amare Dio con tutto se stessi e il prossimo come se stessi si compie nell’amore fattivo e concreto: la prassi dell’amore è compimento della Scrittura, è esegesi esistenziale. Un apoftegma dei padri del deserto narra che abba Serapione, incontrato un giorno un povero intirizzito dal freddo, si sia denudato per coprirlo con il proprio abito e che, incontrato un uomo che veniva condotto in prigione per debiti, abbia venduto il suo vangelo per pagare il suo debito e sottrarlo alla prigione. Tornato nella sua cella nudo e senza vangelo, a chi gli chiese: “Dov’è il tuo vangelo?”, rispose: “Ho venduto colui che mi diceva: ‘Vendi quello che possiedi a dallo ai poveri’”. Il comando diviene grazia, la pagina diviene vita, lo sta-scritto diviene relazione umana.

Il comando di amare il prossimo come se stessi significa anche che, amando il prossimo, io amo veramente me stesso. L’amore per l’altro concreto, con un nome, un volto, un corpo, una storia, mi converte alla realtà e mi conduce a uscire da me, a essere veramente me stesso proprio nell’uscire da me per incontrare l’altro. La nostra verità è personale e relazionale.

Amore degli altri e amore di sé sono spesso contrapporti come ciò che è virtuoso a ciò che è peccaminoso. In realtà, amare gli altri come se stessi implica la capacità di sviluppare e nutrire un sano amore di sé. “Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche se stesso; se può amare solo gli altri, non può amare completamente” (Erich Fromm). Vi è il rischio di un altruismo nevrotico che porta a voler amare gli altri disprezzando se stessi e ritenendo indegno del cristiano l’amore di sé: ma agli occhi di Dio anch’io sono “un altro”, sono un essere umano amato personalmente da Dio, e non ho alcun diritto di disprezzare ciò che Dio stesso ama.

La somiglianza (cf. Mt 22,39) dei comandi di amare Dio e di amare il prossimo è anche la somiglianza dell’amore per Dio e per il prossimo. Noi abbiamo un solo modo di amare. E l’amore del prossimo è criterio di autentificazione del nostro amore di Dio: “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20).

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno A
© 2010 Vita e Pensiero

XXIX Domingo do Tempo Comum


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16 Outubro 2011
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
Na dialética de Jesus, entre César e Deus encontra-se a condição do crente que está no mundo mas não é do mundo, que habita a cidade secular mas espera o Reino de Deus, que vive a pólis mas tem a politeúma, a cidadania nos céus.  

Domingo 16 Outubro 2011

Ano A
Is 45,1.4-6; Sal 95; 1Ts 1,1-5b; Mt 22,15-21

Os domínios de Deus estão no coração da primeira leitura e do Evangelho. Isaías apresenta uma página audaz de teologia da história em que se afirma que Ciro, Rei da Pérsia, logo pagão, foi designado por Deus como Messias, uma extensão da prerrogativa da dinastia Davídica, sem precedentes. A passagem profética sublinha a absoluta liberdade de Deus e a sua unicidade (“Eu é que sou o Senhor. Não há outro”: Is 45,6). O Evangelho mostra como é relativa a autoridade humana (também do Imperador, à época divinizado), diante de Deus. Se a autoridade oficial pode exigir taxas e tributos (cf. Rm 13,7), se à autoridade se deve respeito (cf. Rm 13,7), então o temor deve ser reservado a Deus (cf. 1Pe 2,17), criador e Senhor de cada Homem.

A resposta de Jesus à pergunta-armadilha colocada pelos seus adversários cobre duas possibilidades: evita a politização da imagem de Deus e põe-se à sacralização do poder político. Jesus distancia-se, por um lado, dos Zelotas que consideravam Deus como o "César" legítimo e por outro lado critica a sacralização do poder político desmistificando César. Em ambos os casos estamos diante de tentações idolátricas. No primeiro caso a tentação é de dar a Deus o que é de César (o Estado), caíndo numa posição religiosa totalitária e não dialógica que desrespeita a "laicidade" do Estado e do poder político; no segundo caso a tentação é de dar a César o que é de Deus absolutizando o poder político.

