A razão de ser de uma Regra e como pô-la em prática


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2 Outubro 2009
Paris, Collège des Bernardins
ENZO BIANCHI
Cada Regra é avaliada, apenas, pela sua fidelidade ao Evangelho, pela seu potencial para ser sinal (texto integral em italiano)

Paris, Collège des Bernardins, 2 octobre 2009

Colloque international 8e centenaire de l’Ordre franciscain

«François d’Assise… Aujourd’hui»

Enzo Bianchi, Priore di Bose

LA RAISON D’ÊTRE D’UNE RÈGLE ET SA MISE EN ŒUVRE

Introduzione

Ringrazio gli organizzatori di questo Colloquio internazionale per l’invito che mi hanno rivolto con molta fiducia. Io ho accettato con gioia, per l’occasione concessami di poter ancora una volta interrogarmi intorno alla vicenda e alla figura a me carissima di Francesco d’Assisi.

Devo però confessare che, dopo aver accolto questo invito, mi sono sentito insipiente, non sufficientemente capace di esprimere la ragion d’essere di una Regola nella vita religiosa. Vi chiedo dunque perdono per la mia audacia, rivolgendovi nel contempo questa preghiera: accettate semplicemente ciò che mi ha suggerito la rilettura degli inizi della mia comunità, l’aver a lungo frequentato le Regole monastiche d’oriente e d’occidente, l’aver osato scriverne a mia volta una, confrontarla con dei fratelli e delle sorelle e quindi assumerla come Regola che esprimesse la nostra forma vitae, forma di una vita comunitaria monastica.

1. La vicenda di Francesco d’Assisi e la sua Regola

Nel Testamento che Francesco d’Assisi ha scritto, o meglio ha dettato, nel 1226 alla vigilia della sua morte noi abbiamo – come dice egli stesso – una recordatio, un’admonitio, un’exhortatio lasciata ai fratelli come testamento spirituale «affinché osserviamo più cattolicamente (melius catholice) la Regola che abbiamo promesso al Signore» (Test. 34). Certamente questo ultimo scritto di Francesco può essere considerato il più autentico, oltre che il più autoritativo insieme alla Regola, alla quale deve sempre essere tenuto accanto («Sempre tengano con sé questo scritto insieme con la Regola»: Test. 36): esso va considerato alla stessa stregua della Regola, va conservato intatto, senza togliervi o aggiungervi nulla, proprio come la Regola.

In questo Testamento Francesco fa un’anamnesi della sua vita, mettendo soprattutto in evidenza l’inizio della sua penitenza, con l’andare in mezzo ai lebbrosi (cf. Test. 1-2), e l’inizio della vita comune, quando il Signore gli donò dei fratelli e gli rivelò che doveva vivere secondo la forma del santo Vangelo (cf. Test. 14): «E io con poche parole e semplicemente (paucis verbis et simpliciter) lo feci scrivere e il signor Papa me lo confermò» (Test. 15). Con pochissime parole, senza alcun dettaglio di circostanza Francesco racconta e confessa la genesi della sua vocazione, il prender forma di una vita conforme al Vangelo e la stesura di una Regola. La narrazione è semplice, laconica, eppure è densa di significato e sa narrare la parabola di una fondazione. C’è stato per Francesco un cammino molto lungo che egli chiama di penitenza, di conversione: sono stati anni di maturazione cristiana e di discernimento della volontà del Signore, anni che Francesco sente segnati soprattutto dall’essere stato condotto dal Signore tra i lebbrosi. Questa esperienza di carità, che egli sapeva portare con sé (forse addirittura spinto da essa) nelle chiese in cui entrava per adorare il Signore e benedirlo, contemplando la croce con cui il Signore aveva redento il mondo, è stata il crogiuolo della maturazione della vocazione di Francesco.

