Johannes Willebrands: un uomo fatto per l’amicizia, umana e divina

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Maria Ter Steeg* Per Finestra ecumenica
*teologa cattolica, già vice-presidente di Pax Christi – Paesi Bassi

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Gli avvenimenti della II guerra mondiale segnarono profondamente Johannes Willebrands (1909-2006), nato e cresciuto nei Paesi Bassi, soprattutto a partire dal rientro come giovane presbitero nella sua diocesi di Haarlem, dopo una tesi di dottorato in filosofia a Roma (1937). Visse il difficile reinserimento nella società olandese durante la guerra, una società precedentemente divisa tra raggruppamenti di diversa tendenza religiosa e politica.

La resistenza e il movimento clandestino contro l’occupazione fascista (1940-1945) aveva riunito in modo inedito quanti erano interessati a realizzare un dopoguerra nuovo, costruito attraverso uno sforzo politico che accomunava credenti e non-credenti. I cristiani inoltre facevano valere i loro legami transnazionali, incidendo così - con iniziative di dimensioni anche ristrette – nelle ostilità e nei conflitti che contrapponeva i diversi stati. Una simile evoluzione si nota già dai primi anni ‘40 in varie regioni dell’Europa: spesso piccole iniziative cristiane, ecumeniche, con impatto sociale: l’assistenza ai rifugiati (fr. Roger Schutz e i primi fratelli di Taizé), l’ospitalità (la comunità ecumenica e monastica femminile di Grandchamp), la preghiera (il ‘monastero invisibile’, comunità spirituale animata da Paul Couturier). Né va dimenticata la fondazione, finalmente realizzata nel 1948, del Consiglio Ecumenico delle Chiese ad Amsterdam.

Questo contesto sociale fu decisivo per il giovane e intellettualmente dotato presbitero Jo Willebrands. Anch’egli si augurava un contributo specifico dei cristiani al futuro dell’Europa, a condizione che non coltivassero le loro storiche divisioni confessionali. Willebrands, persona mite e modesta, in pochi anni riuscì a tessere una rete di contatti cordiali con vari pastori delle chiese della Riforma in Olanda, anche se in un primo tempo i suoi interlocutori furono soprattutto quanti desideravano un passaggio al cattolicesimo, fino a divenire presbiteri cattolici (i cosiddetti pastores convertiti).

In modo più determinante però Willebrands veniva ad assumere, negli anni ’50, una posizione di responsabilità per l’ecumenismo a livello nazionale, posizione che gli consentiva di viaggiare all’estero e di conoscere istituti, professori e pastori di altre tradizioni cristiane, responsabili delle varie chiese in Europa, persone con sensibilità ecumenica, disposte a collaborare a livello internazionale. Tra loro rappresentanti del Consiglio ecumenico delle Chiese (il primo segretario generale, il pastore Visser ‘t Hooft) e di vari monasteri come quello di Chevetogne in Belgio. In seguito Willebrands costituì un circolo di teologi cattolici, legati da fraterna amicizia, denominato Conferenza Cattolica per le Questioni Ecumeniche, che si riuniva per studiare temi ecumenici, a volte anche un tema trattato nell’ambiente dello stesso Consiglio ecumenico (come The Lordship of Christ over the Church and the World, Chevetogne, 1957).

Quando papa Giovanni XXIII, il 25 gennaio 1959, annunciò il Concilio Ecumenico Vaticano II, Willebrands quindi disponeva di un’ottima squadra di teologi, ben preparati per le attività richieste nel dipartimento per l’ecumenismo eretto nel  1960 come Segretariato per l’Unità dei cristiani, sotto la presidenza del card. Agostino Bea e del quale Willebrands venne nominato segretario. Autentica “porta” che consentiva agli osservatori non-cattolici di “entrare” nell’assise conciliare, Willebrands si rivelò la persona adatta per convincere le altre chiese delle buone intenzioni della chiesa cattolica. Willebrands animava – sotto lo scudo del saggio cardinal Bea, e assistito da teologi come Jedin, Lortz e Congar – il rinnovamento conciliare. Le prime stesure dei documenti sull’ecumenismo, sulla libertà religiosa, e sui rapporti con le religioni non cristiane a cominciare dall’ebraismo (Nostra Aetate), provenivano dal Segretariato per l’Unità, che ne accompagnava tutto l’iter, dall’origine fino alle votazioni finali, su mari a volte molto mossi.

Il periodo post-conciliare è stato per Willebrands – nel frattempo consacrato vescovo da papa Paolo VI nel 1964 e successivamente cardinale nel 1969 – una stagione movimentata, interamente dedicata al recupero dei buoni rapporti della chiesa cattolica romana con le altre chiese e – impresa particolarmente impegnativa - con l’ebraismo, il “fratello maggiore” del cristianesimo. Durante il Concilio, infatti, Willebrands si era battuto affinché i rapporti con l’ebraismo fossero affidati al ‘suo’ Segretariato, nonostante autorevoli pareri in contrario. Il periodo post-conciliare gli riservava anche il faticoso ministero di arcivescovo della diocesì di Utrecht nel suo paese natale: dal 1975 al 1983 svolgerà questo incarico part-time, mantenendo al contempo la presidenza di quello che nel frattempo era diventato il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.

Avendo avuto il privilegio di conoscerlo da vicino e di aver condiviso con lui alcune sollecitudini pastorali, vorrei sottolineare alcune caratteristiche dell’uomo, del cristiano e  del pastore Willebrands. La coerenza fondamentale della sua visione ecumenica era intimamente  connessa alla sua vita interiore e al suo indefesso servizio ecclesiale. Tornando agli anni della sua formazione, va sottolineato come non avesse scelto un’ulteriore formazione in teologia, ma si fosse dedicato alla filosofia. Partendo da una propensione neo-tomista, giunto a Roma per compiere una tesi sul cardinale John Henry Newman, restò affascinato dalla nuova direzione indicata dal filosofo Newman: una visione della rivelazione divina, distinta dal tomismo. Quel che gli risultava evidente e lo attraeva era il concetto del Dio che si rivela gradualmente, progressivamente nella storia umana, chiedendo a ciascuno una risposta personale e libera. Assomigliava a Newman anche nel suo - mai realizzato - desiderio di vivere in una comunità di preti dell’Oratorio. 

Willebrands ha saputo interiorizzare la visione di un Dio che condivide la natura umana. Nel suo quotidiano servizio alla comunità ecclesiale sapeva custodire il colloquio interiore con il Signore. Riconosceva la presenza del Signore nei fedeli cristiani di altre tradizioni: l’ecumenismo, per lui, mirava all’inclusività, all'amicizia voluta da Dio per la sua creazione.  Non si stancava di rinnovare la sua vita spirituale e morale: i documenti lasciati in eredità, nel suo archivio personale (custodito a Lovanio), stanno a testimoniare della sua sensibilità e dell’alta concezione della coscienza. 

Stimava e viveva la fedeltà nelle amicizie, anche nel loro aspetto più modesto e invisibile: era l’uomo fatto per l'amicizia, umana e divina. E di questo sono profondamente grati al Signore quanti lo hanno conosciuto e amato.

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