Lettera agli amici - numero 11

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A partire da questo n. 11 del Qiqajon di Bose (Pentecoste 1980), la contestualizzazione storica è curata da Massimo Faggioli, Docente al Dipartimento di Teologia e Studi Religiosi presso la Villanova University (U.S.A.) e amico fraterno di Bose.

La lettera della Pentecoste 1980 apre con una analisi della nuova fase nella vita della chiesa, da una prospettiva critica delle tendenze in atto: “una fase del post-Concilio Vaticano II ricca di fermenti, feconda di manifestazioni della Parola ma proprio per questo anche segnata da strozzature, da ambiguità e minacciata da paure e nostalgie del passato”. La critica si appunta sul riflusso dall’ondata delle ideologie che avevano attraversato tanto la società quanto la chiesa nel decennio precedente. Il riflusso si vede dagli “atteggiamenti e parole magari prodigiosi ma che sono prese in prestito dallo spazio e dalla sapienza carnale e mondana”. Segnali contraddittori venivano dalla stessa chiesa: a inizio 1980 era diventato arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini, che sarebbe poi diventato uno degli amici della comunità. Nei mesi precedenti era scoppiato lo scandalo con al centro Michele Sindona, che avrebbe condotto a scoprire collegamenti tra ambienti della criminalità finanziaria e la banca vaticana dello IOR.

La lettera vede con anticipo il tramonto, nello spazio ecclesiale, del discorso sulla libertà della chiesa e del cristiano come quello sulla liberazione degli oppressi, a favore invece di parole d’ordine tese a riproporre la chiesa come “soggetto dominante”, prima di tutto tramite dinamiche di comunicazione ecclesiale che premiano “il medium ecclesiale rispetto al suo messaggio”. Era iniziata l’era di Giovanni Paolo II (eletto nell’ottobre 1978) e, con lui, di un particolare uso delle tecniche di comunicazione di massa da parte del papato.

La seconda parte della lettera è tutta dedicata a Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, assassinato il 24 marzo 1980 per la sua opera e predicazione contro le violazioni dei diritti umani da parte della giunta militare di El Salvador, arrivata al potere l’anno prima e sostenuta dal governo degli Stati Uniti. Dalla lettera traspare la consapevolezza del rifiuto del Vaticano e delle gerarchie ecclesiastiche di sostenere Romero nonché l’isolamento sofferto da Romero, non solo prima ma per lungo tempo anche dopo il martirio: “Oscar Romero ci ha dato, per grazia di Dio, un segno visibilissimo, leggibile, epifanico, per quanti nella chiesa non hanno voluto capirlo”.


Carissimi amici, ospiti e voi che ci seguite da lontano,

nella vigilia della Pentecoste mentre si fa più intensa la nostra preghiera per la venuta dello Spirito Santo in noi e su tutta la chiesa, ancora una volta appare il nostro qiqajon, questo povero foglio teso a mantenere vivo il dialogo con tutti voi.

Vogliamo innanzitutto dirvi che siamo in un momento particolarmente importante del nostro cammino comunitario: negli ultimi due anni, da quando abbiamo deciso di accogliere nuovi fratelli e nuove sorelle in comunità, siamo cresciuti di numero ed ormai si fanno più urgenti per la comunità scelte di presenza anche altrove e non più soltanto a Bose. La comunità gode di grande pace ma più che mai è chiamata alla vigilanza, al discernimento, alle decisioni per configurare il nostro prossimo cammino. Per questo vi chiediamo di pregare per noi perché il Signore ci confermi sempre nella nostra vocazione e ci aiuti a compiere la sua volontà e non i nostri desideri.

Negli anni '80 il mondo richiederà a noi una presenza e dei segni nuovi e noi, nel nostro spazio di libertà e di comunione con la chiesa, non dovremo deludere queste attese, questi richiami a volte molto informi e non velocemente decifrabili. Anche la chiesa sta mutando, più di quanto noi possiamo quotidianamente percepire, e di questo mutamento ognuno di noi, ogni chiesa, ogni comunità, ogni ministero, ogni cristiano è sicuramente responsabile.

Siamo infatti entrati in una fase del post-Concilio Vaticano II ricca di fermenti, feconda di manifestazioni della Parola ma proprio per questo anche segnata da strozzature, da ambiguità e minacciata da paure e da nostalgie del passato. L'audacia evangelica si è forse affievolita? La memoria di quell'ora pentecostale che fu il Concilio non è più capace di destare testimonianze? Il riflusso, la stanchezza della militanza, l'incrinarsi delle certezze ideologiche hanno raggiunto anche i cristiani offuscando la loro perseveranza e affievolendo la loro speranza? Dove va la chiesa? questa chiesa che noi amiamo perché essa è il corpo di chi, come capo, è salito al cielo?

