Un corpo che desidera

15 02 09 cantico dei cantici

La nostra natura umana (questo indefinito miscuglio della nostra anima e del nostro corpo) “sa”, con un’incredibile perspicacia che travalica i concetti, che la pienezza di vita si ottiene soltanto nella reciprocità della relazione. Nella reciproca e integrale offerta di sé. Per questo la nostra natura investe nell’eros tutta la sua sete, abissale, di vita. Sete del corpo nostro e dell’anima nostra.

Abbiamo sete di vita, e l’eventualità della vita passa solo attraverso la relazione con l’Altro. Nella persona dell’Altro ricerchiamo la possibilità della vita: la reciprocità nella relazione. L’Altro diviene il “significante” della vita, la risposta sensibile al desiderio più profondo e imperioso della nostra natura. Forse non siamo innamorati della persona dell’Altro, ma della sete nostra incarnata nella persona di lui. L’Altro è forse pretesto, e l’offerta di noi stessi illusione. Anche questo, tuttavia, trasparirà soltanto nella distanza del fallimento.

Dopo il fallimento sappiamo che l’eros è il modo della vita, ma un modo inaccessibile alla nostra umana natura. La nostra natura ha disperatamente sete di relazione, senza saper esistere con il modo della relazione. Non sa spartire, mettere in comunione; sa solamente appropriarsi della vita, possederla, trarne un profitto. Se assaporare la pienezza equivale a creare una comunione di vita con l’Altro, la pulsione della nostra natura aliena la comunione in esigenza di proprietà e di possesso dell’Altro. Perdere il paradiso non è mai una pena: è soltanto un esilio che da noi stessi ci infliggiamo.

Abbiamo sete di vita, e ne abbiamo sete non con pensieri o concetti. Neanche con il nostro volere. Ne abbiamo sete con il nostro corpo e con la nostra anima. La pulsione per la vita, seminata nella nostra natura, irriga ogni minima piega della nostra esistenza. Ed è pulsione inesorabile di relazione

C. Yannaras, Variazioni sul Cantico dei cantici, Qiqajon, Bose, 2012, pp. 7-8