«E poi stetti un poco e uscii dal mondo» (Test. 3). La rivelazione è avvenuta: egli doveva vivere secondo la forma del Vangelo, doveva fare una vita conforme al Vangelo, anzi una vita il più possibile conforme a quella vissuta umanamente da Gesù. Iniziando a vivere questa conformità, Francesco è un’immagine, un’icona visibile di penitente; non solo, ma appare anche come interprete di un desiderio che albergava in altri cristiani di Assisi. Per costoro Francesco sa raccontare con la sua vita la «vita evangelica» che essi pure desiderano: sentendolo affidabile, essi «vanno con lui», si lasciano coinvolgere nella sua vita.

In questa novità Francesco legge un dono di Dio: «E dopo che il Signore mi donò dei fratelli, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare» (Test. 14). Parole, queste, che dicono la solitudine di Francesco e dei suoi primi seguaci, ma dicono anche una verità: ciò che questi uomini vivevano come inizio di un’avventura cristiana non era debitore verso qualche forma di vita religiosa esistente né verso la gerarchia cattolica. Quell’urgenza di «vivere secondo la forma del santo Vangelo» era un impulso che veniva dal cuore, dunque una rivelazione, nel senso che Dio aveva alzato il velo sulla sua volontà e l’aveva fatta conoscere a Francesco.

«Vivere secondo la forma del santo Vangelo» è certamente un’eco della formula presente nella Regola di Benedetto – camminare «per ducatum evangelii, sotto la guida del Vangelo» (Prologo 21) –; questa istanza non è una novità assoluta, perché la sequela Christi è il tema che attraversa e fonda tutte le forme della vita religiosa. Ma qui in Francesco essa assume una particolare radicalità: ciò che è decisivo è la forma, che significa il contenuto e lo stile della sequela di Cristo. Francesco e i suoi primi fratelli – occorre dirlo – cercano di vivere come Gesù aveva vissuto in Galilea e in Giudea: avendo abbandonato tutto (casa, famiglia, campi…); lavorando con le proprie mani; esortando gli uomini alla conversione; vivendo la fraternità come relazione che ha il primato su tutto.

E non appena giunse una certa consapevolezza di quella forma vitae come forma non saltuaria, non episodica, Francesco «lo fece scrivere con poche parole e semplicemente»: ecco dunque quella che possiamo chiamare la Protoregola. Essa è a noi sconosciuta, poiché non ce ne è giunta una testimonianza scritta, ma doveva essere un propositum vitae breve e semplice, nel quale apparivano forse determinanti le frasi del Vangelo capaci di esprimere la forma della vita fraterna. Nella Vita prima di Tommaso da Celano si legge questa informazione:

Il beato Francesco, vedendo che di giorno in giorno aumentava il numero dei suoi seguaci, scrisse per sé e per i frati presenti e futuri con semplicità e brevità (simpliciter et paucis verbis) una norma di vita o Regola composta soprattutto di espressioni del Vangelo, alla cui osservanza perfetta continuamente aspirava. Ma vi aggiunse poche altre direttive indispensabili per una santa vita in comune (Vita prima 32).

Ecco dunque la Protoregola, quella che Francesco verso il 1209 porta al Papa insieme ai suoi compagni e sulla quale si dice che abbia ricevuto da Innocenzo III una conferma, un’approvazione orale. A noi resta difficile fare ipotesi sul contenuto di questa Protoregola, e gli studiosi sono ben lontani da una convergenza di risultati in merito; nemmeno io dunque mi attardo su tale questione, restando fedele a ciò che mi è stato richiesto, ovvero una riflessione sull’evento di una nuova Regola, che si celebra in questo Convegno. In ogni caso, si può dire che questa Protoregola non è stata certamente smentita né dalla Regola non bollata scritta circa dieci anni dopo (1221), né dalla Regola bollata (1223) confermata dalla santa chiesa romana.

