Ospiti in questo mondo

XXV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa
IL DONO DELL'OSPITALITÁ
Monastero di Bose, 6-9 settembre 2017
in collaborazione con le Chiese ortodosse

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6 settembre 2017
Articolo pubblicato su L'Osservatore Romano

tratto dall'intervento di sua santità Bartolomeos I, Arcivescovo di Costantinopoli e Patriarca ecumenico

Il tema che il comitato scientifico ha proposto per la venticinquesima sessione interpella non solo le Chiese di Dio, non solo i credenti nel Cristo risorto, ma tutti gli uomini di buona volontà, in quanto viviamo un periodo storico, in cui parlare di ospitalità può diventare scomodo, ancor di più se vogliamo intendere la ospitalità come un dono.

La nostra riflessione parte dalla consapevolezza della esistenza di una relazione d’amore che esiste tra il creato e il suo Creatore, in quanto opera dell’amore divino. «In principio Dio fece il cielo e la terra. Ma la terra era invisibile e disorganizzata, e c’era tenebra sopra l’abisso, e lo spirito di Dio aleggiava sull’acqua» (Genesi, 1, 1-2). Dio crea da sé cielo e terra, ma subito Egli partecipa alla sua stessa creazione. È lo sguardo dell’innamorato che vuole creare relazione. Relazione che fa istituire a Dio un legame profondo e misterioso con la sua creazione attraverso la Parola: «E Dio disse: Che ci sia la luce! E la luce fu. E Dio vide che la luce era una cosa bella» (Genesi, 1, 3-4). La stessa espressione la ritroviamo alla fine di ogni giorno della creazione, al secondo giorno con la separazione delle acque col firmamento; al terzo con la creazione della terra e delle piante; al quarto con la suddivisione tra giorno e notte e delle stelle; al quinto giorno con la creazione di pesci e uccelli, a cui si aggiunge un nuovo atto di amore divino: e Dio li benedisse (Genesi, 1, 22). La Parola di Dio diviene performativa. Dio benedice la sua opera e ne suggella la sacralità. Bellezza e sacralità fanno percepire la trasfigurazione cosmica dell’atto creativo di Dio. «I cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l’opera delle sue mani» (Salmi, 18, 2). Il sesto giorno la stessa terra diviene generatrice di benedizione, perché da essa escono “anime viventi”, gli animali, chiamati alla fecondità.

Assistiamo in questo percorso a una teofania creativa, che nulla ha a che fare con qualche forma di panteismo. Questa teofania prepara la terra abitabile, come il fidanzato prepara la casa per la sua fidanzata, patto eterno d’amore. Così acqua e terra diventano gli elementi della vita e le piante producono frutto, divengono benefiche, salutari, nutritive o semplicemente belle: «Osservate come crescono i gigli: essi non lavorano non filano; eppure io vi dico che Salomone stesso, in tutta la sua gloria, non fu vestito come uno di loro» (Luca, 12, 27). Esse appartengono alla terra per renderla abitabile, poiché sono centro e fonte di vita.

L’essere umano compare verso la fine del capitolo, creato a immagine di Dio eppure indissolubilmente legato alla terra, da cui viene tratto: «Facciamo un uomo a nostra immagine e somiglianza». Per la creazione dell’uomo Dio agisce nuovamente con la sua Parola non più in modo impersonale, ma direttamente, relazionando il suo essere Dio con la stessa possibilità dell’uomo di essere a immagine e somiglianza del creatore. L’amore divino manifesta una attenzione diversa per l’uomo, secondo il suo progetto primordiale teofanico e trasfigurante. Vi è una correlazione data dalla condivisione della terra tra mondo animale ed essere umano, chiamato da Dio Adam, da adamah la terra, che pone in relazione il mondo animale con l’uomo, ma la specificità della somiglianza a Dio nell’uomo instaura in lui un legame di responsabilità paradisiaca. È lì che Dio si relaziona con Adamo, lasciando a questi il compito di dare un nome a ogni essere vivente. L’azione umana evoca quella divina della creazione e instaura il legame di responsabilità: Dio è responsabile per la creazione che ha chiamato all’esistenza, così l’essere umano diviene responsabile degli esseri viventi a cui ha dato un nome. Se naturalmente c’è qualche cosa di unico nell’uomo creato a immagine di Dio, non viene meno la sua relazione col creato. Secondo i Padri della Chiesa l’umanità costituisce un vincolo di unità tra Dio e il mondo materiale, di cui è parte organica e senza la quale non potrebbe vivere, ma dall’altra possiede delle caratteristiche proprie di Dio, che pongono la creazione in relazione con Dio.

