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I domingo depois do Natal


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30 dezembro 2012
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
A relação especial com o Pai, em que consiste a vocação de Jesus, emerge através de uma dialética de submissão e de liberdade nas suas relações com a família, com a sua mãe e o seu pai (cf v.48) e também através do seu diálogo com os doutores do Templo.

  

  30 dicembre 2012
di LUCIANO MANICARDI

ANNO C

1Sam 1,20-22.24-28; Sal 83; 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52

Il mistero dell’incarnazione non si limita all’evento della nascita di Gesù, ma si estende alla sua crescita fisica, psicologica e spirituale (cf. Lc 2,52), al suo divenire umano nello spazio di una famiglia e di un contesto culturale e religioso preciso (il pellegrinaggio annuale a Gerusalemme, la festa di Pasqua, il tempio, l’apprendimento della Torah con i maestri). Se la vocazione di Samuele viene mediata dalla sua famiglia, in specie da sua madre (cf. 1Sam 1,27-28), la vocazione particolarissima di Gesù, che lo porta a trascendere i legami famigliari, si fa strada attraverso la sottomissione ai suoi genitori. L’istituzione religiosa e quella famigliare svolgono il loro compito quando non ostacolano, ma si pongono a servizio del pieno sviluppo umano e spirituale della persona, dunque dell’espressione della sua vocazione, della sua unicità.

È importante notare come nel rapporto tra il ragazzo Gesù e “i suoi genitori” (v. 41) abbiano trovato posto incomprensioni (v. 50), rimproveri (vv. 48.49), angoscia e dolore procurati dal figlio ai genitori (v. 48). Per quanto il testo sia sfumato, possiamo cogliervi uno spiraglio che consente di intravedere ciò che deve essere stata la reale crescita umana del piccolo Gesù nel suo modesto ambiente famigliare: anche la crescita di Gesù avrà conosciuto tensioni e conflitti, disparità di vedute e di atteggiamenti. Dunque: nessuna visione idilliaca della famiglia di Nazaret, ma la coscienza che attraverso un’umanissima storia segnata anche da sofferenze e fatiche ha potuto svilupparsi l’umanità libera e capace di amore del Gesù adulto e ha potuto dispiegarsi pienamente la sua vocazione.


 

La speciale relazione con il Padre, in cui consiste la vocazione di Gesù, emerge attraverso la dialettica di sottomissione e di libertà nei confronti della sua famiglia, di “sua madre e suo padre” (cf. v. 48), e anche attraverso il suo dialogo con i maestri d’Israele al tempio. Il Gesù dodicenne era vicinissimo a quell’età (tredici anni) in cui il ragazzo ebreo diviene “figlio del comandamento”, ovvero responsabile in prima persona dell’obbedienza alla volontà di Dio espressa nei comandi e nei precetti della Torah. L’affermazione sorprendente di Gesù: “Io devo essere presso il Padre mio” (o “nella casa del Padre mio”: v. 49; la traduzione “io devo occuparmi delle cose del Padre mio” risponde a una comprensione volontaristica e attivistica dell’espressione assolutamente erronea), sottolinea la sua obbedienza radicale al Datore della Torah e a Colui da cui procede ogni paternità, in cielo e in terra (cf. Ef 3,14). E sottolinea l’autonomia e la maturità religiosa del ragazzo.

Saliti a Gerusalemme per la Pasqua, Maria e Giuseppe dovranno tornarvi, una volta terminato il pellegrinaggio, per cercare il loro figlio che avevano smarrito. Lungi dal voler indicare la distrazione dei genitori, questa ricerca, che ha felice esito “dopo tre giorni” (v. 46), allude a un’altra ricerca e a un’altra Pasqua, la Pasqua di resurrezione del Signore Gesù “al terzo giorno” (Lc 24,7.46). E come il Risorto sarà incontrato e riconosciuto dai due discepoli di Emmaus nell’atto di spiegare loro le Scritture (cf. Lc 24,32), così i genitori di Gesù lo trovano mentre al tempio ascolta i maestri e li interroga sulle Scritture. Sempre noi possiamo incontrare Gesù nelle Scritture.


