Luce nelle tenebre

958876ec956a18f8556f0856afbc9242.jpg

16 marzo 2025

II domenica di Quaresima
Luca 9,28b-36 (Gen 15,5-12.17-18)
di Luciano Manicardi

In quel tempo 28 Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. 29Mentre pregava, il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. 30Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, 31apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. 32Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. 33Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli non sapeva quello che diceva. 34Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All'entrare nella nube, ebbero paura. 35E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!». 36Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.


L’alleanza è il tema unificante delle letture della seconda domenica di Quaresima dell’annata C. Nella prima lettura (Gen 15,5-12.17-18) Dio stipula un’alleanza con Abramo promettendo una discendenza numerosa a lui che era anziano e senza figli. Qui l’alleanza è una promessa unilaterale di Dio a cui Abramo risponde con la fede. La pericope evangelica (Lc 9,28b-36) mostra Gesù come il Figlio che vive compiutamente l’alleanza con Dio: la preghiera è l’ambito della sua trasfigurazione, del suo farsi trasparenza alla presenza di Dio stesso. Le parole che Dio pronuncia indicano ai cristiani la via attraverso cui accedere all’alleanza e alla comunione con lui: ascoltare il Figlio. Nella seconda lettura (Fil 3,17-4,1) Paolo pone l’accento sul compimento escatologico dell’alleanza stretta da Dio in Cristo e parla dell’attesa e della speranza della trasfigurazione dei loro corpi di miseria che i cristiani di Filippi nutrono. Fede, speranza e preghiera sono elementi decisivi dell’apertura del credente all’azione trasformante di Dio.

La prima lettura è tratta dal cap. 15 di Genesi che, nella sua interezza, presenta la promessa di una discendenza ad Abramo nei vv. 1-6 e la promessa della terra nei vv. successivi (7-11.17-18). La frase solenne con cui Dio conclude l’alleanza fa l’unità delle due promesse: “Alla tua discendenza io do (lett.: “ho dato”) questa terra” (v. 18). Questo testo si riferisce a tempi patriarcali, ma è stato redatto in un’epoca molto più tarda, al tempo dell’esilio babilonese o verso la sua fine. Genesi 15 è rilettura di tradizioni antiche in funzione di una situazione nuova che il popolo sta vivendo: in particolare va incontro alle preoccupazioni dei figli d’Israele nell’esilio babilonese. Dio ripete ad Abramo la promessa di una discendenza (come già in Gen 12,2 e 13,16), ma Abramo si lamenta opponendo a Dio l’evidenza della realtà che smentisce la credibilità della promessa (Gen 15,2-3): lui non ha figli, è anziano, e Sara è sterile (Gen 11,30). Come suona tutto questo alle orecchie dei figli d’Israele deportati a Babilonia? Là essi sono minacciati nella loro esistenza come popolo. Con la storia di Abramo che ha creduto l’incredibile, il testo esorta a custodire la speranza anche in condizioni che la smentiscono. Il testo vuole sollecitare la fiducia dei figli d’Israele in esilio, li vuole esortare a fondarsi sull’esempio di Abramo che credette alla promessa divina anche quando questa era umanamente impossibile a realizzarsi. Come Abramo credette al futuro anche quando il futuro era bloccato, così i figli d’Israele nella deportazione sono chiamati a credere che l’umanamente impossibile possa divenire realtà. Nei vv. 7-21 Dio rinnova la promessa della terra, anzi nel v. 18 il testo ebraico dice: “Alla tua discendenza ho dato, questa terra”; come se la promessa fosse già realizzata. In che senso lo può essere? Non nella sua realizzazione, che ancora non c’è, ma nel fatto che Dio ha promesso. Il messaggio è che si tratta di credere alla parola di Dio più che all’evidenza deludente della vicenda storica e umana. Il rito misterioso narrato nei vv. 8-11 assume la forma di giuramento con cui Dio si impegna unilateralmente nei confronti di Abramo. Il rito tende a stabilire un rapporto stretto tra i due partner, che qui sono Dio e Abramo. Un’espressione presente in Ger 34,18 ci aiuta a comprendere: “Gli uomini che hanno trasgredito il mio patto, non attuando le clausole del patto stabilite in mia presenza, io li renderò come il vitello che tagliarono in due passando fra le sue metà”. Colui che giura passa in mezzo alle due metà di animali tagliati pronunciando una formula di autoimprecazione del tipo: “Che Dio mi renda come loro, e anche peggio se io non mi attengo al patto”. Chi si impegna, usa una formula di autopunizione nel caso di infedeltà. Qui, essendo Dio stesso, simbolizzato nel forno fumante e nella fiaccola ardente, che passa in mezzo agli animali tagliati, non c’è pronunciamento della formula, ma la scena significa che Dio si impegna irrevocabilmente. Che Dio sia rappresentato nei due simboli del fumo e del fuoco è tratto tipico delle teofanie, in cui l’elemento luminoso si accompagna a quello della nube, della caligine. Nella teofania sinaitica “il monte era tutto fumante e il Signore era sceso nel fuoco” (Es 19,18). A questo punto il significato dell’insieme del capitolo 15 è chiaro: Abramo ha creduto alla promessa umanamente irrealizzabile della discendenza e Dio assicura alla discendenza il dono della terra. Attraverso il ricordo delle vicende di Abramo, l’autore del racconto si rivolge ai figli d’Israele deportati a Babilonia. Loro sono la discendenza di Abramo a cui è donata la terra. Essi torneranno nella terra, rientreranno dall’esilio. Certo, ancora non possiedono la terra, ma, come Abramo, sono chiamati a credere alla promessa di Dio anche se tutto la contraddice. Dio si è impegnato con giuramento e non verrà meno alla sua parola. La storia passata dunque, è garanzia dell’avvenire. La storia antica di Abramo che attesta la realizzazione della promessa con il dono della terra vale ora come garanzia del ritorno nella terra per i deportati. Come un tempo Dio fece uscire i figli d’Israele dall’Egitto, come ha fatto uscire Abramo da Ur dei Caldei, ora Dio farà uscire gli esiliati dal paese di Babilonia. Siamo al nuovo esodo. Si apre il futuro grazie alla memoria del passato. Il passato, la vicenda di Abramo, l’esodo dall’Egitto, è garante dell’avvenire, del ritorno dalla cattività babilonese. Tutto questo ci consente di cogliere alcuni elementi che caratterizzano la speranza. La speranza si fonda sulla memoria. Biblicamente, sulla memoria di ciò che Dio ha compiuto di bene per il popolo. La memoria del bene ricevuto (non fatto), dell’amore ricevuto, della gratuità conosciuta è fondamento della speranza nei tempi di buio. La speranza si differenzia così dall’ottimismo che, al massimo, si basa sulla volontà ed è senza basi solide: ottimismo è l’“andrà tutto bene” del tempo della pandemia, è il “se vuoi ce la puoi fare” che diciamo a chi si trova in situazioni disperate e non ha nemmeno più la forza di volontà per uscire dalla situazione in cui si trova e noi, semplicemente, non sappiamo che cosa dire. Abramo non è per nulla ottimista, anzi, vede lucidamente la realtà e l’impossibilità umana di avere figli. Ma crede (Gen 15,6). E rinnova la speranza. Lo sperare di Abramo è come l’accensione di una luce nel buio più impenetrabile. Genesi 15 parla di una notte: cielo stellato (Gen 15,5), sole tramontato, buio (Gen 15,17). Ma questa notte ha anche valenza simbolica: Abramo è nella notte interiore, è abitato da sfiducia e paura. Il sonno in cui cade è simbolo di morte. Un grande terrore lo assale: la Vulgata dice che horror magnus et tenebrosus invasit eum. Abramo sente la morte vicina: “Io me ne vado senza figli” (Gen 15,2). La paura della solitudine radicale, dell’abbandono, del non senso e dell’infecondità in cui sta terminando la sua vita diventano senso vertiginoso di perdita di controllo sulla sua vita e di perdita di sicurezze su Dio e sulla sua promessa. Affiora il dubbio: Dio è ancora affidabile? Il futuro è a tinte fosche. L’atto di fiducia e di speranza di Abramo si configura così come un credere l’incredibile e uno sperare contro ogni speranza. “[Abramo] ebbe fede sperando contro ogni speranza … Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo e morto il seno di Sara” (Rm 4,18-19). La speranza è luce nelle tenebre, che non le dissipa ma consente di proseguire il cammino.