La libera scelta dell’uomo, nel giardino di Dio, nell’Eden, di prendere il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, contravvenendo al disegno iniziale del Creatore, innesca la sua caduta dalla relazione paradisiaca e teofanica con Dio. Il patto d’amore si rompe, il fidanzamento è tradito e l’uomo non esercita più la funzione di abitante, ma di ospite e straniero, di forestiero e immigrato, «perché mia è la terra e voi siete presso di me come ospiti e forestieri» (Levitico, 25, 23). La estraniazione, la fuoriuscita dall’ospitalità frontale con Dio è il risultato del peccato di Adamo ed Eva. Tuttavia Dio non rompe il patto con l’uomo, l’amore di relazione permane anche dopo la caduta. La terra resta abitabile anche per le generazioni future: «Per tutti i giorni della terra, semina e raccolto, freddo e caldo, estate e primavera, né di giorno né di notte, non cesseranno». (Genesi, 8, 22). «Ecco, io stabilisco la mia alleanza con voi e con la vostra discendenza dopo di voi» (Genesi, 9, 9). Noè diviene il testimone della relazione esistente tra Dio e il creato. Dio accoglie l’uomo straniero e ospite e con lui attende la glorificazione di tutto il creato. Vi è una profonda connessione tra l’amore divino per la creazione e l’estraneità dell’uomo caduto per il creato, che farà dire a Paolo: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità — non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa — e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Romani, 8, 19-21). Tutta la creazione abita la terra e loda il Signore, atto di libertà espresso magnificamente nel Salmo 148: «Lodate il Signore dai cieli, lodatelo nei cieli altissimi».

San Gregorio Palamas affermava che i cristiani rispondono con la lode e lo stupore quando contemplano i capolavori della creazione visibile di Dio. Cristo ha restaurato l’ospitalità di Dio nell’uomo, gli ha donato la libertà pasquale mediante la morte e risurrezione. Ha redento il cuore degli uomini restaurandolo come “tenda-tempio” della ospitalità di Dio: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi». (1 Corinzi, 6, 19). E nella pratica della sua fede, il credente ospita lo straniero come Dio lo ospita nel mondo, creandolo, e nella sua misericordia, salvandolo. Misericordioso è colui che ospita nel suo cuore il misero, mette il suo cuore vicino a quello del misero, colui che permette all’altro di rigenerarsi, di sentirsi a casa sua, di riposarsi e di fare l’esperienza che c’è qualcuno che condivide insieme la propria storia. L’ospitalità è quindi condivisione, un protendersi verso l’altro, un prendersi cura degli altri. È la parabola del samaritano che si prende cura, che dedica il suo tempo. Non assorbe l’altro, non lo eguaglia a sé, ma lo rispetta in tutta la sua radicale differenza. È ospitalità che si fa accoglienza. Non esistono più stranieri ma ospiti, perché ospitare il forestiero e lo straniero, significa ospitare Cristo stesso. «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Ebrei, 13, 2).

Nella Lettera a Diogneto si dice che i cristiani «vivono nella loro patria, ma come forestieri». Il monachesimo ricorda che quaggiù non c’è una dimora permanente, ma come dice san Paolo: «La nostra cittadinanza è nei cieli». (Filippesi, 3, 20). Ma esso è anche spazio di libertà e di franchezza e perciò di incontro e di riconoscimento reciproco tra diversi. È anche follia in Cristo e un fuggire la fama, i riconoscimenti. Massimo di Kavsokalyva, sul santo Monte dell’Athos, si spostava costantemente bruciando la capanna in cui precedentemente dimorava, per evitare notorietà e fama. Ma è anche interiorizzazione dell’armonia cosmica, teofanica della creazione, trasfigurante nella sua ospitalità. È questa trasfigurazione che fa una persona, pura di cuore, capace di percepire il legame con la creazione. San Serafino di Sarov, nutriva l’orso nelle foreste del nord, san Francesco parlava con tutte le creature, san Gerasimo del Giordano viveva con un leone.

Come la vera natura di Dio è l’Amore, anche l’umanità è originariamente destinata al compito di amare. La terra abitabile è Maria, l’umanità ospitata è il Dio teantropo, eros divino fino alla follia. Follia per i non credenti, vanto per i cristiani.