 

Il Gesù che dialoga con i maestri d’Israele suggerisce l’importanza per i cristiani di dialogare (ascoltare e interrogare) con la tradizione vivente d’Israele per meglio conoscere Gesù e incontrarlo nella realtà della sua appartenenza al popolo ebraico.
I genitori devono cercare il figlio, restano stupiti al trovarlo, non comprendono le sue parole; i maestri e coloro che ascoltano Gesù restano stupiti della sua intelligenza e delle sue risposte: tra Gesù e gli ambienti della sua educazione si stabilisce uno scarto che corrisponde al novum che Dio opera e che diviene l’occasione, per i famigliari come per i maestri, di discernere l’intervento divino e di operare il salto della fede. È la dissonanza che permette la scoperta. È nello scarto e nell’asimmetria che avviene la rivelazione.

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno C
© 2009 Vita e Pensiero

IV domingo de Advento


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23 dezembro de 2012
Reflexões sobre as leituras
de LUCIANO MANICARDI
A história da revelação é, também, a história da morada que Deus procura entre os homens. Nesta procura Deus escolhe aquele que é pequeno, aquele que é pobre, isto é aquele que não se impõe: a gruta de Belém é o lugar designado para a manifestação do Messias (Miqueias); o ventre da virgem de Nazaré, Maria, torna-se a morada do Senhor (Lucas); o corpo humano é a morada definitiva de Deus no meio dos homens (Hebreus).

 

23 dicembre 2012
di LUCIANO MANICARDI

Anno C 

Mi 5,1-4a; Sal 79; Eb 10,5-10; Lc 1,39-48a

La storia della rivelazione è anche storia del luogo di dimora che Dio cerca tra gli uomini. In questa ricerca Dio sceglie ciò che è piccolo, ciò che è povero, ciò che non si impone: la piccola borgata di Betlemme è il luogo designato per la manifestazione del Messia (Michea); il grembo della vergine di Nazaret, Maria, diviene luogo di dimora del Signore (Luca); il corpo umano è il luogo definitivo di abitazione di Dio tra gli uomini (Ebrei).
I riferimenti al corpo della partoriente (Michea), ai corpi delle due donne incinte che si incontrano (Luca), al corpo che Dio prepara per il Cristo (Ebrei) offrono la possibilità di una riflessione, pienamente in contesto con l’incarnazione, sul corpo come luogo spirituale, come sacramento della presenza di Dio tra gli uomini.

Il mistero dell’incarnazione non è riducibile all’evento puntuale della nascita. Come ogni uomo, Gesù è portato nel seno di una donna, abita per nove mesi nel grembo di Maria e tale grembo è sua casa, suo cibo, sua vita. Il venire al mondo è anzitutto l’esserci nel corpo di un altro: per Gesù (come per ogni umano) il corpo di una donna è il suo primo mondo. Noi avveniamo nel corpo di una donna.


 

Il testo evangelico è anzitutto celebrazione dell’accoglienza: Elisabetta riconosce in Maria colei che ha accolto la Parola di Dio credendo al suo compimento (v. 45); Maria canta Dio come Colui che l’ha accolta nella sua piccolezza rivolgendole uno sguardo di amore e di elezione (v. 48); nella visitazione, Maria ed Elisabetta si accolgono reciprocamente riconoscendo ciascuna l’azione che Dio ha compiuto nell’altra: la sterile è rimasta incinta e la vergine ha concepito per opera dello Spirito santo. E dietro all’anziana Elisabetta resa feconda vi è anche l’accoglienza delle preghiere di Zaccaria, suo marito, da parte di Dio (cf. Lc 1,13). Il mistero della fecondità è un mistero di accoglienza.

La vita che Maria ha accolto nel proprio grembo diviene inabitazione di Cristo in lei. Questo mistero di maternità ha una valenza spirituale. La preparazione della via del Signore, così importante in Avvento, si declina come preparazione del proprio corpo e del proprio cuore all’inabitazione del Signore grazie all’ascolto della Parola di Dio. Maria è figura del credente che genera in sé il Cristo grazie all’ascolto di tale Parola. Agostino ha potuto scrivere che Maria concepì il Figlio di Dio “nello spirito prima che nel corpo” (Discorso 215,1). E Gesù dirà: “Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21).


