Memória dos defuntos - 2013


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GIACOMO MANZÙ, Exsurrexit et adhuc sum tecum
GIACOMO MANZÙ, Exsurrexit et adhuc sum tecum

Bose, 2 novembro 2013
Homilia de ENZO BIANCHI
A nossa vocação cristã, e para nós monástica, completar-se-á com a morte. A morte não está de fora da vocação

 Bose, 2 novembre 2013
Omelia di ENZO BIANCHI

Ascolta l'omelia:
 

Abbiamo ascoltato le tre letture bibliche previste per questa memoria dei morti. Nella prima lettura (Gb 19,23-27a) c’è la speranza del credente che nella morte non sarà solo, ma sarà vendicato dalla potenza della morte, ad opera di un Riscattatore, di un Goe’l. Sono le parole di Giobbe. piene di speranza: anche nella morte il Riscattatore si leverà da ultimo e riscatterà tutti i suoi fratelli. Nella lettera di Paolo ai Tessalonicesi (1Ts 4,13-18) abbiamo ascoltato quale comunione costituisca la morte: una comunione con i santi del cielo, con quelli che sono già morti tra i cristiani della prima ora e con quelli che Paolo ipotizza, pur ancora in vita, raggiungeranno le altre sorelle e gli altri fratelli morti ma già in Cristo, nel Signore veniente. E nel vangelo (Gv 6,37-40) abbiamo ascoltato la promessa di Gesù: lui risusciterà quanti vanno a lui, quanti il Padre gli ha dato, e non li caccerà fuori.
Più volte abbiamo meditato su questi testi, ma in questa eucaristia vorrei ricorrere, come commento di tutti e tre i testi, a una parola di Paolo nella Seconda lettera ai Corinti:

Vi ho già detto che siete nel nostro cuore, per morire insieme e vivere insieme.
In cordibus nostris estis ad commoriendum et ad convivendum (2Cor 7,3).

In queste parole di Paolo c’è una verità decisiva per noi, che sovente ci sfugge o addirittura ignoriamo: la verità che la morte cristiana dovrebbe essere un morire insieme, così come la vita cristiana è un vivere insieme. Purtroppo molti danno ragione al detto: “Si nasce da soli e si muore da soli”. Questo è il pensiero del mondo, ma per chi ha ricevuto il dono della fede in Cristo non dovrebbe essere così!

Cerchiamo perciò di comprendere queste parole apostoliche. Innanzitutto il cristiano non muore da solo, perché proprio nell’immersione del battesimo muore con Cristo (cf. Rm 6,4; Col 2,12). Lo sappiamo: essere sommersi dalle acque del battesimo, semplicemente un segno, significa in verità morire alla vita mondana, far morire il nostro io che vuole vivere a ogni costo, senza gli altri e contro gli altri. Operazione, questa, che da soli non possiamo fare, ma che è possibile fare con Cristo, perché lui ci ha preceduti nella morte e lui ci starà accanto come compagno inseparabile nel nostro morire. Ogni cristiano nel battesimo muore con Cristo – è l’insegnamento di Paolo –, ma è anche vero che ogni giorno continua a morire nella misura in cui si conforma a Cristo, tentando, tentando (non di più!), di vivere la sequela del Signore. Dunque, la morte sta davanti a noi non come un evento di solitudine, ma come un evento di comunione. Se il Signore è stato con noi nella vita, ogni giorno, da quanto siamo nati fino a ora, e di questo abbiamo fatto esperienza nella fede, potrà forse abbandonarci nella morte? Non dimentichiamo che è questa domanda che ha fatto nascere la fede nella resurrezione nell’Antico Testamento, da parte dei nostri padri ebrei. E quindi noi ci facciamo la domanda, ma conoscendo la risposta: potrà forse il Signore Gesù Cristo non essere presente nella nostra ora pasquale?

Ma noi abbiamo anche un’altra convinzione riguardo al commoriendum. Nella nostra vita ci sono stati accanto i santi, quei santi che abbiamo amato, che ci sono stati di riferimento e di esempio, che ci sono stati amici. Anche loro saranno convocati accanto a noi nell’ora del nostro esodo e ci scorteranno, ci prenderanno per mano, e così la nostra morte sarà un pellegrinaggio carico di preghiera, una vera processione liturgica verso Dio.

E infine la vocazione ad commoriendum indica anche la dimensione della comunione fraterna: siamo chiamati a morire insieme, non solo a vivere insieme. Vita comune, vita di comunione, morte in comunione. Sì, il Signore ci ha fatto per ora questa grazia: tutti quelli che sono morti qui nella nostra comunità sono morti non nella solitudine ma nella nostra comunione fraterna; hanno avuto accanto a sé noi che li abbiamo accompagnati nella malattia e fino all’ultimo, nella morte. Possiamo dire che il Signore ci ha fatto la grazia di vivere la fraternità anche nella morte.

Ecco il completamento della nostra vocazione, anche nella morte. Questo costituisce un impegno a esercitarci a morire in comunione, amando gli altri e accogliendo l’amore degli altri. Vorrei dire soprattutto: accogliendo l’amore degli altri. Perché amare gli altri, non foss’altro per protagonismo, tentiamo di farlo tutti i giorni. Accettare invece l’amore degli altri e crederci, è molto più difficile. E forse il cristiano ha fede nella misura in cui crede all’amore degli altri verso di sé, non semplicemente perché ama gli altri. Non è forse la prima esperienza nella fede quella di un amore passivo e di credere all’amore di Dio per noi (cf. 1Gv 4,16)? Questo ci salva molto di più che i nostri protagonismi di amore, sovente falsi, sovente indirizzati male, sovente confusi con sentimenti ed emozioni che non sono un vero amore. Ma da parte degli altri vi è anche un impegno: l’impegno, per chi resta, a partecipare all’evento della morte in modo che non sia di solitudine e di abbandono.

Così facciamo memoria dei nostri morti, sapendoli in comunione, perché neanche nella morte ci hanno lasciati soli e noi non li abbiamo lasciati soli. La nostra vocazione cristiana, e per noi monastica, si completerà nella morte. La morte non sta fuori della vocazione: ne faremo un atto e un evento di comunione.

Bose, 2 novembre 2013
Omelia di ENZO BIANCHI