Molti vedono, nell'attuale stagione che stiamo attraversando, un'ora di grande affermazione, di gloriosa presenza della chiesa nel mondo: gli uomini nella ricerca di fondamenti solidi che sostituiscano il crollo delle ideologie guardano, è vero, alla chiesa più che mai e ne attendono una parola, un messaggio. E la chiesa consapevole di questa congiuntura vi risponde ma purtroppo, almeno così a noi sembra, non con la stoltezza della predicazione della croce (1 Co 1,21ss) ma con atteggiamenti e parole magari prodigiosi ma che sono prese in prestito dallo spazio della sapienza carnale e mondana.

Sui grandi temi della riforma della chiesa regna ormai un complotto di silenzio da parte di tutte le componenti ecclesiali. Il primato dell'Evangelo, la signoria assoluta di Cristo sul corpo ecclesiale sono discorsi smorzati che a fatica risuonano a volte nelle nostre assemblee; il discorso sulla povertà della chiesa e del cristiano unito a quello della liberazione degli oppressi risuona ormai a molti orecchi come un tema di contestazione; la richiesta di libertà, della libertà dei figli di Dio, appare come istanza pericolosa, quasi minacciante la doverosa comunione di fratelli nel cammino verso il Regno.

Affievoliti dunque questi annunci e quasi venuti meno questi segni, la chiesa è tentata di riproporsi nuovamente al mondo quale soggetto dominante, erede dei dominanti sbalzati dai troni: così essa si sta riinserrando organizzativamente e cerca di diventare chiesa confessante occupando spazi e inventandosi compiti che il Signore non le ha assegnato. È normale in questa prospettiva che acquistino sempre maggior rilievo le figure e i problemi dei vertici e che gli uomini siano tentati di guardare più al Papa, più ai grandi leaders dei movimenti che al loro messaggio, quel messaggio che può soltanto portare la debolezza della croce, se autenticamente cristiana.

Ha ragione il nostro amico Pino Ruggieri quando nota: « è legge ferrea della comunicazione che il significato, il messaggio presente nei segni possa essere completamente offuscato dal prevaricare dei segni stessi, dalla loro autosostituzione al messaggio che portano ». L'unico segno che Gesù ha dato alla sua generazione non era forse il segno poverissimo di Giona, quello dell'impotenza della croce? Il prevalere oggi incontestabile del medium ecclesiale rispetto al suo messaggio potrà radunare folle, provocare emozioni popolari, far credere a una dilatazione della chiesa, ma resta ambiguo. Quando Gesù si accorse che molti, vedendo i segni che faceva, misero fede nel suo nome non mise fede nella loro fede perché conosceva tutti e sapeva quello che c'è in ogni uomo (cfr. Gv 2,23-25). Certo questo sembrerebbe il cammino della chiesa nei prossimi anni ma il Signore non fa mancare mai l'appello alla santità, alla testimonianza. Qua e là, nel nascondimento e nella durezza del quotidiano, uomini e donne che non trovano voce a causa del prevalere del potere sociale della chiesa, continuano a curvarsi sotto il peso della Parola di Dio, imparano ad essere servi, nient'altro che servi di IHWH, bruciano di quel fuoco che Gesù Cristo desiderò tanto veder bruciare sulla terra, stanno in mezzo agli uomini fieri della loro qualità di essere cristiani senza arroganza e senza vantare diritti diversi dagli altri uomini.

Ma il Signore che è buono ha dato tuttavia alla chiesa un'occasione di eucarestia, di grande rendimento di grazie, nel martirio del vescovo Oscar Romero. Questo evento ha dimostrato agli occhi non intontiti dalla sapienza del mondo l'intervento del Dio che trionfa nella debolezza (cfr. 2 Co 12,9). Non c'è solo Oscar Romero tra i martiri dei nostri giorni, perché molti uomini, preti e laici, vengono uccisi, fatti sparire, imprigionati, perseguitati nelle chiese che stanno in paesi dove si professa l'ateismo di stato e in quelle che hanno come dominatori uomini che pretendono di essere cristiani. Tuttavia Oscar Romero ci ha dato, per grazia di Dio, un segno visibilissimo, leggibile, epifanico, per quanti nella chiesa hanno voluto capirlo. Non era al servizio di nessuna ideologia, voleva soltanto illuminare le sue pecore con la luce del Vangelo, predicava la non-violenza e la pace evangelica in un contesto di ingiustizia e di soppressione del povero.