 

Maria appare anche figura di colei che, nel suo viaggio verso Elisabetta, porta il Cristo: egli è come una parte di lei in quanto Maria lo porta in sé. Come ogni donna incinta vede riplasmato il proprio corpo dalla presenza di una creatura nel proprio ventre, così la presenza di Cristo riplasma e ri-forma la chiesa che se ne fa testimone, sacramento e narrazione nella propria vita. Il viaggio di Maria appare così con una valenza evangelizzatrice e missionaria.

L’incontro tra le due donne è contrassegnato dal saluto. Esperienza universale, quotidiana e, proprio per questo, spesso banalizzata. Eppure il saluto è legato all’epifania del volto dell’altro ed è già benedizione, augurio di pace (shalom), invito alla gioia (chaîre, “rallegrati”), manifestazione di gioia per l’apparire dell’altro. Recuperare il senso del saluto è un elemento importante della necessaria riscrittura della grammatica delle relazioni quotidiane.

L’incontro delle due madri è anche profezia dell’incontro che avverrà tra i due figli: Giovanni il Battista e Gesù. Attraverso le madri che comunicano tra di loro ma anche con i figli che portano in grembo (Elisabetta sente che il suo bambino ha esultato di gioia al saluto di Maria) già si prepara il terreno a quell’incontro così denso che legherà il Precursore al Veniente. E sia in Giovanni che in Gesù, una volta adulti, si potranno riconoscere le tracce dell’incontro che le due madri fecero un tempo. Perché il passato non è mai solo dietro, ma sempre anche dentro di noi.

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno C
© 2009 Vita e Pensiero

I domingo do Advento


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2 dezembro 2012
Reflexões sobre as leituras
de LUCIANO MANICARDI
Oração e vigilância, colocam o crente diante de Deus e têm uma valência escatológica: vivendo a presença do Senhor hoje, o crente prepara-se para O encontrar na sua vinda

 

2 dezembro 2012
de LUCIANO MANICARDI

Ano C 

Jer 33,14-16; Sal 24; 1Ts 3,12-4,2; Lc 21,25-28.34-36

A perspetiva escatológica, no âmago das três leituras bíblicas, ilumina especialmente a , no texto de Jeremias, isto é,  a confiança no cumprimento das promessas de Deus; na segunda leitura a caridade, em que todos os crentes são chamados a crescer; e no Evangelho a esperança, a esperança na vinda do Senhor que o cristãos alimentam mesmo diante das catástrofes e das contradições da vida. Emerge assim, a dimensão escatológica das veirtudes teologais. O trecho do Antigo Testamento e o do Evangelho pedem-nos para discernir a proximidade da salvação no meio das tribulações e de situações que negam o cumprimento da promessa de Deus.

A vinda do Senhor (aludida apenas em Lc 21,27) é observada por Lucas através das reações que produz nos homens: o drama escatológico, diz Lucas, é também um drama histórico e existencial. Eventos catastróficos na natureza e na história, no céu e na terra, que serão motivo de angústia e perda, de espera ansiosa, de medo e morte para tantos homens, para os crentes poderão ser o sinal da proximidade da salvação. “Alçai-vos e levantai a cabeça porque a vossa libertação está próxima” (Lc 21,28). Levantar a cabeça, significa também "levantar os olhos" e ver o que para muitos permanece invisível: a salvação que sobra entre as tribulações históricas, o Reino que emerge por detrás dos massacres da história, a promessa do Senhor que permanece sólida mesmo quando se acumulam destroços "sobre a terra" (Lc 21,25). Nenhum pessimismo, nenhum interesse em fazer coincidir as catástrofes naturais e históricas, por muito devastadoras que sejam, com o fim do mundo; mas também nenhum cinismo nem fuga da dor do real para nos refugiarmos numa visão espiritualista ou ingenuamente otimista. De resto, para Lucas não apenas os “homens”, isto é “os não crentes”, são submetidos ao risco de serem sobrecarregados, esmagados pelos eventos que devem suceder, mas também os crentes se não estiverem vigilantes e não rezarem (cf. Lc 21,34).