É interessante o comentário que a este respeito fez Søren Kierkegaard, sobre o tema da infinita indiferença de Jesus quando confrontado com César e da infinita diferença que Ele coloca entre Deus e César: "Oh infinita indiferença! Que César se chame Herodes ou Salmanassar, que seja romano ou japonês, isso pouco importa a Jesus. Mas, por outro lado, que abismo de infinita diferença Ele estabelece entre Deus e César”.
As palavras que Jesus responde são importantes, especialmente na segunda parte, quando acrescenta a afirmação– não necessária porque não pedida pela pergunta – do "dar a Deus o que é de Deus". Esta reinvindicação significa que se o Imperador exige para si o que cabe a Deus, como a adoração, o Cristão – atento ao "Importa mais obedecer a Deus do que aos homens" (At 5,29) – não precisa de o fazer, antes, pode mesmo encarar o martirio, mostrando que apenas Deus é o Senhor da sua vida.


 

Tertuliano escreveu: “Quais serão as coisas de Deus que são semelhantes ao dinheiro de César? Refere-se à imagem e à semelhança com ele. Ele ordena de dar o homem ao criador de cuja imagem e semelhança tinha sido replicado" (Contro Marcione IV,38,1). Se o tema da imagem remete naturalmente para o homem criado por Deus e capax Dei, o tema da inscrição encontra-se em Isaías quando assinala a pertença do homem a Deus. Os convertidos à fé no Deus de Israel levarão na mão a inscrição "do Senhor" e dirão: "Pertenço ao Senhor" (Is 44,5). As palavras de Jesus levam cada crente a questionar-se: a quem pertenço? Quem é o meu Senhor?

Na dialética de Jesus, entre César e Deus, encontra-se a condição do crente que está no mundo mas não é do mundo (cf. Jo 17,11.16), que habita a cidade secular mas espera o Reino de Deus, que vive a pólis, mas tem a políteuma, a cidadania nos céus (cf. Fil 3,20). O cristão vive a fidelidade autêntica à terra e à pólis graças à sua reserva e espera escatológica.
Dar a Deus o que é de Deus deve ser entendido, também, como agir para que o mundo - saído das mãos de Deus e confiado aos homens - na sua organização e instituições, possa responder aos requisitos de justiça e direito próprios da praxis messiânica. 

O que é de Deus é também o que é do Homem e no Homem: o Humano. E dar a Deus o que é Seu implica tornarmo-nos a sua própria humanidade, de humanizar o mundo e as suas relações.

LUCIANO MANICARDI

Comunidade de Bose
Eucaristia e Parola
Textos para as Celebrações Eucarísticas - Ano A
© 2010 Vita e Pensiero

XXVII Domingo do Tempo Comum


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2 Outubro 2011
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
Também para o homem longe de ser fácil e imediato, o amor é um trabalho que exige ascese (exercício). Trabalhar eficazmente e amar de forma adulta são dois elementos decisivos para a maturidade humana. 


Domingo 2 Outubro 2011

Ano A
Is 5,1-7; Sal 79; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43

Isaías e Mateus sublinham o tema do fazer: há um fazer de Deus que aguarda uma resposta do fazer humano; aguarda que, particularmente a vinha-de-Israel, dê frutos. A praxis do crente é dar frutos: trata-se de entrar numa relação que fecunda. A actividade, especialmente pastoral, do cristão arrisca-se a ser cega pelo activismo, preguiçosa pela inércia, insipiente como quem tem a "sensação de frio e não tem razões para agir" (Thomas Stearns Eliot). O resfriamento da caridade (cf. Mt 24,12) pode-se acompanhar por um fazer insano, indiscreto e sem discernimento. A fé (confiança) no fazer de Deus pelo homem, logo no seu amor, é a raíz da acção do crente.

O fazer de Deus pela sua vinha é um trabalho (cf. Is 5,2) que exprime o Seu amor (cf. Is 5,1) pelos Homens. O amor é um trabalho, um esforço: o “esforço da caridade” (1Ts 1,3). Também para o homem longe de ser fácil e imediato, o amor é um trabalho que exige ascese (exercício). Trabalhar eficazmente e amar de forma adulta são dois elementos decisivos para a maturidade humana.

O amor divino alimenta uma espera: não espera amor mas justiça (cf. Is 5,7). A justiça humana honra o amor de Deus. O amor que espera qualquer coisa do amado exerce uma violência, ainda que meiga, mas um amor que não espera nada do amado é irreal. 