2. Perché una nuova Regola?

Se si conosce la storia della vita monastica e poi della vita religiosa, si è consapevoli della pluralità delle Regole scritte, lasciate come eredità e talvolta giunte fino ai nostri giorni. Possiamo brevemente ricordare come a partire dal IV secolo le diverse fondazioni monastiche siano accompagnate da alcuni scritti legislativi o canonici, sovente sotto forma di Regole in occidente o di Consuetudini in oriente. Si potrebbe dire che ogni fondazione ha una propria legislazione che detta la forma della vita comunitaria, che le Consuetudini differiscono da una comunità all’altra e che solo l’occidente vede imporsi alcune Regole, soprattutto quelle di Benedetto e di Agostino.

Va però precisato che almeno fino al Concilio Lateranense II (1139), pur essendo necessario vivere sotto una Regola, non era richiesta per essa alcuna approvazione canonica: vi era la libertà di regolare la propria vita monastica secondo l’ispirazione del fondatore. Solo il Concilio Lateranense IV (1215) esige che i nuovi fondatori assumano una delle Regole già approvate, o meglio attestate e diventate canoniche, affiancando ad esse norme particolari inerenti la nuova fondazione. Fu così, per esempio, che i domenicani e i servi di Maria dovettero assumere la Regola di Agostino. A Francesco però, forse in virtù dell’approvazione orale ricevuta da Papa Innocenzo III nel 1209, fu concesso di assumere per la sua comunità una nuova Regola, quella scritta da lui stesso con l’aiuto di alcuni suoi fratelli.

E così possiamo porci la domanda: perché una nuova Regola? È chiaro che per tutti i fondatori, anche se in maniera diversa e con maggiore o minore intensità, lo scrivere una Regola significa da un lato porre uno scritto che sia ispirato al Vangelo e che traduca le esigenze del Vangelo nella vita di un gruppo di uomini o di donne; dall’altro significa abbozzare una forma di vita che dia il volto alla nuova comunità. Va detto con chiarezza: per tutti i fondatori la Regola suprema, la Regola delle regole resta il santo Vangelo. Questa coscienza è stata testimoniata in modo mirabile dalla Regola di Grandmont (1076), nella quale si afferma:

Diversi padri ci hanno raccomandato diverse vie, in testi chiamati Regola di san Basilio, Regola di sant’Agostino, Regola di san Benedetto. Tali Regole non sono però la sorgente della vita religiosa ma ne sono dei derivati (propagines); non ne sono la radice ma le fronde; non ne sono il capo ma le membra. Per la fede e la salvezza esiste solo una Regola delle regole prima e principale, da cui derivano tutte le altre come ruscelli dalla sorgente: è il santo Vangelo, … Regola prima e principale della religione cristiana, cioè il Vangelo sorgente e principio di tutte le Regole (Regola di Grandmont [CCCM VIII,66-67]).

Se questo principio non è mai stato contestato e se è affermato in modo più esplicito e forte da Francesco nella Regola non bollata – «Questa è la vita del Vangelo di Gesù Cristo che frate Francesco chiese che dal signor Papa Innocenzo gli fosse concessa e confermata» (Prologo 2) –, è tuttavia sempre presente in ogni fondazione.

In relazione a questa istanza, la genesi di una nuova Regola può essere così sommariamente indicata: nel cuore di un cristiano alberga il desiderio di una sequela radicale di Cristo, il voler riprodurre in modo fedele e conforme la sua vita, la vita di Gesù insieme ai suoi discepoli, quella vita che ci viene narrata dai vangeli e che è ripresa è vissuta anche dagli apostoli dopo la Pentecoste, come ci testimoniano i cosiddetti «sommari» degli Atti degli apostoli (cf. At 2,42-45; 4,32-35). Certamente questo desiderio di sequela si sintetizza mediante parole contenute in alcune pagine del Nuovo Testamento. Per Antonio e per molti altri fino a Francesco questa forma vitae Jesu è soprattutto eloquente nella chiamata rivolta da Gesù a un uomo: «Va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» (Mt 19,21; cf. Regola non bollata 1,2; Regola bollata 2,5), oppure nelle parole dette ai dodici o ai settanta discepoli inviati a predicare (cf. Lc 9,1-6; 10,1-12; Regola non bollata 14). Per Pacomio e Basilio la vocazione riconosciuta come chiamata alla forma comunitaria appare descritta nei sommari degli Atti degli apostoli evocati poc’anzi, quei testi che descrivono la koinonía apostolica. Anche a Bose, dopo l’arrivo dei primi fratelli e sorelle decidemmo di adottare come Regola i versetti dei sommari degli Atti, ritenendoli sufficientemente indicativi di quella koinonía che poteva unire in un unico, convergente progetto i primi membri della fraternità.