 

Vigiar significa, portanto, lutar contra a angústia (v. 25), contra o risco de acabar dominado pelo medo, por fantasmas e crenças que agem em continuo; significa não cair na angústia, que a Biblia da CEI traduz por “ânsia”, na desorientação, não perder o caminho, não ser afastado pelo que vai acontecendo; significa encontrar força e coragem que impedem que o medo nos paralize e nos conduza à morte (v. 26: “morrerão de pavor”); significa nutrir a esperança cristã, e não nutrir expectativas angustiadas e ansiosas (v. 26).

A vigilância tende a impedir “que os corações se tornem pesados” (v. 34), uma espessura que faz perder a lucidez; reveste-o de uma espécie de couraça que nos defende do sofrimento. A vigilância é uma luta contra os hábitos e contra a sua influência anestésica. A advertência alerta os sentidos e a inteligência, impede-os que se fechem devido à angústia que se afoga facilmente nos excessos de comida e bebida, devido ao medo da morte que se exorciza num desvario de sexo, devido a uma falta de senso que se manifesta em preocupações obsessivas consigo mesmo. É assim que a espera do Senhor que há-de vir pode tornar-se realidade quotidiana, vivida “continuamente” (v. 36). Esperar o Senhor na vigilância e na oração significa fazê-lo reinar no nosso hoje e reconhecer a sua vinda já hoje, aqui e agora. Significa ser robustecido, receber uma força que permite a preserverar nas tribulações e nas provas e discernir nelas a proximidade da salvação (v. 36).

Oração e vigilância, colocam o crente diante de Deus e têm uma valência escatológica: vivendo a presença do Senhor hoje, o crente prepara-se para O encontrar na sua vinda.

O início do Advento, com a indicação de Jesus “Vigiai e orai em cada momento”, é ocasião para o crente verificar a qualidade da sua oração e, mais radicalmente, se, de facto, reza. E interrogar-se sobre a sua oração significa interrogar-se sobre a sua própria fé e sobre a qualidade da sua vida.

LUCIANO MANICARDI

Comunidade de Bose
Eucaristia e Parola
Textos para as Celebrações Eucarísticas - Ano C
© 2009 Vita e Pensiero

XXXIII domingo do Tempo Comum


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18 novembro 2012
Reflexões sobre as leituras
de LUCIANO MANICARDI
O anúncio da vinda do Senhor não deve afastar o crente do hoje, pelo contrário exige-lhe a capacidade de assumir o presente

18 novembro 2012
de LUCIANO MANICARDI

Ano B 

Dn 12,1-3; Sal 15; Heb 10,11-14.18; Mc 13,24-32

A primeira leitura e o Evangelho contêm uma mensagem escatológica: Daniel anuncia o tempo da ressurreição e o Evangelho a vinda gloriosa do Filho do Homem. O acontecimento anunciado, em ambos os textos, é, simultaneamente, de juízo e de salvação.

A escatologia, com a vinda gloriosa do Senhor no seu âmago, é uma dimensão complexa em termos de vida espiritual, mas também em termos de anúncio e pregação. A vinda gloriosa é, antes de tudo, uma palavra em que Jesus se empenha pessoalmente (“As minhas palavras não passarão”: Mc 13,31), é uma promessa do Senhor que exige fé da parte do crente. A Bíblia cristã termina com a promessa do Senhor "Sim, virei brevemente" (Ap 22,20), que, enquanto fecha o livro, abre a história dos cristãos no mundo à esperança e ao futuro. Mais do que o anúncio da vinda do Senhor é parte integrante do mistério cristológico: Cristo já veio, na história, no passado, mas virá também no futuro, no fim da história; é o Verbo que presidiu à criação no “in principio” e Aquele que virá e selará a nova criação escatológica. O Christus totus é também o Cristo que virá: a vinda final é, portanto, instância perene de juízo da Igreja. Aquele que vem é o Senhor da Igreja. Dizer que “o Senhor virá na glória” significa afirmar Cristo como Senhor na história e no tempo. A vinda do Senhor não traz consigo o fim do mundo, mas o seu futuro: enquanto anuncia um final instaura um fim. O Deus revelado por Jesus Cristo é o futuro, não é o falhanço do mundo.


