Si apre in questi giorni il concilio panortodosso: facciamo il punto

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Come annunciavamo nel primo numero di questa “Finestra ecumenica”, in questi giorni si è aperto il “santo e grande concilio della chiesa ortodossa”, evento storico che si prepara da oltre 50 anni e che è la prima convocazione conciliare che riguarda l’intera Chiesa ortodossa dopo circa 1200 anni.

Come notavamo, dopo la sua convocazione nel gennaio 2016, con il consenso di tutte le chiese ortodosse (convocazione formalizzata dall’enciclica del patriarca ecumenico uscita il 20 marzo 2016) i documenti conciliari preparatori sui sei argomenti all’ordine del giorno [pdfDocumenti tradotti in italiano] hanno cominciato a circolare nelle varie chiese, suscitando varie discussioni e reazioni. Discussioni molto costruttive, attraverso l’organizzazione di numerosi convegni di studio e forum di confronto, ma anche, assai presto, discussioni accese e polemiche, nel contesto di frange più conservatrici presenti nelle singole chiese ortodosse che sempre di più hanno fatto sentire la loro voce (anche attraverso un uso abile dei media).

Per alcuni mesi, comunque, la situazione è rimasta sostanzialmente circoscritta: le discussioni e le polemiche infatti non hanno superato i confini delle singole chiese nazionali, né sembravano mettere in dubbio la decisione comune della convocazione conciliare. Un problema a parte, certo, era rappresentato dal complesso contenzioso canonico (in corso ormai da anni) tra il Patriarcato di Antiochia e il Patriarcato di Gerusalemme per la giurisdizione sul Qatar: sebbene questa tensione restasse invariata, sembrava anche però profilarsi, con la mediazione delle altre chiese e in particolare del Patriarcato ecumenico, la possibilità di un “congelamento” temporaneo della questione che consentisse quantomeno la celebrazione del concilio, in attesa che il problema, ad assise conclusa, potesse essere risolto in modo definitivo.

In maniera improvvisa e, per un osservatore esterno alquanto inspiegabile, la situazione è precipitata verso la fine del mese di maggio e le polemiche intorno ai documenti hanno cominciato ad assumere toni sempre più drammatici. “I metri finali della maratona pre-conciliare – ha detto con efficacia un commentatore –, che le chiese ortodosse hanno corso per più di cinquant’anni, si sono tramutati in un intenso dramma. Quando la corsa diventa uno sprint c’è la possibilità che i corridori collassino appena prima della linea del traguardo, o piuttosto decidano di tornare indietro alla posizione da cui la corsa era iniziata” .

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Ma che cosa è successo?

Tralasciamo di elencare le singole polemiche, anche quelle che hanno avuto molta eco sui media, ma che di fatto non hanno contraddetto nella sostanza l’obbedienza alla volontà di una comune partecipazione al concilio (ad es. i pronunciamenti di alcuni metropoliti del sinodo di Grecia e della sinassi straordinaria degli igumeni del Monte Athos).

Gli eventi più preoccupanti sono iniziati il 1° giugno, quando il sinodo della Chiesa di Bulgaria ha chiesto formalmente il rinvio del concilio facendo sapere che non avrebbe partecipato all’assise nella data fissata. Il motivo? L’assenza dall’ordine del giorno del concilio di temi ritenuti essenziali, il mancato consenso in merito ad alcuni documenti (l’allusione è soprattutto anche se non esclusivamente al documento su “Le relazioni della chiesa ortodossa con il resto del mondo cristiano” e il regolamento del concilio giudicato troppo vincolante e troppo poco “sinodale”, insieme ad altre obiezioni di ordine minore.

Nei giorni successivi sono seguite dichiarazioni sostanzialmente simili da parte dei sinodi delle chiese di Georgia e di Serbia che chiedevano ugualmente il rinvio del concilio (quest’ultima senza spingersi fino alla rinuncia a prendervi parte).

Intanto il Sinodo del Patriarcato di Antiochia, prendendo atto che non vi erano margini per una soluzione della sua pendenza canonica e, dunque, per ristabilire la comunione eucaristica con la Chiesa di Gerusalemme, ha dichiarato di non poter partecipare al concilio. Si noti però come la posizione della Chiesa di Antiochia non sia assimilabile a quella di altre chiese contrarie al concilio: mentre queste ultime (per dirla in modo un po’ superficiale) temono che dal concilio possano emergere novità e cambiamenti inaccettabili, la Chiesa di Antiochia è nota da tempo per le sue posizioni avanzate, sia sul tema del dialogo ecumenico e interreligioso, sia su quello dei diritti umani e in generale del rapporto con la società contemporanea.