L’esordio di una fraternità è sempre segnato dall’attrazione del Vangelo e, al suo interno, di alcune pagine che ispirano la vita comune, o una forma di missione nel mondo, o una diaconia da viversi nei confronti dei bisognosi. In questo modo per alcuni anni il gruppo iniziale cerca di vivere facendo soprattutto riferimento a colui che è l’iniziatore, a colui che è stato raggiunto dagli altri. L’iniziatore appare come colui che porta in sé la capacità di dare voce alla sensibilità convergente dei primi membri, che permette agli altri di vedere in modo più chiaro un progetto di vita per loro ancora confuso, che precede gli altri con realizzazioni di forme di vita che si ispirano alla tradizione o nascono dalla lettura dell’oggi culturale e storico.

Quello iniziale è un periodo di gestazione a volte faticoso, anche se normalmente è vissuto con convergenza ed entusiasmo; va anche detto che sovente in questa fase si registrano sovente rotture, abbandoni o distacchi per percorrere altre forme di sequela. È un tempo in cui l’incontro e lo scambio si mutano in condivisione, in cui la ricerca si fa comune, in cui la fraternità come legame tra uguali diventa consapevole. Soprattutto la povertà iniziale, la mancanza di mezzi, la diffidenza da parte della chiesa e una certa incomprensione o ostilità da parte della famiglia e della società aiutano i membri del gruppo non solo a coagularsi, ma a motivare in profondità le scelte e gli atteggiamenti che essi assumono, e a fare questo nell’oggi, nel presente. Va riconosciuto che a volte l’esito di questa fase è un’ipotesi settaria, «a-nomica»; a volte è la creazione di un gruppo talmente fusionale che non riuscirà più ad allargarsi, soprattutto se riprodurrà l’archetipo familiare con relazioni di prossimità non compatibili con il celibato. Nello stesso tempo è anche vero che, se l’iniziatore possiede un buon equilibrio umano, è possibile che fiorisca un progetto di vita religiosa.

In questo tempo anche la relazione tra i primi fratelli muta e cresce: se l’iniziatore riceve la fiducia dei fratelli e permette che la relazione con lui sia segnata da libertà e da affetto fraterno, allora avviene una fermentazione dinamica che porta a una maturazione comunitaria segnata dalla condivisione del progetto comune. E così giunge l’ora della Regola. Il gruppo che ha sperimentato anche brevemente una forma vitae e la sente aderente ai propri desideri e conforme al Vangelo – che resta, lo ripeto, la causa ultima dell’avventura intrapresa –, questo gruppo, consapevole di una novità di vita che non può essere descritta da una delle Regole precedenti, pensa di dover descrivere brevemente e con semplicità ciò che vive nella forma di una Regola che fissi il minimo indispensabile per una vita comune. Mi si permetta qui di citare la Regola di Bose:

[Fratello, sorella,] la presente Regola è un aiuto per te, uno strumento per vivere il Vangelo e soprattutto un mezzo di comunione fraterna. Essa vuole essere per te non una legge ma una descrizione di vita senza la quale non si può edificare una comunità e non ci può essere creazione comune. È su questa Regola che tu misurerai la tua appartenenza alla comunità, è con essa che tu cercherai di confrontare il tuo cammino rispetto a quello degli altri. Non avere paura di queste direttive comuni (Regola di Bose 5).

La Regola nasce così, dal bisogno di avere un testo che fissi la forma vitae della comunità, che sia eloquente del progetto abbozzato e iniziato dai primi fratelli. Ciò che appare nuovo nella forma di vita viene messo in evidenza come indicazione cui tutti si sottomettono, mentre ciò che permane della tradizione della vita religiosa antecedente è letto come un’appartenenza a un’esperienza che è venuta prima e che non può essere né tralasciata né rifiutata.