 

O Evangelho sublinha que o anúncio da vinda do Senhor não afasta o crente do hoje, pelo contrário, exige-lhe a capacidade de assumir o presente, a terra onde vive e de amá-la. Uma das palavras mais densas de ternura e de atenção, de Jesus, é o trecho que remata o anúncio dos fenómenos cósmicos que acompanharão a vinda do Filho do Homem: “Aprendei pois a parábola da figueira. Quando já os seus ramos estão tenros e brotam as folhas, sabeis que o verão está próximo." (v. 28). Só, quem realmente sabe observar os ramos da figueira e se apercebe do momento em que brotam os primeiros rebentos pode exprimir-se assim. Só quem ama a terra, esta terra, pode crer na nova terra prometida. Enquanto anuncia o acontecimento escatológico, Jesus pede ao homem que se submeta aos ensinamentos da figueira e assim, de toda a natureza entendida como parábola da história de Deus com o mundo. A fidelidade à terra é a condição para crer e esperar a vinda gloriosa do Senhor.

A vinda é anunciada como certa, mas o seu momento é incerto (v. 32): o crente pode, por isso, assumi-la espiritualmente como uma espera que se pode converter em resistência (isto é, força na adversidade e na tribulação da história: Mc 13,24 e i vv. precedentes), em paciência (isto é, capacidade de viver o incompleto do quotidiano), em perseverança (isto é, recusa em fazer a apologia do pessimismo), em fé que acredita mais no invisível, com segurança e firmeza, do que no visível (cf. 2Cor 4,17-18). “Feliz o que permanecer na expectativa...” (Dn 12,12).


 

O desaparecimento das realidades celestes (cf. Mc 13,24-25) é anunciado como um acontecimento divino, mas o sol,  a lua, os astros e as forças celestes eram, no panteão dos antigos romanos (e Marcos escreve aos cristãos de Roma) entes divinos. Aqui não está representado apenas o fim do mundo, mas o fim de um mundo, a queda do mundo dos deuses pagãos, destronados pelo Filho do Homem. Ao afirmar-se que o fim da idolatria se cumprirá com o Reino de Deus, com a vinda do Senhor, insinua-se que a praxis dos cristãos no mundo pode constituir um sinal do reino de Deus graças à vigilância constante destes para que os ídolos não reinem sobre eles. Provavelmente muitos dos destinatários romanos do Evangelho, antes de se converterem, eram adoradores destes ídolos. Anunciando a sua vinda gloriosa, Jesus pede aos cristãos, como gesto profético, a conversão. Esperar o Senhor significa viver em permanente conversão.

LUCIANO MANICARDI

Comunidade de Bose
Eucaristia e Parola
Textos para as Celebrações Eucarísticas - Ano B
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III domingo do Advento


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16 dezembro de 2012
Reflexões sobre as leituras
de LUCIANO MANICARDI
A conversão pedida por João Batista, que não se esgota em aspetos exteriores, encontra as suas raízes na relação com Aquele que vem, para purificar e para transformar

 

16 dezembro 2012
de LUCIANO MANICARDI

Ano C 

Sof 3,14-18a; Cant. Is 12,2-6; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18

O tema da alegria atravessa as leituras bíblicas deste terceiro domingo do Advento: alegria a que é convidada Jerusalém pela presença salvífica de Deus no seu seio (Sofonias); alegria a que são chamados os cristãos de Filipo diante do anúncio que o "Senhor está próximo" (II leitura); alegria inscrita no Evangelho, na boa notícia que João anúncia: “(João) anunciava ao povo a boa nova (euenghelízeto tòn laón)” (Lucas).

A alegria cristã, não é apenas um facto interior e não se identifica com um sentir de humores, mas está ligado a uma relação com o Senhor e tem um preço: a conversão. Converter-se significa operar uma transformação concreta na própria vida. A pergunta “o que devemos fazer?” na boca das multidões, dos publicanos, dos soldados (vv. 10.12.14), indica a diversidade de gestos concretos de conversão solicitados a pessoas que se encontram em diferentes estádios da vida.

