Alla voce indegnità

Non possiamo dare per tranquillamente acquisiti questi principi fondamentali: troppe sono le circostanze storiche, i regimi politici, le aree geografiche che ancora oggi contraddicono apertamente questi assunti. Anzi, la maggiore circolazione di notizie e di immagini su scala planetaria ci portano ad assistere quasi in diretta all’epifania di orribili violazioni della dignità umana. Basterebbe ricordare le immagini delle torture nel carcere di Abu Ghraib in Iraq per capire che quando si ignora la qualità umana di chi ci sta di fronte, il peggio diventa non solo possibile ma addirittura naturale, ovvio, banale. Hannah Arendt non ha forse potuto parlare a ragione di “banalità del male”? E quello che è successo ad Auschwitz o nei gulag delle isole Solovki non ha preservato la famiglia umana dai massacri di Srebrenica o della regione dei Grandi Laghi, né ha svuotato campi di aberrazione come Guantanamo.

Ma credo ci sia un elemento relativo al rispetto dei diritti umani che sovente è ignorato o rimosso, nonostante appartenga a tutte le grandi tradizioni etiche e sapienziali: la persona umana è rispettabile non per le sue qualità eminenti o per i suoi tratti nobili ed elevati, ma proprio quando è priva di questa “dignità”, quando ha smarrito la forma umana ed è interamente affidata alla cura dei suoi fratelli e delle sue sorelle in umanità. È quanto afferma già Sofocle nell’Edipo a Colono quando mette in bocca al protagonista questa frase terribile e vera: “Proprio quando io non sono niente, allora divento veramente un uomo!”. Edipo, colui che ha ucciso il padre e ha vissuto l’incesto con la madre, l’uomo che ha trasgredito gli interdetti fondamentali che l’umanità ha posto come frontiera invalicabile, accanto al suo affermare di non essere più nulla rivendica la pretesa di un’umanità autentica, il rispetto della propria dignità umana.

Pubblicato su: La Stampa