Beato Bartolo Bonpedoni, il «Giobbe della Toscana»

Toscana oggi, 19 maggio 2013
Nel saluto che il Priore di Bose premette alla celebrazione eucaristica di inaugurazione della permanenza stabile dei monaci in Cellole il 7 aprile

Toscana oggi, 19 maggio 2013

Nel saluto che il Priore di Bose premette alla celebrazione eucaristica di inaugurazione della permanenza stabile dei monaci in Cellole il 7 aprile u.s., fa riferimento a san Bartolomeo di Cellole. Incuriositi, siamo andati a consultare il sito dei Santi e Beati su internet ed abbiamo trovato una presentazione dello stesso santo fatta da Agasso Domenico su Famiglia Cristiana. Riponiamo integralmente quanto scritto da Agasso e da quanto rivelatoci dal priore Bianchi.

San Bartolo è nato circa nel 1228 e deceduto il 12 o 13 dicembre 1300 a Cellole di San Gimignano. Lamemoria si fa il 12 dicembre. Così scrive Agasso Domenico..È l'unico figlio deiconti Giovanni e Giuntina Bompedoni, e suopadre vuole vederlo sposato presto, perla continuità della casata. Anzi, vuole trovargli personalmente una moglie adeguata pertitoli e patrimonio. Ma a Bartolo non piace questa programmazione del suoa vvenire, e sene va di casa. Destinazione Pisa, dove lo accolgono i Benedettini di San Vito, ma non come aspirante monaco: lui non ha fretta, deciderà dopo aver riflettuto. Intanto, serve il monastero facendo l'infermiere tra i malati. Ma una notte fa un sogno, o forse ha una visione. Gli accade di vedere Gesù risorto, col corpo sempre piagato, e si sente dire: "Per fare la mia volontà, tu non dovrai diventare monaco; dovrai invece vivere nella sofferenza per vent'anni". Ricevuto quest"'avviso", Bartolo lascia il monastero die Pisa, andandosene a Volterra, dove entra nel Terz'Ordine francescano.

Un giorno lo chiama il vescovo di Volterra, che gl iindica di diventare prete, al servizio della diocesi. Bartolo accetta, viene ordinato e incomincia il suo ministero come cappellano a Peccioli, passando poi a Picchena come parroco. Ma qui si ammala inguaribilmente: frate Bartolo ha la lebbra. Eccolo arrivato al momento di prova: il suo servizio a Dio consisterà ora nel confortare i sofferenti, soffrendo con loro. E come loro Bartolo va a vivere nel luogo che accoglie i suoi compagni di disgrazia respinti dalla società: il
lebbrosario. Ce n'è uno nel vicino paese di Cellole, e lui si ritira lì come rettore della pieve, per gli ultimi vent'anni della sua vita.


 

Isolato, ma presto conosciutissimo, per il male che ha e per il suo modo straordinario di viverlo, dando conforto anche ai sani. Lo chiamano "il Giobbe della Toscana': Non fa miracoli: è un miracolo, personalmente, con la letizia francescana degli occhi e della parola, mentre il corpo si va disfacendo. Dopo la morte lo si venera come santo. Sepolto a San Gimignano nella chiesa di Sant'Agostino, gli verrà innalzato uno splendido sepolcro, opera di Benedetto da Maiano. Approvato nel 1498, il suo culto sarà confermato nel 1910».

 Il priore di Bose ha presentato con queste parole il «Giobbe della Toscana». Qui si è radunata una comunità di fratelli e di sorelle, come è la nostra composizione a Bose, presieduta da un priore che prestava servizio ai più poveri ed emarginati da tutti, i lebbrosi. In una Regola del 1250 Ildebrandino, che era in quel momento il priore della Pieve, raccomandava ai fratelli e alle sorelle, dando loro una regola: «vivano in perfetta fraternità, carità, pazienza, preghino alle ore determinate e vivano in modo da essere una vera fraternità del Signore». Ed è proprio in questa casa che giunge Bartolo, Bartolomeo Buonpedoni, che morirà qui nel 1300. Bartoio era entrato in un monastero benedettino a San Vito di Pisa al seguito di un anziano monaco santo di cui fu discepolo, in quel monastero di Pisa esercitò la cura dei malati, ma poi a cinquant'anni si ammalò di lebbra e come tutti i lebbrosi dovette lasciare il monastero. Ma venne qui in questa comunità, a Cellole, dove si curavano i lebbrosi per curare - lui lebbroso - i lebbrosi, fratello trai fratelli e con se ebbe un discepolo, anche lui santo, san Vivaldo.

Trascorse gli ultimi anni della sua vita come capo di questa piccola comunità e rettore della Pieve. Conosciutissimo, venne chiamato per la sua pazienza «ilGiobbe della Toscana», venne proclamato santo e il suo culto è stato confermato ancora ne lsecolo scorso da san Pio X. Un giorno accolse un lebbroso, un pellegrino lebbroso e, come a tutti, gli lavò i piedi in quella vasca che si trova nel chiostro. Ma mentre lavava i piedi, lui lebbroso sentì che colui a cui lavava i piedi non era soltanto un lebbroso, e in quel momento il lebbroso sparì alla sua vista, e lui capì che aveva lavato i piedi al Signore, quasi a realizzare le promesse del Giudizio: «ero lebbroso e mi avete curato». Un'icona dipinta dalla nostra comunità ha voluto ricordarlo qui. Ec'è la scena in cui egli sta lavando i piedi a Cristo, Cristo lebbroso e lui lebbroso, e non abbiamo dimenticato che nella Vulgata di sanGerolamo, nel canto del servo di Isaia 53 (era d'altronde la versione ufficiale della Chiesa latina), Gerolamo ha avuto coraggio di tradurre: «vidimus eum quasi leprosum, abbiamo visto il servo del Signore come un lebbroso».

A cura della Redazione di Toscana Oggi