In questo contesto estremamente teso la posizione del Patriarcato di Mosca è rimasta incerta fino all’ultimo momento. In un primo tempo il suo Sinodo ha chiesto formalmente al Patriarcato ecumenico di convocare d’urgenza una sinassi inter-ortodossa, prima del 10 giugno, allo scopo di trovare una convergenza con le chiese che avevano manifestato la propria contrarietà, convergenza ritenuta indispensabile per lo svolgimento del concilio.

Il Patriarcato ecumenico, dopo una sessione straordinaria del suo Sinodo permanente, il 6 giugno, manifestando sorpresa per le posizioni delle sue chiese sorelle, ha risposto che “non sussiste alcun quadro normativo per una revisione della procedura sinodale ormai avviata”.

In questo modo Costantinopoli dichiara di non avere le competenze sufficienti per interrompere il processo sinodale avviato per volontà comune di tutte le chiese ortodosse: il Patriarca ecumenico non ha il potere di prendere decisioni unilaterali (nonostante le accuse di “papismo” che alcuni gli rivolgono, il suo ruolo nella chiesa ortodossa non è paragonabile a quello del papa per la chiesa cattolica).

Così stando le cose, anche il Sinodo del Patriarcato di Mosca, il 13 giugno, ha chiesto in via ufficiale di rimandare il concilio, constatando l’impossibilità di raggiungere posizioni convergenti e la defezione di numerose altre chiese ortodosse: il concilio – si dice – deve esprimere l’unità panortodossa e non ammette divisioni; se ci sono divisioni, vuol dire che il concilio è prematuro ed è necessario prolungare il periodo preparatorio. Inoltre Mosca solleva riserve sul sistema rappresentativo adottato e auspica che il futuro concilio veda la partecipazione dell’intero corpo episcopale della Chiesa ortodossa, non solo di una parte di esso.

L’unità ortodossa a questo punto sembra minacciata e molti si chiedono cosa possa avvenire. Il concilio è ancora realistico in queste condizioni? I suoi sostenitori insistono nel ripetere con convinzione che l’unico spazio in cui l’unità può essere cercata e raggiunta è proprio il concilio. Non ce ne sono altri. Come dice un pronunciamento della Chiesa di Albania: “È evidente che i problemi sono tanti. Appunto per questo si deve celebrare il Grande e santo sinodo. È impossibile risolvere tutti i problemi, ma almeno alcuni saranno affrontati. Il poco è meglio di nulla … Il rinvio ferirà profondamente l’autorevolezza internazionale della Chiesa ortodossa”. Inoltre, l’unità non è da ritenere come un presupposto di partenza, ma un traguardo a cui tendere: i concili si fanno, si sono sempre fatti per ricercare l’unità, non solo per manifestare un’unità già esistente. Le divisioni esistenti non vanno sottovalutate, ma neppure esagerate.

Ma una domanda sorge spontanea: data la non-partecipazione di alcune chiese, quale valore canonico/normativo potrà avere questo concilio? Resterà un concilio “panortodosso”, anche senza la partecipazione di tutti?

Il Patriarcato di Mosca e le altre chiese che ne condividono le posizioni affermano che la validità del concilio è legata alla partecipazione di tutte le chiese (l’idea è fatta derivare dal principio dell’unanimità che il regolamento prevede come condizione per l’approvazione di ogni decisione conciliare) e che quindi le decisioni prese da un concilio in cui alcune chiese sono assenti semplicemente non hanno valore.

Il Patriarcato di Costantinopoli, dal canto suo, fa notare che il concilio è stato voluto e convocato unanimemente dai primati di tutte le chiese ortodosse riuniti in sinassi a Ginevra nel gennaio di quest’anno, e che come tale resta valido e “panortodosso”, e tali saranno le sue decisioni, anche se – per loro scelta – alcune delle chiese convocate non sono presenti. Le chiese assenti, nella misura in cui si astengono dal partecipare al concilio e dall’esprimere la propria voce, non possono costituire un veto rispetto alle decisioni conciliari. Del resto – si fa ancora notare – neanche nei grandi concili ecumenici del passato sono mai state rappresentate tutte le chiese della cristianità. In ogni caso, la vera storia ecclesiale di un concilio inizia sempre dal momento della sua conclusione: come questo concilio sarà considerato dipenderà dalla ricezione che avrà nella coscienza e nella vita ecclesiale dell’intera ortodossia. Nessuno può dirlo in anticipo.

Pochi giorni fa, l’11 giugno un gruppo di oltre mille intellettuali ortodossi hanno lanciato un estremo appello all’unità, inviando ai capi di tutte le chiese ortodosse una lettera aperta con cui si chiede di procedere nel cammino conciliare: “Mentre gli occhi del mondo intero sono rivolti alla Chiesa Ortodossa, noi supplichiamo tutti i nostri capi di ascoltare l’appello dello Spirito all’unità conciliare”.