A primeira leitura e o Evangelho são textos de teologia da história, de releitura da história à luz da fé. Isaías fala do agir de Deus para com o seu povo e a parábola evangélica relê a história do envio dos profetas e da sua rejeição por parte do povo, até ao envio do Filho. Ressalta a dificuldade em discernir o servo de Deus, o Profeta. A alteridade insustentável de Deus torna-se a alteridade do profeta que se traduz numa presença incómoda, imprevisivel, que não se confina aos rótulos de “progressista” ou “conservador”. O profeta é o homem do pathos de Deus e as suas reacções aos acontecimentos históricos e eclesiais desafiam o bom senso e o sentir religioso comuns, parecem por vezes excessivas, não alinhadas, desproporcionadas, dificilmente compreensíveis, insignificantes, sem influência alguma. São por isso, olhados, muitas vezes, como insuportáveis, sonhadores ou considerados como uma presença que se pode dispensar.


  

O comportamento dos trabalhadores a quem é confiada a vinha (cf. Mt 21,33-39) denuncia um perigo constante nas comunidades cristãs: a ocupação do espaço eclesial por parte de quem exerce a liderança (cf. Mt 21,38). Isto acontece quando um grupo de pessoas que tem um papel dirigente, na Igreja, absolutiza a sua visão e pretende fazer das suas opções a regra.

A parábola coloca-nos diante do enigma da violência que pode escandalosamente surgir no espaço religioso. Nos primórdios da Igreja habitualmente a violência não se reveste de formas clamorosas como a violência física, mas de formas mais subtis como a não escuta, a recusa, a marginalização, o desprezo, o não-acolhimento, o desinteresse, a pressão e o abuso psicológico. 

Assim, o agir de Deus que faz do residual humano o fundamento da história da salvação (cf. Mt 21,42), é contradito pelo agir eclesial que cria resíduos e produz marginalizados. É este o agir de Deus: “Deus escolheu os que nada são” (1Cor 1,28). É este o escandaloso agir messiânico e é este que é chamado a ser o agir dos messiânicos, os "cristãos". 

O espanto e o escândalo que a atitude do dono da vinha suscita em nós, depois de ter visto tantos dos seus servos sofrerem a violência, de por fim enviar o seu filho, quase subvalorizando o risco, mostra a nossa distância da forma de pensar de Deus, da radicalidade do seu amor, da loucura da sua gratuidade. 

A entrega da vinha a um povo que a fará dar frutos, não é um juízo sobre a vinha-de-Israel, mas sobre os seus chefes e é também convite e aviso aos seus descendentes a serem fecundos. Nada se substituições (os vinhateiros não substituem a vinha!): nenhuma ideia da Igreja como novo ou verdadeiro Israel surge do texto.

LUCIANO MANICARDI

Comunidade de Bose
Eucaristia e Parola
Textos para as Celebrações Eucarísticas - Ano A
© 2010 Vita e Pensiero 

XXV Domingo do Tempo Comum


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18 Setembro 2011
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
A mormuração não é uma tomada de posição clara que exprime uma divergência leal, mas um movimento subterrâneo que congrega pessoas que ganham força maldizendo e que se exprimem com acusações e queixas. A sua lógica é a cumplicidade e não a responsabilidade.

Domingo 18 Setembro 2011

Ano A
Is 55,6-9; Sal 144; Fil 1,20-27; Mt 20,1-16

A declaração divina transmitida pelo Profeta “Os meus planos não são os vossos planos, os vossos caminhos não são os meus caminhos” (Is 55,8) encontra expressão na parábola evangélica segundo a qual os trabalhadores que trabalharam apenas uma hora na vinha receberam o mesmo salário daqueles que trabalharam todo o dia. No ar escandalizado dos que trabalharam desde as primeiras horas do dia está patente a distância entre o pensar e o agir de Deus e o pensar e o agir dos homens