Ao mesmo tempo os pedidos que o Batista faz a cada uma das categorias de pessoas podem ser lidas como elementos constitutivos do caminho pessoal de conversão: a partilha (v.11), o não ser pretensioso (v. 13), o não abusar, o não ser violento (v. 14). Com efeito João não indica “coisas para fazer”, mas pede a cada um que permaneça no seu estado dando espaço ao outro, respeitando o outro, acolhendo o outro e impedindo-o, em absoluto, que tenha ou exerça o poder sobre outros.


 

A partilha implica que não se olhe apenas às necessidades pessoais mas que se tenha em conta as necessidades dos outros e que se faça alguma coisa para as suprir, dando ou partilhando o que se tem. Neste dar emerge a liberdade da pessoa que não é escrava do que tem, mas que tem em vista o bem que é a relação. De forma mais profunda, a partilha é um existir com o outro proibindo-se de pensar e agir sem os outros. O que é partilhado não é apenas o que se possui, mas o que se é. E, na vida cristã, não há amor maior do que o que dá a vida pelos amigos (cf. Jo 15,13).

Não ser pretensioso significa não exigir dos outros o que não se espera que os outros nos dêem, mas sobretudo, significa não nos colocarmos diante deles de forma pretensiosa e arrogante. Exigimos amor, obediência, afeto, tempo, energia, atenção, comportamo-nos como se os outros nos "devessem" qualquer coisa, estivessem ao nosso serviço. Certo, entre os cristãos há um dever, o munus do amor recíproco (cf. Rm 13,8), mas este é o dom que se dá, não que se recebe. Não ser pretensioso significa pois entrar na humildade, na realista aceitação de si e dos outros.

Não maltratar não significa apenas não usar de violência física, mas sobretudo, não abusar de uma posição de força e poder. E sobretudo implica ter a inteligência do outro e da sua vulnerabilidade para não usar a violência diante dele: uma violência que é quotidiana, doméstica, subtil e não se nutre necessariamente de tons ásperos e fortes, mas é também indiferença, mutismo, desinteresse.


 

João não pede gestos radicais como pedirá Jesus, não pede que deixemos tudo e o sigamos mas mostra-nos um grau imprecindível e perene da conversão, um grau muito humano e que não tem necessariamente nada de religioso. Trata-se de assumir a sua própria humanidade e a dos outros, de domesticar os apetites, de assumir os próprios limites e de ter como medida da sua liberdade a liberdade dos outros. Ser ele mesmo consentindo aos outros de serem eles próprios.

A conversão pedida por João Batista, que não se esgota em aspetos exteriores, encontra as suas raízes na relação com Aquele que vem, para purificar e para transformar (v. 17). João, na realidade não é um pregador de moral mas d'Aquele que vem. Neste sentido ele é já um evangelizador (v. 18) porque com a sua pessoa e com as suas palavras ele anuncia o Cristo que vem e, pedindo a conversão, dispõe-se a acolhê-Lo e a conhecer a salvação de Deus. De resto, o Evangelho é um dom exigente, é graça a um preço alto, é amor que nos empenha.

LUCIANO MANICARDI

Comunidade de Bose
Eucaristia e Parola
Textos para as Celebrações Eucarísticas - Ano C
© 2009 Vita e Pensiero

XXXIV domingo do Tempo Comum


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25 novembro 2012
Reflexões sobre as leituras
de LUCIANO MANICARDI
Com reservas diante de Pilatos, Jesus clarifica eventuais equívocos sobre a sua realeza: esta não pode ser entendida como poder de ordem mundana e terreno.

25 novembro 2012
de LUCIANO MANICARDI

Ano B 

Dan 7,13-14; Sal 92; Ap 1,5-8; Jo 18,33b-37

O ano litúrgico conclui-se com a celebração de Cristo ressucitado e elevado aos céus que recebeu do Pai o poder do céu e da terra e estende o seu reino sobre todo o Universo. Deste acontecimento é profética a visão de Daniel e é celebração doxológica o texto do Apocalipse. O Evangelho, apresentando o confronto entre Jesus e Pilatos, ajuda a compreender evangelicamente a qualidade do "reino" de que Jesus é portador. E ajuda a desfazer a ambiguidade de uma festa que celebra o “título” de Cristo (as liturgias antigas não celebravam os títulos de Cristo mas confessavam-os a partir das suas manifestações históricas na vida de Cristo) e que é marcada pelo clima cultural e político da época em que foi instituida (Pio XI, encíclica Quas primas de 1925) e ao qual procurava reagir com uma concepção da realeza de Cristo também como rerum civilium imperium.