L’episodio lucano della Trasfigurazione si situa tra il primo (Lc 9,22) e il secondo annuncio della passione (Lc 9,44). La preghiera, l’apertura di Gesù all’azione trasfigurante di Dio (“Gesù salì sul monte a pregare … mentre pregava il suo volto divenne altro”: Lc 9,28-29), nutre ed esprime il corroborarsi della fede e della speranza di Gesù stesso che si manifesteranno di lì a poco nella decisione risoluta di salire a Gerusalemme seguendo il destino dei profeti e del servo del Signore (Lc 9,51). Anche la Trasfigurazione è luce che splende nelle tenebre senza abolirle. Nella preghiera Gesù trova conferma al proprio cammino e determinazione per seguirlo fino in fondo. La preghiera gli consente anche di cogliere questo cammino in continuità con la storia di salvezza condotta da Dio con il suo popolo: Mosè ed Elia parlavano con lui del suo “esodo” (Lc 9,31) che avrebbe compiuto a Gerusalemme. La preghiera illumina e orienta le decisioni esistenziali. L’ascolto della Parola di Dio e la preghiera, mentre confermano Gesù nel suo essere Figlio in rapporto al Padre, gli danno forza per affrontare l’ostilità degli uomini. La sua solitudine (“Gesù restò solo”: Lc 9,36) è segno della risolutezza di colui che vive la comunione con il Padre. La maniera in cui i discepoli riescono a vedere la Trasfigurazione è la vigilanza (Lc 9,32), la lotta contro il sonno che appesantisce il corpo e toglie lucidità. E si assiste anche al divenire dei discepoli che passano da un parlare insensato (Pietro che “non sapeva quello che diceva”: v. 33), all’ascolto (“Ascoltate lui”: v. 35) e infine al silenzio (“Essi tacquero e non annunciarono niente a nessuno”: v. 36). È il silenzio che custodisce il mistero dell’evento a cui hanno assistito.