Esta distância não corresponde nem a um capricho de Deus nem ao seu livre arbítrio, mas à sua misericórdia. O que os trabalhadores que começaram de manhã contestam junto do proprietário é o facto de terem recebido a mesma recompensa daqueles que começaram ao fim do dia. Dizem literalmente: “Estes últimos só trabalharam uma hora e deste-lhes a mesma paga que a nós que suportámos o cansaço do dia e o seu calor" (Mt 20,12). Fazer aos últimos o mesmo do que aos primeiros anula as discriminações e os privilégios. O Deus bíblico é, de facto, o Deus da Graça. Há um trecho da Catequese sobre a Santa Páscoa do Pseudo-João Crisóstomo que exprime bem o primado da misericórdia e da graça sobre a lógica jurídica: “quem trabalhou desde a primeira hora, receba o salário justo; quem chegou depois da hora terça dê graças e faça festa; quem chegou depois da hora sexta não hesite: não sofrerá qualquer dano; quem apenas chegou à hora nona, venha sem hesitar; quem chegou à décima primeira hora, não tema pelo seu atraso. O Senhor é generoso, acolhe o último como ao primeiro, concede o repouso a quem chegou por último como a quem trabalhou desde manhã. É misericordioso tanto para com o último como para com o primeiro".


 

O texto interpela-nos sobre aquilo que está no coração da nossa vida com Deus: a relação ou a prestação? Conceber o serviço a Deus como uma prestação leva-nos a medi-lo e a compará-lo com o serviço dos outros entrando em competição. Se, pelo contrário, existe uma relação com o Senhor, então também o peso do dia de trabalho é "jugo suave e fardo leve" (cf. Mt 11,30) e a bondade do Senhor para com todos é motivo de agradecimento, não de contestação.
A distância entre os pensamentos de Deus e os dos homens é importante de preservar porque impede a operação perversa de identificar os pensamentos humanos com os de Deus.  Esta afirmação contraria a a presunção religiosa que projecta em Deus as suas acções e pensamentos e identifica as sua palavras sobre Deus com Deus e mesmo a sua vontade com a de Deus. O exemplo dado pelo profeta é um convite à humildade do pensamento, em particular do pensamento teológico, do pensamento que ousa "pensar Deus".

Os trabalhadores que chegaram de manhã são desmascarados como invejosos. E a inveja é defenida como ter "mau olhar" (Mt 20,15). A etimologia da palavra esclarece-nos: in-videre, significa “não ver”, “ver contra”, e exprime o olhar cruel de quem se pergunta: “porquê para ele sim e para mim não?";“porquê para mim, que merecia mais, o mesmo que para ele?”. A inveja cega-nos. Se a inveja é a intolerância para com os limites que nos impedem de alcançar aquele status que vemos realizado nos outros, por nós próprios, então deve ser corrigida aprendendo a desejar o possível.  

Na inveja não só não se vê o Deus misericordioso como não se vêem também os irmãos: entra-se numa relação jurídica proprietário - servo, e sai-se da solidariedade para com os outros trabalhadores, para com os outros homens. 

O mal da vida comunitária e eclesial é a mormuração (cf. Mt 20,11). Mormurando, os trabalhadores que chegaram cedo afirmam que o proprietário não tinha o direito de comportar-se da forma como se comportou. A mormuração não é uma tomada de posição clara que exprime uma divergência leal, mas um movimento subterrâneo que congrega pessoas que ganham força maldizendo e que se exprimem com acusações e queixas. A sua lógica é a cumplicidade e não a responsabilidade.

LUCIANO MANICARDI

Comunidade de Bose
Eucaristia e Parola
Textos para as celebrações eucarísticas - Ano A
© 2010 Vita e Pensiero

XXVIII Domingo do Tempo Comum


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9 Outubro 2011
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
Um dos inimigos mais insidiosos e difusos da fé, mais temível até do que o ateísmo e a oposição aberta, é a indiferença. (...) A indiferença coloca o crente numa crise profunda porque diz da insignificância e da irrelevância da vida de fé.

Domingo 9 Outubro 2011

Ano A
Is 25,6-10a; Sal 22; Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14

A perspectiva escatológica atravessa a primeira leitura e o Evangelho: Isaías antevê o fim da morte e Mateus o juízo final (sobretudo em Mt 22,13).

As imagens utilizadas para evocar o acontecimento final, o Reino, a acção com que Deus põe fim à história cumprindo a história, são humanas, humaníssimas: banquete e núpcias. A realidade mais divina é expressa com as imagens mais humanas: convívio e casamento, alimento e eros. São imagens que nos corações dos homens correspondem a uma relação, a um encontro, ao amor, à celebração da vida em torno de uma mesa e no abraço nupcial. A vida espiritual cristã realiza-se não com o distanciamento do humano, quase como se fosse esse o caminho para nos tornarmos mais espirituais, mas com o fazer aquilo que Deus fez: tornarmo-nos humanos, assumir a própria humanidade como trabalho a fazer. 