Os três textos ajudam-nos a colher as três dimensões do reino de Deus sobre a humanidade. Em Daniel a figura que recebe o poder e o reino (cf. Dn 7,13-14) é uma personalidade corporativa, os filhos do Altíssimo (cf. Dn 7,18), o povo eleito e perseguido, testemunha de fé até ao martírio. O Apocalipse anuncia a parúsia de Cristo, a sua vinda gloriosa; mas parúsia significava, no mundo antigo, a entrada solene do Rei na sua cidade para a tomada de posse. Cristo, com a sua vinda solene, manifestará a sua presença real a cada criatura cujo efeito será o arrependimento: “Todos os olhos o verão, até mesmo os que o trespassaram. Todas as nações da terra se lamentarão por causa dele." (Ap 1,7). Quanto ao confronto entre Jesus e Pilatos, ele precede a entrega de Jesus à crucifixão e a própria cruz será o lugar da paradoxal realeza de Jesus. Cruz, martírio, arrependimento: Cristo revela a sua realeza na cruz e o crente deixa que a realeza de Cristo se manifeste na sua vida através do arrependimento e do testemunho de fé até ao martírio.


 

O episódio de confronto entre Jesus e Pilatos, centrado na realeza de Jesus, é interpretado por 1Tm 6,13 como o evento em que Jesus “deu testemunho numa bela profissão de fé”: a categoria da realeza atribuida a Jesus, deve ser completada por aquele testemunho (martyría) e por aquela confissão de fé (homologhía). A valência pública da fé cristã passa através de uma forma de vida que remete para o mistério divino, aquilo que acontece mediante a martyría e a homologhía.
Interrogado sobre a sua realeza, Jesus afirma ter vindo ao mundo “para dar testemunho (verbo martyréo) da verdade”. Jesus é o testemunho da revelação messiânica, daquela verdade que Ele próprio é (cf. Jo 14,6). A sua realeza é fundada na sua própria revelação que, por sua vez, explica como é acolhida no mundo a sua realeza: é a escuta da sua voz e o acolhimento da sua palavra que permitem ao crente que o Senhor reine sobre si (cf. Jo 18,37). Nem a imposição nem a coerção, nem a sedução nem a manipulação da liberdade do outro são os meios com que o Senhor reina sobre os crentes, mas sim a escuta da sua palavra que exige a liberdade e a responsabilidade do homem e que implica o sujeito no seu todo.   

Com reservas diante de Pilatos, Jesus clarifica eventuais equívocos sobre a sua realeza: esta não pode ser entendida como um poder mundano e terreno. “A minha realeza não é deste mundo” (Jo 18,36). E portanto, não recorre aos meios e serviços deste mundo: força e poder, violência e armas. Se a sua realeza viesse deste mundo, Jesus teria um braço armado, servos armados que combateriam para O defender. A não-violência é um pedaço da realeza de Cristo na história.

Mas Pedro que desembainha a espada para defender Jesus, no momento em que o prendem, ferindo o servo do Sumo sacerdote (cf. Jo 18,10), mostra incompreensão pela realeza de Jesus: erro trágico que se repete de formas diversas na história da Igreja. Erro antigo e sempre novo.

LUCIANO MANICARDI

Comunidade de Bose
Eucaristia e Parola
Textos para as Celebrações Eucarísticas - Ano B
© 2010 Vita e Pensiero

XXXII domingo do Tempo Comum


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11 novembro 2012
Reflexões sobre as leituras
de LUCIANO MANICARDI
O verdadeiro dom não é a oferta de uma coisa, mas simboliza o dom de si próprio, o dom da vida

11 novembre 2012
di LUCIANO MANICARDI

Anno B 

 1Re 17,10-16; Sal 145; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44

Prima lettura e vangelo hanno molteplici richiami reciproci: la povertà come spazio di libertà (non si è tesi a difendere ciò che si possiede) che consente il dono; il rischio e la benedizione del donare (dare tutto ciò che si possiede espone alla morte, ma diviene fonte di vita); il vero dono non è dono di qualcosa, ma simbolizza il dono di sé, il dono della vita. In quest’ottica, anche la seconda lettura, che parla dell’offerta che Cristo ha fatto di sé una volta per tutte, può rientrare nell’unità del messaggio delle letture di questa domenica.