Nell'Omelia della V domenica di Quaresima, l'ultima lunga omelia al suo gregge, egli diceva: « Ricordate ciò che dice il brano di Isaia appena letto? Gli Israeliti si gloriavano del primo esodo quando Dio li trasse dall'Egitto, quando attraversarono il deserto, quando vi furono grandi prodigi attraverso Mosè, però non dovevano gloriarsi di questo passato che ormai appartiene alla storia. Dio infatti dice: « Io faccio nuove tutte le cose ». Dio è colui che fa nuove tutte le cose, è il Dio che cammina con la storia... La storia non perirà, perché Dio la sostiene. Perciò vi dico: nella misura in cui i progetti storici cercano di riflettere il progetto eterno di Dio, in questa misura diventano riflesso del Regno di Dio. In questo sta il compito della chiesa: popolo di Dio nella storia non si installa in nessun sistema sociale, in nessuna ideologia politica, in nessun partito. La chiesa non si lascia catturare da nessuna di queste forze perché essa è la pellegrina eterna della storia e va indicando in tutti i momenti storici ciò che realmente riflette il Regno di Dio e ciò che non lo riflette. La chiesa è serva del Regno di Dio ! Il gran lavoro dei cristiani è quello di ispirarsi al Regno di Dio e con l'anima imbevuta di questo Regno trasformare anche i progetti della storia... Per questo noi dobbiamo essere grati alla chiesa, cari fratelli politici, e non manipolare la chiesa per farle dire quel che noi vogliamo che dica... Io non ho nessuna ambizione di potere e per questo dico con piena libertà al potere ciò che è bene e ciò che è male, e lo dico a qualunque gruppo politico perché è mio dovere... Non dobbiamo essere complessati nei confronti delle organizzazioni politiche né dobbiamo cercare di piacere più a loro che al Regno di Dio. Noi non dobbiamo mendicare nulla da nessuno perché abbiamo molto da dare a tutti: questa non è superbia ma l'umiltà riconoscente di chi ha ricevuto da Dio una rivelazione da comunicarsi agli altri ».

Concludendo l'omelia il vescovo Romero così ancora diceva: « Alla prossima Via Crucis del Venerdì Santo noi vogliamo dare tutto il significato di riscatto, di denuncia, e di solidarietà che devono accompagnare i cristiani quando meditano la Passione di Cristo all'interno di un popolo che cammina esso pure caricato di una Croce. La "Via Crucis" che celebreremo deve essere solidale con la "Via Crucis" degli uomini poveri e oppressi del nostro popolo ».

Romero non ha celebrato la Via Crucis solo liturgicamente, l'ha vissuta nella sua carne, presso l'altare, dopo aver ricordato la morte del Signore. Sull'altare dell'offerta egli moriva ucciso soltanto a causa di Cristo. Questo martirio non per la confessione ortodossa del Nome ma per la testimonianza al Regno di Dio non è qualcosa di nuovo per la nostra storia. Così infatti morirono i profeti dell'Antico Testamento e altri testimoni della chiesa tra cui ci piace almeno ricordare Thomas Becket egli pure vescovo assassinato presso l'altare. Ma in Romero oggi tutti noi come chiesa siamo messi alla prova perché il martire testimonia la fede della quale la chiesa vive, mostra la carità che è in lei, mostra la sua speranza non in questo mondo e nella sapienza mondana ma solo nel Signore risorto !

Il padre Michele Pellegrino nei suoi numerosi scritti sul martirio cristiano insiste sul carattere ecclesiale del martirio: la chiesa riconosce nei martiri coloro che meglio hanno realizzato gli ideali cui essa si ispira nel credere e nell'operare; in essi riconosce le sue membra elette, i suoi figli migliori, perché il martirio è atto della chiesa. A riconoscere l'ecclesialità della uccisione del vescovo Romero noi tutti siamo chiamati perché tutti sappiamo che la vera forza della chiesa non è il suo prestigio umano né la sua importante organizzazione, né la sua presenza "sociale" ma la profondità del suo amore, l'autenticità del suo servizio fino alla morte.

Non tutti riceviamo la grazia e abbiamo la forza del martirio ma non dimentichiamo che quanti « subiscono scherni e flagelli, catene e prigionia, sono lapidati, torturati, segati e uccisi di spada o quanti andarono nel deserto, sui monti coperti di peli di pecora, bisognosi, tribolati, tenuti in poco conto » (cfr. Eb 11,36-38) sono per noi esempi di testimonianza (martyria) ecclesiale.

Ogni giorno ciascuno di noi può edificare la chiesa con la martyria, la testimonianza, o può credere di edificarla con la sapienza umana: l'importante è morire secondo la fede e, se non otteniamo le cose pro-messe, le vediamo e le salutiamo da lontano quali ospiti e pellegrini sulla terra che gemono per la venuta dello Spirito santo, la venuta del Regno di Dio.

A voi tutti amici il nostro saluto nella speranza: Shalom!

I fratelli e le sorelle di Bose

vigilia della Pentecoste, 24 maggio 1980



Lettera agli amici - numero 11

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