A imagem profética do Deus que distribui um banquete por todos os povos, preparando alimentos suculentos e carnes gordas remete-nos para o Amor de Deus pela humanidade. Dar de comer a qualquer um significa amá-lo, significa dizer-lhe: "Eu quero que tu vivas", Eu não quero que tu morras". Mas se este dar de comer faz-nos viver mas não nos liberta da morte, Isaías acrescenta que Deus "eliminará a morte", antes, literalmente "devorará a morte", "aniquilará a morte" (Is 25,8). O Deus que dá de comer para todos os povos cumpre uma promessa de vida para toda a humanidade, vida que será "para sempre" (Is 25,8). O banquete preparado pelo Deus que devora a morte, um banquete em que comer é também uma libertação da morte, é simbolo de uma realidade diferente da terrena, uma realidade em que é Deus quem reina e não o homem. Desta realidade é expressão e prenúncio a Eucaristia. 


 

A parábola evangélica é uma espécie de visão teológica de uma fase da história da salvação. Ela fala alegoricamente do evento Pascal messiânico (as bodas do filho do Rei: v.2), da recusa feita aos missionários cristãos por Israel (os convidados indiferentes ou violentos até ao homicídio: vv. 3-6), da destruição de Jerusalém no ano 70 d. C. (o Rei irado que mata os assassinos e incendeia-lhes a cidade: v. 7), da extensão da missão cristã aos pagãos (os convidados que se encontram pelos caminhos: vv. 8-10), do juízo que pesa sobre a Igreja sobre os novos convidados (o homem que não tem o hábito nupcial: vv. 11-13). A Igreja, como Israel, está no horizonte do juízo.

A parábola joga com a dialética do dom e da responsabilidade. O convite é gratuito, mas empenha quem o recebe e exige resposta. O hábito nupcial significa o preço da graça. Há uma resposta que o interpelado é chamado a dar a um convite gratuito, uma sinergia em que deve participar. Muitos são os obstáculos que o homem coloca à chamada. Antes de mais a não-vontade: "...não quiseram comparecer"(v.3). Não basta ser convidado, é preciso querer responder, colocar a vontade ao serviço da chamada. A negligência e a superficialidade de quem não estima o dom recebido, de quem não colhe a preciosidade do dom e fecha-se num horizonte limitado, nos próprios afazeres (v.5). A agressividade e a violência de quem no convite dirigido ou no dom recebido vê apenas intrusão, não a liberdade e a liberalidade, condenando-se à reactividade e à rebelião. A não adesão de quem responde ao convite sem lhe corresponder de facto, sem permitir que o mesmo o transforme, sem entrar numa conversão efectiva (vv. 11-12). 

Um dos inimigos mais insidiosos e difusos da fé, mais temível até do que o ateísmo e a oposição aberta, é a indiferença. Bem expressa no v. 5 pelo desinteresse, pelo não fazer caso do convite recebido, pelo não lhe dar peso algum e por preteri-lo em relação à rotina, às pequenas ocupações, aos afazeres ao próprio interesse. A indiferença coloca o crente numa crise profunda porque diz da insignificância e da irrelevância da vida de fé. Mas, há medida que o crente cai no individualismo, na defesa dos seus interesses e no culto do lucro, também ele se esvazia da vida de fé, mostrando não ter vestido o hábito nupcial.   

LUCIANO MANICARDI

Comunidade de Bose
Eucaristia e Parola
Textos para as Celebrações Eucarísticas - Ano A
© 2010 Vita e Pensiero

XXVI Domingo do Tempo Comum


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Ler mais: XXVI Domingo do Tempo Comum
25 Setembro 2011
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
No Cristianismo o arrependimento é o caminho para aceder à vontade de Deus: "Nós, cristãos, temos o privilégio, em comparação com "os homens do mundo", de dispormos de um meio para nos aproximarmos da verdade: o arrependimento" (Christos Yannaras)

25 settembre 2011

Anno A
Ez 18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32

Prima lettura e vangelo propongono un messaggio sul pentimento. L’uomo ingiusto può desistere dalla sua ingiustizia e agire con rettitudine (Ezechiele); il figlio che in un primo tempo si è rifiutato di andare a lavorare nella vigna del padre, dopo decide di andarvi (vangelo).