Ma un lettore ingenuo, a questo punto, potrebbe avanzare una semplice domanda: perché tutta questa situazione? Come mai un concilio, che per definizione cerca l’unità (il suo motto è: “Ha chiamato tutti all’unità”), suscita tante divisioni?

Non è nostro compito qui, come altri in questi giorni hanno fatto sui media, azzardare giudizi o tentare letture storiche e politiche (o addirittura geo-politiche) per spiegare i difficili meccanismi che hanno portato a questa complessa situazione, né avanzare ipotesi premature su come il concilio potrà restare un’occasione di pace e di unità, e non di ulteriore divisione.

Il Patriarca Kirill, in una lettera inviata ai capi della Chiese riunite a Creta, auspica: “Non ci turbi il fatto della disparità di opinioni delle Chiese sorelle in merito alla convocazione del Santo e Grande Concilio… Non possiamo permetterci che esse indeboliscano l'unità voluta da Dio, né che le lasciamo degenerare in un conflitto intra-ecclesiale che introduca la divisione e il turbamento tra di noi”

Vorremmo fare nostre anche le sagge ed equilibrate parole dell'arcidiacono del Trono Ecumenico John Chryssavgis: “Quando i membri di una famiglia sono stati isolati per un lungo tempo – nel caso delle chiese ortodosse autocefale, per interi secoli – è naturale che la paura e l’incertezza adombrino la possibilità di conversazione”; ma questo, da un altro punto di vista costituisce anche “la grandezza e la bellezza di questo evento. È come quando osserviamo qualcuno che fa i primi passi: possiamo sorridere per l’imbarazzo, ma continuiamo ad ammirare il coraggio e la determinazione del suo sforzo” .

Non solo dunque dobbiamo astenerci dal giudicare, ma il nostro sguardo, da sguardo di giudizio dovrebbe potersi tramutare in sguardo di sincera ammirazione, perché tutta la fatica che i nostri fratelli ortodossi stanno facendo altro non è che “la fatica della carità” (κόπος της αγάπης 1Ts 1,3), di cui parla l’Apostolo. E la carità è sempre a caro prezzo.

Il concilio di Creta è dunque un’occasione preziosa, un autentico καιρός, anche se forse sarà solo un primo passo di un lungo processo conciliare (del resto nei concili antichi non era forse normale che un unico evento conciliare si svolgesse in più sessioni successive? Non è avvenuto così anche al Vaticano II e in tanti altri concili occidentali?). Al di là delle decisioni che saranno prese e dei documenti che saranno approvati, sarà importante il concilio in quanto tale, e sarà veramente “grande e santo” nella misura in cui diventerà un’occasione di comunione, un’occasione per “guardarsi in faccia” e “lasciarsi disarmare” (per usare due espressioni care al Patriarca Athenagoras) un evento cioè che, “sfuggendo di mano” (per così dire) ai singoli attori umani, lascerà spazio al Dio della pace e della comunione

In questo spirito, riteniamo che l’unico atteggiamento giusto ed evangelico per dei cristiani che guardano dall’esterno (ma con intima compartecipazione) questo evento sia quello di una fraterna vicinanza che, astenendosi da qualunque giudizio, si traduca in una preghiera intensa e convinta, nella consapevolezza che ciò che qui è in gioco supera tutti. Il concilio è lo spazio predisposto perché lo Spirito possa soffiare; non è solo opera umana ma è nelle mani di Dio. Ripetiamo con il Salmista: “È tempo per te di agire, Signore!” (Sal 119,126).

Invitiamo tutti coloro che ci seguono, quindi, a unirsi alla nostra preghiera perché il Signore faccia scendere il suo Spirito, sciolga ogni durezza, componga le divisioni, crei vie di unità, affinché tutti abbiano la disponibilità di “ascoltare ciò che lo Spirito dice alle chiese” (Ap 2,7).

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Per approfondire:

Bartholomeos I, Incontro al mistero. Comprendere il cristianesimo oggi, Qiqajon 2013

P. Kalaitzidis, Nel mondo ma non del mondo. Sfide e tentazioni della chiesa nel mondo contemporaneo, Qiqajon 2016

J.P. Manoussakis, Per l'unità di tutti. Contributi al dialogo teologico tra oriente e occidente, Qiqajon 2016 (in uscita).

Cf. anche il recente articolo del priore fr. Enzo Bianchi La fatica e la gioia di decidere insieme su La Stampa di domenica 19 giugno.