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Responsabilità e sfide condivise

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Intervista a +Didier Berthet, vescovo di Saint-Dié (Francia), presidente del Consiglio per l’ecumenismo della Conferenza episcopale francese

Il presidente del Consiglio episcopale francese per l’ecumenismo e il dialogo con l’ebraismo, mons. + Didier Berthet, vescovo di Saint-Dié (Vosgi), ha trascorso a Bose alcuni giorni di ritiro dopo Pasqua. Responsabile dell’ecumenismo nella Conferenza dei vescovi francesi dall’autunno scorso, era stato battezzato da bambino nella chiesa riformata, nella quale ha vissuto le sue prime esperienze di fede prima di diventare cattolico. Finestra ecumenica gli ha chiesto come vede lo stato dell’ecumenismo nel suo paese.

Dalla sua nuova funzione, quale prima idea si è fatto della situazione dell’ecumenismo nel suo paese?

Il panorama francese delle chiese, tradizionalmente, presenta un cattolicesimo maggioritario tra i cristiani (anche se certamente non nella società). Vi è poi un protestantesimo ancora a maggioranza riformata, con una tonalità abbastanza liberale e che si pone di fronte al cattolicesimo in modo determinato! Ma, come ovunque, conosciamo anche l’emergere del protestantesimo evangelicale, sotto forme molto varie, che cerca di distinguersi dal protestantismo tradizionale e toglie di fatto a quest’ultimo il suo monopolio di interlocutore con la chiesa cattolica.

Certo, il protestantesimo in Francia è stato segnato dalla costituzione nel 2013 della Chiesa protestante unita di Francia che include riformati e luterani. È stata un’opera notevole e senza dubbio una buona notizia: quando delle chiese si uniscono, adempiono sempre un passo in avanti nella ricerca dell’unità dei cristiani.

Per quanto riguarda l’ortodossia in Francia, è segnata da tensioni tra la chiesa che appartiene alla giurisdizione del Patriarcato ecumenico e quella legata al Patriarcato di Mosca. Sono tensioni sulle quali noi non abbiamo da pronunciare giudizi. Siamo piuttosto chiamati a portare il fardello con l’altro fratello, a capire quelle tensioni, quelle sofferenze, ascoltando e rimanendo in legame sia con gli uni sia con gli altri, e aiutando gli ortodossi stessi a lavorare per la riduzione di quelle tensioni nel contesto dell’Assemblea dei vescovi ortodossi di Francia.

La responsabilità a livello nazionale per l’ecumenismo le è stata conferita nell’anno di commemorazione della Riforma. Come ha vissuto quelle celebrazioni?

Sono stato segnato in particolare da un evento molto bello, in rapporto a tale contesto, che ha a che fare anche con la mia storia personale: provengo dal protestantesimo riformato in cui ho ricevuto il battesimo. A fine ottobre, c’è stato a Strasburgo il grande raduno “Protestants en fête”: ero invitato a una tavola rotonda con il pastore François Clavairoly, presidente della Federazione protestante francese. Vi andavo con qualche apprensione, temendo un incontro a due che poteva facilmente trasformarsi in un dibattito contradditorio. Ma in realtà ho sperimentato lì un’autentica fraternità: la mutua ricerca di una migliore comprensione dell’altro, che permetta di superare le posizioni confessionali rigide e l’orgoglio per la propria identità contrapposta a quella dell’altro. Quest’incontro veramente fraterno mi ha permesso di riconoscere nel presidente dei protestanti francesi un omologo. Si è creata per noi due, in quel momento, una memoria comune positiva. Questo dimostra che, se si superano le reticenze di fronte all’incontro, ci si può scoprire autenticamente fratelli.

A volte, da ex-riformato, temo che il mio passato pesi sul contatto con i protestanti. Ora non è così, almeno per me: la realtà è che mi è impossibile adottare una posizione di faccia a faccia rispetto a questa chiesa perché la porto in me, nella mia genetica cristiana. La mia situazione allora non è di confronto, ma di stima e di gratitudine. Tale atteggiamento mi permette di entrare in modo più immediato in relazione con quanti appartengono a questa tradizione.

A livello più generale come vede i rapporti tra le diverse chiese, nel suo paese?

Nel dialogo tra cattolici e ortodossi, si cerca di riprodurre a livello locale quanto realizza la commissione internazionale: si lavora a livello teologico, con una riflessione molto erudita. Attualmente riflettiamo su primato e sinodalità, un tema ricorrente in quel dialogo: è indubbiamente interessante, ci riporta alle nostre fonti, ma manca un po’ il dialogo della vita. Si fa fatica così a inventare il futuro… La grazia del dialogo con gli ortodossi è di condividere la conoscenza – che essi conservano – delle nostre radici comuni: il mondo ortodosso infatti ha una coscienza molto viva della chiesa indivisa, del radicamento nella grande tradizione cristiana. In questo modo però si rimane molto al livello dell’investigazione storica, e si fatica a guardare al presente e soprattutto al futuro, compreso come creazione nello Spirito santo di un nuovo modo di essere insieme. In quel dialogo ci sarebbe da considerare maggiormente il nostro compito comune di testimonianza da rendere a Cristo nella società attuale.