L’unità delle due letture può anche essere espressa con le categorie della conversione e della responsabilità.

Il pentimento è attestazione di libertà. Anche il malvagio può cambiare. Questa possibilità di conversione dice che il peccato non è una potenza metafisica che schiaccia l’uomo e che ha su di lui l’ultima parola. Nel pentimento l’uomo ritrova la retta via e “torna” a se stesso e a Dio allo stesso tempo.

Atto di libertà, il pentimento è anche atto di liberazione. Il malvagio che cambia condotta “fa vivere se stesso” (Ez 18,27), dà vita alla sua esistenza, mostrando di non essere schiavo dei precedenti comportamenti.

Che cosa porta il malvagio a cambiare condotta? Com’è possibile evocare il pentimento, questo evento in cui è in gioco il mistero della persona e la coscienza della contraddizione tra sé e sé che conduce al dolore e alla lacerazione interiori? Ezechiele evoca il cammino interiore che conduce al pentimento con le parole: “ha visto” (Ez 18,28, letteralmente; Vulgata: considerans). Che cosa ha visto? In Ez 18,14 si parla del “vedere i peccati del padre” da parte del figlio, che pure non fa della visione dei peccati paterni un alibi per il proprio peccare, anzi, non si lascia generare al peccato dal padre peccatore. Quella visione indica allora la presa di coscienza dei propri peccati, è la dolorosa visione di sé nella non-unificazione, nella divisione profonda. Nel pentimento noi vediamo noi stessi nella contraddizione con noi stessi. E sappiamo di poterci rivolgere a Dio proprio in quella condizione di chi ha il cuore contrito.


 

Nell’odierna parabola evangelica (cf. Mt 21,28-31), il figlio che ha risposto “no” all’invito del padre e poi, “pentitosi”, “avendo provato rimorso”, ha fatto la volontà del padre, rivela che il credere passa a volte anche attraverso un ricredersi. L’obbedienza alla parola e alla volontà di Dio passa a volte attraverso uno smentire la propria parola e la propria volontà. La fede non ci chiede di non sbagliare e di non peccare, ma di riconoscere l’errore e di confessare il peccato.

In quel “ricredersi” c’è il dialogo interiore, c’è la presa di coscienza della realtà, c’è l’audacia di guardare in faccia se stessi, preliminare essenziale per l’agire responsabile. Insomma,  c’è l’inizio del movimento verso la responsabilità, della decisione di passare dall’irresponsabilità alla responsabilità. In questo senso, lungi dall’essere un segno di debolezza, il pentimento è segno di coraggio e di forza. Per quanto sia raro e impopolare, anche nella chiesa, il gesto di chi riconosce di aver sbagliato, di chi ammette di aver assunto posizioni che si sono rivelate poco conformi al Vangelo e muta la propria posizione cercando di essere più fedele al Vangelo, è segno di grandezza umana e spirituale.

Nel cristianesimo il pentimento è la via maestra per accedere alla volontà di Dio. “Noi cristiani abbiamo il privilegio di disporre di un metodo altro, rispetto alla mondanità, per avvicinarci alla verità: il pentimento” (Christos Yannaras).

I due figli della parabola sono entrambi in contraddizione tra il dire e il fare. Ma con una differenza essenziale. Il figlio che dice “no” si espone a un conflitto con il padre, con una persona esterna a lui, e questo lo conduce a prendere coscienza del suo conflitto interiore e a mutare opinione. Cosa che non avviene in chi risponde “sì” e che compiace l’altro, si adagia sull’altro, non si espone conflittualmente all’altro e può evitare di guardare alla tentazione della disobbedienza che abita pure in lui. Per Matteo è evidente che coloro che vivono nel “sì” sono i religiosi (sacerdoti e anziani del popolo: Mt 21,23) che possono non sentirsi bisognosi di conversione perché già “a posto”, a differenza di coloro che invece vivono nel “no”, pubblicani e prostitute, e che possono fare spazio al Vangelo ed entrare nel Regno.

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno A
© 2010 Vita e Pensiero

XXIII Domingo do Tempo Comum


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4 Setembro 2011
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
A fé em Deus torna-se responsabilidade para com os irmãos e esta significa advertência e correcção do irmão: esta é a mensagem que une a primeira leitura ao Evangelho. 