Ma dell’evento costituito dalla Regola occorre in particolare mettere in risalto due effetti. Innanzitutto, quando sopraggiunge la Regola, essa diventa il centro egemonico della comunità: è la Regola a cui tutti si sottomettono, compreso il fondatore. È un evento importantissimo che decentra il fondatore e fa sì che la comunità si dia un’autorità oggettiva alla quale anche chi ha scritto, generato, o presieduto alla stesura della Regola si sottomette. Inutile dire che, se il fondatore non consegna una Regola, sarà lui la Regola per i fratelli, come negli insediamenti anacoretici dei padri del deserto: in questo caso però non può esserci una creazione comune né una fecondità del progetto. Inoltre quando manca la Regola è più facile la tentazione di tirannia, di prepotenza da parte dei fondatori oppure l’esito di un gruppo diasporico con elementi anarchici, a volte integrati, a volte invece causa di divisioni o fratture.

In secondo luogo, per quanto attiene più specificamente alla Regola si tenga presente che la sua qualità è determinante per il futuro della comunità: se è troppo breve e non descrive sufficientemente la forma vitae, è il fondatore che resta il legame decisivo tra i fratelli, e la sua scomparsa può innescare movimenti centrifughi e di dissoluzione. Se invece la Regola è troppo estesa e precisa, allora rischia di cristallizzare le forme, di fissarle in una precisione che non sopporta una dinamica né un adeguamento a nuove situazioni: in questo caso la Regola perderà la sua forza performativa.

Certamente le Regole possono attraversare decenni e secoli, come ci mostrano numerosi esempi. La Regola di Benedetto resta normante dopo un millennio e mezzo e appare ancora un venerabile strumento di vita cenobitica, anche se va riconosciuto che molte sue parti non sono più lette neppure nel capitolo dei monasteri benedettini. La Regola di Agostino pure ha attraversato i secoli, ma significativamente nella sua essenzialità è stata Regola monastica e Regola per gli ordini mendicanti. La Regola di Francesco ha avuto una vicenda particolare, sia a causa dell’approvazione papale sia per quanto riguarda la sua interpretazione lungo i secoli, ma questi elementi esulano dal tema della mia relazione.

Conclusione

Ripeto la domanda che mi sono posto all’inizio della seconda parte: perché una nuova Regola, quando sono già operanti nella vita religiosa diverse Regole per i monaci cenobiti, per la vita religiosa itinerante, per la vita religiosa diaconale? E potremmo continuare con altri interrogativi. Perché oggi, nell’effervescenza del rinnovamento dovuto al Concilio Vaticano II, si sono scritte nuove Regole, alcune delle quali si presentano come un testo illuminante e ispirante? E perché alcune di queste Regole non hanno assicurato la sopravvivenza alle comunità oltre qualche decennio? Vorrei almeno ricordare che Regole come quelle dei Frères de la Vierge des Pauvres (1965), quella Per un monastero semplice e attuale di García M. Colombás (1966), quella del Livre de vie monastique (1968), Regole che giudico di alta qualità spirituale, non hanno avuto irradiamento o hanno segnato esperienze rapidamente morte o senza accrescimento; altre invece, come la Règle de Taizé o la Regola di Bose sono una traccia che dà forma a delle comunità rispettivamente da sei e quattro decenni…

In ogni caso, comunque si voglia rispondere a queste domande, un dato rimane certo: una nuova Regola è un frutto di uomini illuminati dalla fede cristiana e dalla vocazione alla vita religiosa, ma ciò che resta la Regola delle regole, la prima e assoluta Regola è il Vangelo. Ogni Regola, dunque, va giudicata solo sulla sua fedeltà al Vangelo, sulla sua capacità di essere segno delle vestigia Christi.

Enzo Bianchi, Priore di Bose