La prima parte del testo evangelico (Mc 12,38-40) è una messa in guardia che denuncia il rischio dell’ipocrisia presso le persone religiose, presso coloro che hanno a che fare con Dio e con le cose di Dio per mestiere e che rischiano di rendere anche Dio una cosa. Invece di servire Dio facendosi servi dei fratelli, essi si servono del religioso per essere serviti e riveriti. Gesù, sulla scia dei profeti, ricorda che si può essere pii e omicidi, religiosi e impostori, zelanti e crudeli, devoti e lussuriosi. Costoro fanno della vita di fede un’impudica esibizione: essere visti dagli uomini, primeggiare, curare l’esteriorità, sono i contrassegni di queste persone che dimenticano la dimensione nascosta della vita di fede. Il loro orizzonte è ateo: il riferimento per loro decisivo è lo sguardo degli uomini, non di Dio.


 

Dopo le parole profetiche di Gesù, ecco anche il suo sguardo profetico. Egli guarda “come” la gente gettava monete nel tesoro del tempio e sa vedere ciò che gli altri non vedono o sa vedere altrimenti ciò che gli altri vedono. Egli vede l’offerta gradita a Dio nel dono povero della vedova che getta due spiccioli, mentre vede il dono del superfluo nelle offerte abbondanti di molti ricchi. La profezia è anche questo sguardo altro sulla realtà che discerne il male o l’ipocrisia dove altri vedono e ammirano generosità, e vede il bene dove altri non vedono nulla o in ciò che altri ritengono inutile e indegno di considerazione.

Il testo interpella il credente sul come egli dona. “Dio ama chi dona con gioia” (2Cor 9,7): chi dona con gioia trova infatti la sua ricompensa non nello sguardo ammirato degli altri uomini, ma nell’amore di Dio. Donare diviene così esperienza di essere amati da Dio più che espressione di protagonismo di amore. Donando, noi entriamo nel cuore della vita, nella sua dinamica profonda, che è appunto dinamica di dono. E così conosciamo la gioia, che è gratitudine e senso di pienezza: “Vi è più gioia nel donare che nel ricevere” (At 20,35).

Il dono ha a che fare con la vita, e perciò anche con la morte. Il dono della vedova è dono totale, di “tutto quanto aveva per vivere” (Mc 12,44), dunque espone al rischio della morte. Il suo dono è “olocausto”, sacrificio vissuto nell’esistenza, offerta della propria vita a Dio (Rm 12,1: “offrite i vostri corpi come sacrificio vivente”) ed espressione di amore di Dio con tutto il cuore, l’anima, le forze (cf. Mc 12,30). Dare vita è anche donare la propria vita, perdere la propria vita. Invece il dono dei ricchi che danno del loro superfluo evita il rischio della morte ma mette a morte la dimensione simbolica del dono.


 

 Ultimo episodio prima del discorso escatologico di Gesù (Mc 13) e della sua passione, morte e resurrezione (Mc 14-16), il brano dell’obolo della vedova prepara la rivelazione cristologica del dono di sé che Gesù compie nel suo amare i suoi fino alla fine, ma assume anche una valenza ecclesiologica in cui la povera vedova che dona tutto diviene figura della chiesa. Una chiesa che nella povertà ha la sua ricchezza, perché solo la povertà genera la libertà e il coraggio con cui donare seguendo il Signore nel dono che dà vita e di cui è garanzia il “non possedere né argento né oro” (cf. At 3,6). Altrimenti si seguono logiche mondane di paura, di ricerca di beni e fondi che tolgono la libertà, creano dipendenze e fanno sì che “non possiamo più dire allo storpio: alzati, perché siamo pieni di argento e oro” (Card. Girolamo Seripando al Concilio di Trento).

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno B
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