Domingo 4 Setembro 2011

Ano A
Ez 33,7-9; Sal 94; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20

A fé em Deus torna-se responsabilidade para com os irmãos e esta significa advertência e correcção do irmão: esta é a mensagem que une a primeira leitura ao Evangelho.

A correcção fraterna requere um profundo sentido de fé. Este sentido de fé emerge da Palavra de Jesús segundo a qual, a correcção fraterna deve ser praticada no confronto com aquele que "pecou", cometendo uma culpa pública, não dirigida, de modo particular, contra um outro. O texto não diz: "Se o teu irmão pecou contra ti". Naquele caso, dirá Jesús, há um perdão sem limites (cf. Mt 18,21-22). A maturidade da fé consiste em sentirmo-nos feridos pelo pecado enquanto tal e não apenas pela ofensa pessoal.   

 A correcção fraterna opõe-se ao silêncio cúmplice, à preguiça de quem não se quer indispor com o outro, aos mecanismos de auto-justificação sempre prontos a encontrar bons motivos para não intervir e não denunciar o mal onde quer que este tenha sido cometido. A nível eclesial a correcção corresponde a uma palavra audaz e profética pronunciada a qualquer preço, porque no meio está sempre o Evangelho. Um dos mais frequentes pecados de omissão é o de subtrairmo-nos à denúncia do mal e do pecado, é o de subtrairmo-nos à correcção fraterna.
A capacidade de correcção diz muito da liberdade do crente, mas também da sua obediência radical ao Evangelho e da sua pertença a Deus.


 

A autenticidade do amor que brota do Evangelho manifesta-se na capacidade de corrigir aquele que se ama. O amor “espiritual”, não psíquico, vence a tentação de calar o pecado cometido pelo amigo, com medo de perder a sua amizade. A correcção fraterna diz que o amor cristão deve ser vivido com responsabilidade pelos outros e pelo mundo.

A correcção fraterna deve ser vista, também, do lado de quem a recebe, que é sempre um irmão, um membro da comunidade cristã. Implica humildade e disponibilidade para repensar e para recomeçar. A autêntica correcção fraterna não é juízo e muito menos condenação, mas um acontecimento sacramental que faz com que Cristo reine entre quem a pratica e quem a recebe. Ela exige uma palavra de coragem: coragem que nasce apenas quando a nossa palavra radica na Palavra do Evangelho.

Os três "graus" do processo disciplinar de quem pecou, na Igreja (cf. Mt 18,15-17), indicam a prudência e o gradualismo necessários entre a instância evangélica e o irmão pecador a fim de o recuperar. O horizonte da correcção fraterna é o que foi expresso pelo profeta Ezequiel, segundo o qual Deus não deseja a morte do pecador mas que este se converta e viva (cf. Ez 33,11).


A excomunhão (cf. Mt 18,17) aparece como extrema ratio. E certamente a praxis histórica da comunidade poderá e deverá criar e inventar formas de intervenção que evitem o afastamento de um irmão. Impressiona, na Regra de São Bento, o procedimento previsto para interagir com um irmão pecador: “O abade comporte-se como um bom médico: se usou calmantes, as pomadas das exortações, os medicamentos das divinas Escrituras e, por último, o cautério da exclusão ou as vergastadas, e se vê que todo o seu afã de nada serviu, então recorra àquilo que é ainda mais eficaz: a oração, sua e de todos os irmãos, por ele, para que o Senhor que tudo pode, cure o irmão doente” (28,2-5).

A extensão aos membros da comunidade, ou, ao menos aos seus responsáveis, do poder de "ligar e desligar" reservado em Mt 16,19, apenas a Pedro, diz muito sobre a importância da corresponsabilidade no exercício da autoridade da comunidade cristã. E sublinha um princípio importante da praxis da sinodalidade: “o que no corpo eclesial diz respeito a todos deve ser discutido e aprovado por todos".

Se na Igreja existe divisão e pecado, ela encontra a sua unidade no Nome do Senhor: ali, entre dois ou três crentes, porque no NT a Igreja não depende mais do número, pode-se criar a sinfonia (vb. symphonéo: v. 19) que agrada ao Senhor e por Ele escutada.

LUCIANO MANICARDI

Comunidade de Bose
Eucaristia e Parola
Textos para as Celebrações Eucarísticas - Ano A
© 2010 Vita e Pensiero