On ne nait pas chrétien, on le devient
Certo, non troveremo nella Bibbia una trattazione esplicita del tema della paternità spirituale, così caro alla tradizione monastica d’Oriente e d’Occidente. E tuttavia i padri del tutto naturalmente scorgono nella Scrittura stessa il fondamento di questo ministero: “Non vi è altra via sicura di salvezza che quella di manifestare i propri pensieri ai padri” scrive Giovanni Cassiano, e precisa: “La verità di questo ci è possibile apprenderla da molti passi delle Scritture ispirate, in particolare dalla storia del santo Samuele”. Secondo Niceta Stethatos la “nascita dall’alto” di cui si parla nel dialogo tra Gesù e Nicodemo (cf. Gv 3,3) “si attua grazie alla sottomissione ai padri spirituali”, e la Scrittura santa offre il modello di questa generazione nello Spirito: “Così i dodici sono nati da Cristo e i settanta sono nati dai dodici e sono divenuti figli di Dio Padre” (Capitoli naturali 53).
Nell’Antico Testamento, il primo rapporto che potremmo definire tra padre e figlio spirituali, quello tra Mosè e Giosuè, contiene già in nuce gli elementi fondamentali di una relazione di paternità spirituale: Mosè trasmette a Giosuè gli ordini di Dio (cf. Dt 3,21-28), gli assicura che il Signore camminerà davanti a lui, non lo lascerà e non lo abbandonerà (cf. Dt 31,8 e 34,9). Ascoltando Giosuè ormai si ascolta Mosè: ecco la trasmissione, l’autentica traditio da padre a figlio, che ispira il celebre assunto con cui si aprono i Pirqè Avot, i Detti dei padri della tradizione rabbinica: «Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti, e i profeti la trasmisero agli uomini della grande assemblea» (Mishna Avot 1,1).
Se con Mosè e Giosuè si ha il prototipo della relazione maestro-discepolo, i padri guardavano soprattutto al modello offerto dal racconto biblico della vocazione di Samuele, mediata dal suo maestro Eli.Mentre Samuele dorme presso l’arca del Signore, per tre volte si sente chiamare per nome; solo alla terza volta Eli comprende e gli dice: «Se ti si chiamerà ancora, dirai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”» (1Sam 3,9). È un’affermazione straordinaria che riassume in sé mirabilmente il movimento della preghiera e, più in generale, della nostra relazione con Dio: l’ascolto è già preghiera e ha un primato assoluto in quanto riconosce l’iniziativa di Dio. Eli nella sua povertà compie l’essenziale: si fa mediatore della parola di Dio per Samuele e lo aiuta a discernerla. Questa virtù del discernimento, che comporta per chi lo esercita un decentramento del proprio io di fronte alla Parola di Dio, è la virtù che la tradizione riconoscerà come il cardine della paternità spirituale: se il padre spirituale assume la propria debolezza e nella piena coscienza dei propri limiti è disposto a mettersi con fedeltà al servizio del Signore e del discepolo, anche attraverso la sua pochezza il Signore farà passare la sua voce. A Eli va il grande merito di aver compiuto ciò che più tardi Palamone esprimerà così al giovane Pacomio: «Sarò pronto nei limiti della mia debolezza a soffrire con te finché tu conosca te stesso» (Vita bohairica di Pacomio 10).