La gioia della fede

Photo by Chris Lee on Unsplash
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Fratelli, sorelle,

nel Prologo della nostra Regola, su cui ci siamo soffermati a riflettere e a confrontarci nei giorni scorsi, vi è a un certo punto un’esortazione alla gioia: “Ungi il tuo corpo di profumo, sii allegro, riempiti il viso di gioia” (RBo 2).

La gioia è costitutiva dell’evangelo, della buona notizia. E in una vita cristiana essa si accompagna anche a preoccupazioni, tristezze, amarezze, rabbie, frustrazioni. Cioè a una quantità di emozioni e sentimenti che di gioioso non hanno nulla. La paradossalità della vita di fede fa sì che in noi possano coabitare sentimenti decisamente contrastanti.

Ma allora che spazio reale ha, come coltivare la gioia anche nelle tribolazioni? In che consiste? Nella Regola quell’esortazione è preceduta all’ammonizione a non fare nulla per essere visti e ammirati dagli uomini ed è seguita dall’invito a credere alla presenza di Dio che è dappertutto. Si tratta dunque di una gioia che non dipende dagli altri e dai loro comportamenti, ma da noi stessi e dalla nostra relazione con il Signore. È una gioia che non deve aspettare che le cose vadano come vogliamo noi per poter abitare in noi, perché è la gioia della fede, tout court. È quindi una gioia frutto di lotta interiore, di dialogo interiore. È una gioia poi non fittizia, non esibita, non di facciata; anzi nascosta, profonda, celata.

È anche una gioia nonostante: nonostante avversità e tristezze personali e comunitarie. In questo essa è totalmente identica e assimilabile alla fede, che è chiamata a reggere anche quando tutto vacilla e tutto la contraddice. Il credente crede anche, potremmo dire, contro Dio. E l’ebraismo, in particolare, ce lo insegna. Così come il credente spera contro ogni speranza. E cerca di amare contro ogni ragionevolezza, poiché è chiamato ad amare chi amabile non è: il nemico, colui che cerca di fargli del male, di danneggiarlo.

Si tratta di una gioia in cui noi ci identifichiamo nel profondo, in cui facciamo consistere la nostra saldezza, al di là di ciò che stiamo provando e sentendo emotivamente e psichicamente. È la gioia in cui noi facciamo consistere la motivazione della nostra scelta di vita. E che dunque ha a che fare con chi noi siamo, con la nostra identità. E dunque è la gioia che, come dice il IV evangelista, niente e “nessuno ci può togliere” (Gv 16,22). Noi abbiamo saldezza quando ormai assumiamo che la nostra vita è gettata nel Signore con l’atto di fede. E dunque che motivo ormai potremo avere di paura? “Che cosa potrà farci un uomo? Questa gioia ci libera dalla dipendenza che ci può portare ad agire per farci ammirare dagli uomini o dalla dipendenza di chi è impaurito dagli uomini e vive sempre in reazione ad essi. Due forme simili e diverse di dipendenza, di non libertà.

Ecco, direi che questa gioia radicale è quell’evangelii gaudium così cara a papa Francesco e che trova un eco rivolta a noi nella lettera che ci ha indirizzato: “Che nulla e nessuno vi tolga la certezza della vostra chiamata e della sua bellezza e la fiducia nel futuro”. La gioia della vocazione. Gioia che è lotta, come dice ancora papa Francesco nella sua lettera, per “non lasciarsi turbare da voci che mirano a gettare discordia tra di voi”. Spesso nelle regole monastiche antiche si usa l’espressione, di derivazione paolina (Gal 1,10; 1Ts 2,4), “non piacere agli uomini”. Possiamo tradurre questa espressione come un uscire dalla dipendenza che ci porta ad asservirci ad altri nella via della compiacenza e del servilismo o, al contrario, nella via della paura che, di fatto, ci tiene subalterni e sempre e solo reattivi ad essi e mai veramente attivi e protagonisti.

Perciò, fratelli e sorelle, siamo sobri e vigilanti perché il nostro Avversario, il Divisore, come leone ruggente si aggira cercando una preda da divorare. Resistiamogli saldi nella fede e gioiosi e pieni di speranza perché il Signore è fedele, non smentirà le sue promesse e porterà a termine il lavoro iniziato in noi. E tu, Signore, abbi tanta pietà di noi.

fratel Luciano