Con i protestanti, invece, oggi si va maggiormente in quella direzione. Per esempio il dialogo della chiesa cattolica con gli evangelicali in Francia ha pubblicato recentemente un eccellente studio su “Evangelizzare oggi”: tra cattolici e protestanti, sempre di più, ci si percepisce quasi altrettanto minoritari nella società, e questo spinge verso l’urgenza di una testimonianza comune, di una presenza cristiana da sostenere congiuntamente.

Vorrei a questo riguardo segnalare l’eco che proviene dai giovani: per loro, l’ecumenismo non è in primo luogo una questione di dialogo tra chiese, ma di esperienza comune, attraverso la lode, la preghiera, l’evangelizzazione, l’azione diaconale. Le differenze sono come messe da parte. Per le nuove generazioni, la problematica ecumenica non si pone come cinquant’anni fa: per loro il cammino verso l’unità è segnato da incontri puntuali, da raduni di un momento, da esperienze condivise, più che da riflessioni teologiche da portare avanti. Questo può anche essere promettente per un cammino da percorrere insieme.

Tra chiese si creano però anche nuove configurazioni su questioni etiche, con convergenze e divergenze che non seguono le linee di divisione tradizionali…

Certo. Ma, in fondo, se il mondo lutero-riformato in Francia si avventura fino al punto estremo del contatto con le realtà e le scelte etiche della società attuale, forse lo fa anche a nome delle altre chiese, che su tali punti sono più riservate. Per il matrimonio tra persone dello stesso sesso, per esempio, e le altre questioni legate a questa problematica, i riformati adottano un atteggiamento molto aperto, cercando un accostamento fino alle sue ultime conseguenze; sicuramente anche noi cattolici lo tentiamo sul piano pastorale, mentre siamo ancora nel “non possumus” dal punto di vista dottrinale. Mi viene allora da chiedermi: non è che le nostre diverse chiese si incaricano di responsabilità e di sfide in qualche modo a nome le une delle altre? Una chiesa, a nome delle altre chiese cristiane, va più in là nella riflessione, nell’accettazione di alcune realtà: non ci impegna certamente, ma allo stesso tempo non ne siamo completamente estranei! Certo, questa avventura è difficile, crea divisioni anche all’interno del protestantesimo; ma queste divisioni sono il frutto di tentativi, di esperienze, e – come ammonisce Paolo – dobbiamo portare i pesi gli uni degli altri: si tratta dunque di portare anche questo peso assunto dal protestantesimo su tali tematiche.

Parlava prima di testimonianza comune: secondo lei l’incontro e la condivisione con le altre chiese si gioca primariamente a livello locale, nelle iniziative comuni, più che a livello di dialoghi nazionali o internazionali?

Questo piano è essenziale. Ma mi sembra necessario anche inventare nuovi metodi per incontrarsi. Conosciamo il procedimento del “consenso differenziato” nel dialogo, che ha dato dei bei frutti, come l’accordo congiunto sulla dottrina della giustificazione tra luterani e cattolici nel 1999. Ma magari si potrebbe immaginare quello degli “sguardi incrociati”, in cui una chiesa dice – su un determinato punto – cosa riconosce nella pratica dell’altra chiesa. Allora si finirebbe forse per riconoscere elementi della propria pratica da fare evolvere, ispirandosi a quella degli altri.

Quale è la sua speranza per il cammino ecumenico dei prossimi anni?

Non ho una speranza definitiva, perché è il Signore ad aprire le vie: da parte nostra non possiamo esprimere attese specifiche. Ma ci sono due cose: penso che con gli ortodossi dobbiamo innanzitutto tessere nuovamente una memoria comune. Quello che ci ha separato è l’allontanamento reciproco, che ci ha reso estranei gli uni agli altri. Per superare questo dato di fatto, dobbiamo ritrovare la nostra memoria comune. Questo esige non solo un lavoro in approfonditi colloqui ecumenici, ma che le nostre chiese inventino tempi di pellegrinaggio, di preghiera, di raduni che possano ricreare un’esperienza condivisa. Le chiese sorelle di Roma e di Costantinopoli per esempio ce ne danno un modello bellissimo con le loro visite reciproche: quando una vive un evento importante, l’altra è presente. Queste visitazioni creano una memoria comune che permette di costruire insieme una storia.

Il secondo punto che dobbiamo incentivare per dare speranza all’ecumenismo è la testimonianza comune. Pensiamo alla visita comune del papa e del patriarca ecumenica all'isola Lesbo: costituisce una testimonianza davanti all’Europa intera, e una testimonianza estremamente profetica. Ma più localmente anche, sul piano pastorale, se riusciamo ad assumere insieme tra diverse chiese la preparazione dei matrimoni dei fedeli delle nostre comunità, o l’accompagnamento della diaspora, degli immigrati, certamente daremo dei segni importanti di una via percorsa in comune.

Certo, la logica del cammino ecumenico nasce dalla preghiera del Signore ricordata in Giovanni 17: diventare uno per testimoniare Cristo insieme in modo credibile. Ma, allo stesso tempo, è anche testimoniando insieme di Cristo che si progredisce sempre di più verso l’unità. Le due logiche sono di pari importanza e si rispondono. Se il dialogo ecumenico tra specialisti non è accompagnato dal dialogo della vita e della testimonianza comune, rimarrà in gran parte sterile!